Author: Alessandro Frangi

ALEPPO

Aleppoè una trottola cromata, cava al suo interno, con un motore che le fa compiere trenta giri al minuto. Un’opera che racconta la vitalità e il desiderio di normalità dei bambini di un paese martoriato come la Siria, che tenta di rinascere. Aleppo racconta cromaticamente il paesaggio dell’infanzia, ne costituisce un bagaglio in continuo movimento in cui sono contenuti i colori ed il gioco, in un orizzonte in cui il presente continua incessantemente, talvolta in maniera dolorosa, a bussare alla porta.

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Aleppo, 2016, installazione ambientale, motore elettrico, acciaio, resina poliestere, cromo liquido, colore per vetro 

DELLE PIÙ BELLE, LE PAROLE, MANCO A DIRLE PENSANO DI ESSERE

Manciate di lettere seminate e perse da una grossa palla capricciosa che rotola. Parole in grande libertà e di curiosa incomprensibile qualità. Parole come cielo stellato da unire con un trattino. Parole costellazioni, parole per guardare e vedere più in là del naso. Parole da leggere senza capire, a bocca aperta.

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Delle più belle, le parole, manco a dirle pensano di essere, 2016, installazione ambientale, silicone, legno, luce wood, WowPowder

KAMIGAMI

Kamigami è una scatola magica che amplifica la percezione dello spazio e di ciò che sta al di là del nostro limite fisico. È scultura che si vede dal buco della serratura dalla quale si intuiscono la griglia costruttiva e la struttura ricorsiva di un mattoncino moltiplicarsi all’infinito. Kamigami è un miraggio che pare reale, è rifrazione, creazione di uno spazio intimo e magico che trasforma ludicamente l’osservatore in voyeur.

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Kamigami, 2016, installazione ambientale, ferro cromato, laccato, zincato, specchio, legno, luce neon

L’ULTIMA STANZA

L’ultima stanza chiude il percorso dei continenti, dopo la Cina, il Sud Africa, il Guatemala e l’Italia, si documenta con immagini e un breve video realizzato da un canale online di Al Jazeera la vicenda del colletttivo ArtsLords diretto da Kabir Mokamel che, in Afghanistan, ha invaso la città di Kabul con i suoi graffiti, realizzati sui muri della città, eretti per cercare di fronteggiare i frequenti attacchi suicidi. Ma non solo. Chilometri di mura abbandonate, macerie, edifici sventrati sono a disposizione dell’arte, per denunciare un paese segnato dalla corruzione e perseguire una resistenza culturale sulla falsariga dei murales di Banksy, in una terra continuamente oppressa dai talebani. L’opera con cui il collettivo ha vinto il Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani Anti-Corruption Excellence Award è il murales con i grandi occhi che ci guardano e interrogano, affiancati dalla frase che è anche una possibile conclusione di questa mostra: “Ho visto la vostra corruzione che non è nascosta agli occhi di Dio, benché voi cerchiate di nasconderla alla gente”. 

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LA STANZA DEL TERRAZZO

C’è Roma a fare da filo conduttore di questa stanza. Tre artiste con diversi approcci affrontano il tema di una città il cui destino ha spesso intrecciato grandezza e corruzione. Emblematica da questo punto di vista l’opera di Elena Monzo, sulla destra, che con il suo stile che sa essere delicato e tagliente nello stesso tempo, lavora sull’immagine simbolo della Città eterna: la lupa. Ma sotto di lei non troviamo i celebri gemelli bensì figure femminili nude, che richiamano l’immagine di una nuova Babilonia, accentuata da una vestale, una neo Salomè che, appoggiata alla nicchia, si pro-pone. 

Il lavoro di Marica Fasoli nella parete di fronte si richiama invece ad un episodio celebre e ai confini del credibile nella Roma in cui il potere papale era all’apice. Si tratta del regalo che Manuele I, re del Portogallo, fece nel 1514 a Leone X, uno straordinario elefante albino, chiamato Annone. Quando il “presente” del re passò in corteo per le strade di Roma fu un vero trionfo. Nel 1962 durante i lavori nei Giardini del Belvedere, alcuni operai si imbatterono nei resti di una grande mascella e di un dente gigantesco. Solo a fine anni ‘80 lo storico Silvio Bedini riuscì a ricostruire la vicenda e a ricollegare quei resti all’elefante Annone, che a Roma non aveva resistito molto, morendo nel 1516. L’elefante, a cui si racconta che il papa si fosse molto affezionato, era diventato il simbolo delle degenerazioni del potere pontificio, pronto a cedere alle lusinghe dei potenti d’Europa. Simbolo anche di una corruzione profonda che avrebbe sollevato l’indignazione degli ambienti filo-luterani. La pubblicazione delle tesi e lo scisma protestante erano alle porte.

In alto, volutamente in disparte, a vegliare e interrogare la Roma divisa tra i due poteri terreni, imperiale e papale, è l’opera di Adele Ceraudo, una fotografia (scattata da Matteo Basilé) in cui la stessa artista posa in croce. Anche in questo caso il richiamo corre inevitabilmente all’episodio di corruzione che sta all’origine della Crocifissione di Gesù.  

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IL BAGNO

Una collocazione che più pertinente non si poteva immaginare per l’opera di Annalisa Pirovano, che approccia il tema del rapporto tra sessualità e potere. Il suo lavoro mette a tema un soggetto da sempre molto amato dagli artisti: quello biblico di “Susanna e i vecchioni”. È la vicenda di una giovane e bella ragazza che viene sorpresa da due anziani che frequentano la casa del marito. I due “vecchioni” che sono da poco stati nominati giudici, prima la importunano con proposte oscene, poi, di fronte alle sue resistenze, l’accusano di adulterio davanti al marito. La Pirovano immagina la scena all’interno di un bagno vintage, attualizzando la storia biblica e avvicinandola all’immaginario collettivo pruriginoso. La sua opera è dunque una riflessione su sesso, potere e corruzione.

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La terza stanza

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È monografica e dedicata al ciclo “donotclickthru”, di Debora Hirsch, artista brasiliana che vive e lavora a Milano. Il lavoro si presenta come una sequenza di immagini disegnate su piccoli fogli di acetato, con un riquadro che suggerisce lo schermo di un computer o l’interfaccia di un social media come può essere Instagram, e una breve didascalia che fa parlare l’immagine, nel senso che ne svela il paradosso. L’operazione di Debora Hirsch, con ironia e intelligenza, ci parla del depistaggio che il sistema mediatico opera rispetto al reale andamento delle cose. Un sistema di depistaggio che sempre più spesso viene acriticamente accettato. È una forma di corruzione della capacità critica delle persone, quella che l’artista ci racconta con la sequenza delle sue schermate. E mettendocela davanti agli occhi attiva la curiosità e stimola a opporre una nuova conoscenza capace di andare oltre la frenesia dei click.

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LA SECONDA STANZA

Il video di Regina José Galindo è uno dei punti certamente più intensi e drammatici del percorso. È un’opera celebre, presentata nel 2013, una denuncia impressionante delle degenerazioni del potere dell’ex presidente del Guatemala Efrain Rios Montt. L’artista seduta su un banco di scuola legge le dichiarazioni delle donne vittime di violenze e di soprusi durante la guerra civile in Guatemala. L’operazione viene interrotta più volte da un dentista che, a cadenza regolare, inietta dell’anestetico nella bocca dell’artista, limitandone sempre di più la capacità di formulare delle parole. La lettura si trasforma in un mantra pronunciato con immensa fatica. Ma nonostante il sistematico tentativo di censurare la sua voce, tentativo rappresentato dalla figura del dentista, l’artista continua a parlare imperterrita, con la voce che si spacca, le labbra gonfie e le parole sempre più rallentate. Il corpo dell’artista diventa in questo modo unità di misura della pressione dispotica del potere: assume su di sé le atrocità subite dal corpo collettivo.

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LA STANZA GRANDE

Un’altra escursione globale è in questa stanza del primo piano. Si confrontano due artisti, uno italiano e uno americano, che hanno messo a tema il Sudafrica di ieri e quello di oggi. Al passato del paese si rivolge il lavoro di Pietro Ruffo, esposto sulle tre pareti a sinistra. La ricerca dell’artista restituisce due diversi momenti pre-rivoluzionari della storia del Sudafrica ed è il risultato di un progetto di residenza a Johannesburg. Il primo periodo è il Seicento, quando gli insediamenti degli olandesi sono unicamente a scopo agricolo, funzionali all’approvvigionamento delle proprie navi dirette in Oriente. Il secondo periodo è relativo alla fine degli anni ‘80 del Novecento, caratterizzati dalle rivolte che precedono le fine dell’apartheid. Per il primo periodo Ruffo ridisegna stampe originali olandesi; per sovrapporci il secondo momento utilizza manifesti di protesta utilizzati come vere e proprie armi contro il regime. Due momenti “pre” perché «Prima di una rivoluzione, prima del tempo in cui cambia qualcosa, le persone hanno un’idea unica di libertà e questa idea di libertà è molto forte nella loro mente», spiega l’artista. Nella grande parete frontale si presenta Yazmany Arboleda, di origini colombiane, oggi vive a New York dove mette a punto progetti di “living sculptures” in grado di trasformare il mondo. In Sudafrica ha messo nell’obiettivo la questione degli edifici che il potere politico ed economico lasciano vuoti: l’azione narrata dai disegni e dalle fotografie esposte racconta l’intervento al Central Business District di Johannesburg, dove, in una notte, nove edifici del centro sono stati segnalati grazie a macchie di vernice rosa sulla facciata, fatte per resistere qualche settimana.

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LA GRANDE SCALA

La salita al primo piano della casa è scandita da un ciclo emblematico: è quello realizzato da Zhang Bingjian, artista e filmmaker cinese. Il titolo è ironico: “Hall of Fame”. In realtà è un “wall of shame”, un muro della vergogna. Bingjian ha commissionato ad un gruppo di artisti 3600 ritratti di funzionari pubblici cinesi condannati per corruzione. È un progetto in fieri, in continuo aggiornamento, lanciato nel 2009. A Casa Testori Bingjian porta una selezione di questa enorme galleria della corruzione. Sul fianco di ogni ritratto troverete il timbro che indica nome, cognome, quanto ha rubato e la condanna ricevuta. Emblematicamente Bingjian ha voluto che tutti i ritratti fossero dipinti in rosa su rosa, che è il colore della banconota cinese da 100 yuan.   

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