Author: Alessandro Frangi

STANZA 7 – NEL “GIARDINO D’INVERNO”

La riflessione sull’arbitrarietà delle catalogazioni scientifiche è particolarmente evidente nel lavoro Leaven (2017) di Fogarolli, composto da una teca contenente i manuali pubblicati negli Stati Uniti, dal 1952 al 2015, per classificare le malattie mentali che rivelano come, negli ultimi cinquant’anni, un ristretto gruppo di studiosi abbia determinano il concetto (assai mutevole e sfuggente) di “normalità” per l’intero genere umano, portando conseguentemente — come indica il titolo stesso — all’aumento esponenziale delle tipologie di disturbi. 

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Christian Fogarolli, Leaven, 2017, libri, specchio, legno, vetro

STANZA 6 – NELL’ALTRA CUCINA

Nella sala si crea un forte dialogo tra due dittici degli autori: dal un lato Placebo (2018), un’opera di Fogarolli giocata sulla relazione tra naturale e artifizio, grazie all’accostamento della capsula di un farmaco alla crisalide di una libellula: queste due polarità iconiche sono sottolineate anche dalle due differenti superfici specchianti su cui sono posati gli elementi (e su cui lo stesso fruitore può rivedersi): la prima riflette l’immagine in modo nitido mentre la seconda, avendo una base nera, ne impedisce una perfetta visione. Dall’altro lato della stanza si colloca la fotografia Just One (2017) di Berta, dove il manto di lana di una pecora – bianco, di una bellezza uniforme – è tosato per allestire un elogio dell’imperfezione. Il cortocircuito che la rappresentazione crea è accentuato dal fatto che l’animale è posto sopra un piedistallo, evocando in modo parodico l’idea di monumento equestre, in cui al posto delle fattezze marziali del Colleoni di Andrea del Verrocchio o di quelle altere del Gattamelata di Donatello (i due grandi modelli rinascimentali), troviamo le sembianze di un animale privo di alcun eroismo.

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LE OPERE

Filippo Berta, Just One, 2017, performance, Diptych Photo Print Diasec©, Courtesy Massimodeluca, Mestre

Christian Fogarolli, Placebo, 2018, dittico, acciaio, vetri, materiale organico, farmaco, Courtesy Galleria Alberta Pane, Venezia

STANZA 5 – IN CUCINA

L’immaginario scientifico, caro a Fogarolli, si riverbera in altri lavori, tra cui la scultura Midólla (2017) che trasferisce analogicamente sul marmo un’immagine di inizio Novecento (proveniente dall’archivio del manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia) in cui si raffigura il midollo spinale di un malato mentale. La collocazione dell’opera è particolarmente suggestiva: il bianco della superficie marmorea, che domina l’opera, entra in dialogo con vari elementi dell’ambiente, quasi mimetizzandosi, — tra cui le piastrelle — che rimandano invece alla funzione originaria della stanza, usata come cucina.

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Christian Fogarolli, Midólla, 2017, stampa alla gelatina ai sali d’argento da negativo in vetro su marmo bianco di Carrara

STANZA 4 – IN CORRIDOIO

Nel corridoio all’esterno dell’ex cucina è collocato il primo dei due dittici in mostra, appartenente alla serie Remember, Repeat, Rework (2015), realizzati da Fogarolli mediante l’appropriazione e la collazione di immagini d’archivio. In entrambi i casi, il ritratto di una giovane donna in stato di amnesia, ricoverata in un ospedale americano nella prima metà del Novecento, è messo in relazione con una fotografia della collezione etnografica del Tropenmuseum di Amsterdam, che mostra le fattezze di alcune sculture scoperte dai coloni olandesi in Indonesia. In questo inconsueto dialogo visivo di gusto warburghiano si creano analogie tra fonti dissimili, in cui lo stato di incapacità del primo soggetto sembra trovare una risposta nelle (ipotetiche) capacità taumaturgiche dei feticci tribali. 

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Christian Fogarolli, Remember, Repeat, Rework 7, foto d’archivio

STANZE 2 E 3 – IN SALONE E IN VERANDA

Nel grande salone della casa, il visitatore trova la proiezione del lavoro video di Filippo Berta intitolato Sulla retta via (2014) dove il tema del fallimento diviene metaforico: un gruppo di persone tenta di camminare in fila indiana, seguendo il fugace confine tra la terra e il mare definito dalle onde. Ma questa linea si spezza continuamente, evidenziando così l’impossibilità per l’uomo di trovare un equilibrio tra la primigenia natura emotiva-bestiale e l’aspetto razionale necessario all’adesione al corpo sociale.
Christian Fogarolli, ripercorrendo il rapporto tra arte e discipline scientifiche, indaga il sottile confine tra normalità e devianza, insieme al carattere arbitrario delle relative categorizzazioni. Questi temi sono presenti in vari lavori, tra cui la scultura Misura di prevenzione (2017) che ricorda lo strumento della livella ad acqua usata fin dall’antichità, figurando così il concetto di squilibrio chimico, oggi considerato alla base di molti disturbi mentali. L’opera è stata ripensata dell’artista per Casa Testori attraverso un suggestivo allestimento in cui l’installazione attraversa un muro, mettendo in comunicazione due stanze attigue della dimora.

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Filippo Berta, Sulla retta via, 2014, HD Video, 1’ 43’’.
Christian Fogarolli, Misura di prevenzione, 2017, vetro, acqua demineralizzata, acciaio, canale in silicone

STANZA 1 – IN SALA DA PRANZO

La mostra si apre con la scultura Loose (2017) di Christian Fogarolli che invita il fruitore a relazionarsi con l’opera per riuscire pian piano a cogliere l’immagine-identità che emerge da un gioco di rifrazioni su una superficie specchiante. L’immagine fotografica di archivio, di cui l’autore si è appropriato, riemerge per frammenti sotto la superficie informe del piombo e la sua visione richiede pazienza e perizia, mettendo in scena simbolicamente un andare oltre una prima osservazione retinica delle apparenze, per aprirsi alla scoperta dell’altro e delle sue peculiarità — gesto che ben riassume molti temi dell’esposizione. La scultura si relaziona con la fotografia Déjà vu (2008) di Filippo Berta, dove vediamo inscenata la sfida apparentemente ludica del tiro alla corda tra sei coppie di gemelli che porta a una riflessione sulla competitività sottesa alla nostra esistenza: un ritorno metaforico al Bellum omnium contra omnes dove si combattono persone con il medesimo corredo genetico. In questo, come nella maggior parte dei lavori dell’autore, è la messa in scena di piccoli gesti quotidiani a far emergere la conflittualità e le tensioni insite nel rapporto tra uomo e società. La serie di video e fotografie dell’autore che si succedono in mostra sono l’esito di performance collettive dove azioni all’apparenza banali assumono un valore allegorico per smascherare il conformismo diffuso nel nostro vivere.

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LE OPERE

Christian Fogarolli, Loose, 2017, stampa a pigmenti su piombo lavorato a mano, specchio spia
Filippo Berta, Déjà vu, 2008, performance, Photo Print Diasec©

Mauro Maffezzoni e Matilde – i dialoghi della quarantena

Matilde fa la terza media e l’anno prossimo farà il liceo artistico. Siamo chiusi in casa ormai da un mese. Non possiamo né andare nel mio studio a prendere del materiale nemmeno andare in un colorificio perché sono tutti chiusi. Così abbiamo deciso di usare un album che mia moglie ha regalato a Matilde poco prima della quarantena e usare tutti i pastelli e le matite trovate in casa. Ci mettiamo in piedi al tavolo con sopra il foglio e, l’uno davanti all’altra, disegniamo alternandoci come in un botta e risposta. Ora facciamo così quotidianamente. Il titolo della serie è “I dialoghi della quarantena” 
Mauro e Matilde Maffezzoni

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Mauro Mafezzoni (Rovereto 1960). Vive e lavora a Milano e Cremona

Attraversando Piazza Arbasino


“La «fortuna topografica» dell’Ingegnere pare invero scadente. Un cosiddetto «Largo» a Milano su via Paolo Sarpi, altra Chinatown. E a Roma, nel più profondo Ardeatino, partendosi da una «piazza E. Montale» (da non confondere con una via Montale all’estremo NordEst, accanto a via R. Pampanini, via G. Pasquali, via M. Del Monaco), un desolato cul-de-sac fra i tanti: Pratolini, Fenoglio, Da Verona, ma anche Lorca, Kafka, Joyce, Proust. Ecco perché su radio-taxi si sentono specificazioni per un incrocio Pavese-Vittorini. Gli altri non fanno «civico». (Ma quanti vecchi amici sono diventati strade a cul-de-sac, secondo le Pagine Gialle, mannaggia)”.

È un passaggio memorabile del ricordo dedicato a Carlo Emilio Gadda, l’Ingegnere in blu, firmato, con la consueta pungente e malinconica ironia, da Alberto Arbasino, lo straordinario scrittore scomparso questa settimana a 90 anni. 
Se lo ricordiamo qui è perché Alberto Arbasino fu molto legato a Giovanni Testori e lo era stato innanzitutto proprio nel nome di Gadda. Nel 1960, a sei anni da Il dio di Roserio e a ciclo de “I Segreti di Milano” pressoché concluso, un Arbasino in cerca d’ideali compagni di strada, sulle pagine del «Verri» coniava per sé, Testori e Pier Paolo Pasolini, la celebre definizione di “nipotini dell’Ingegnere”, per sottolineare il loro comune debito verso il plurilinguismo di Gadda. Del resto, anche Pasolini aveva dato alle stampe le storie della sua periferia, quella romana, ed erano usciti in quegli anni Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). 
Un mondo, quello del neorealismo, che in pochi anni stette molto stretto a tutti e tre e che, a Testori, era andato in frantumi con l’esperienza de L’Arialda, uno scandalo, ma soprattutto una liberazione per lo scrittore di Novate. Del resto, dopo Le piccole vacanze (1957) e il primo L’anonimo lombardo (1959), per Arbasino, nel 1963, arrivò il tempo di Fratelli d’Italia. Proprio in quell’anno, forse non a caso,  spetta a lui registrare quel momento fondamentale di passaggio per Testori: “Mutamenti d’interessi, ripensamenti profondi, ragioni biografiche e i soprassalti d’una fioritura produttiva ricchissima ne fratturano da un paio d’anni la carriera letteraria così significativa e operosa”, scrive Arbasino nell’attacco della sua bellissima intervista a Testori che potete leggere in versione integrale sul sito dell’Associazione.

Del resto, l’amicizia tra i due fu una di quelle che durarono una vita, magari a distanza, sulla direttrice Milano-Roma, fino agli ultimi anni. E non solo in quelli topici in cui Testori lo accompagnava a colazione da Luchino Visconti e sedevano insieme (ufficialmente dal 1962), al tavolo della redazione di «Paragone Letteratura», diretta da Roberto Longhi e governata da Anna Banti. A testimoniarlo – è un ritrovamento proprio di pochi giorni prima di questa chiusura forzata – è una lettera di Alberto Arbasino, conservata nell’Archivio dell’Associazione al primo piano di Casa Testori. È l’ottobre del 1991, Testori è in piena lotta con il male dell’ultima battaglia contro la malattia, ma in cantiere ci sono ancora drammi teatrali e, sulle pagine del «Corriere della Sera», i suoi articoli escono a spron battuto. Tra un intervento dedicato ad Alberto Burri e uno a Keith Haring, s’incastona questa paginetta semplice, poche righe su un fondo carta da zucchero, parole limpide e asciutte, come si addice all’amicizia che l’età ha reso tersa ed essenziale.

A Giovanni Testori la città di Milano ha dedicato un grande giardino pubblico in una delle sue periferie della città, in fondo a Via Mac Mahon, a pochi passi dal Ponte della Ghisolfa, incastonato tra i quartieri di Villa Pizzone e della Bovisa. Niente cul-de-sac, insomma. Quando potremo uscire di casa, e tornare a passeggiare per le vie di Roma, ci auguriamo di poter attraversare, riconoscenti, piazza Alberto Arbasino e, se ci sarà una panchina, ne approfitteremo per riaprire uno dei due “Meridiani” con dedica che acquistammo qualche anno fa, alla presentazione con autore, nel foyer del Teatro Franco Parenti.

Davide Dall’Ombra

VESTITI COME UNA VESPA

Lo scultore greco Pigmalione si era innamorato della propria statua, Galatea, al punto da considerarla superiore a qualunque donna e di dormirle accanto. Afrodite decise allora di accontentarlo dandole la vita. Similmente Matteo Negri ha cercato di dare vita a una Vespa Piaggio degli anni Settanta, realizzandola in bronzo e dotandola di una carenatura in grado di farla piroettare. La Vespa è così un simbolo di libertà, di leggerezza, e sembra quasi danzare come una ballerina che vola sulle proprie gambe.

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Vestiti come una Vespa, 2016, fusione in bronzo a cera persa, motore elettrico, ferro, legno cm 135x120x240

CINQUE DI FIORI

Una carta da gioco floreale, un frammento di giardino racchiuso nella stanza dove tanti anni fa l’artista aveva esposto per la prima volta a Casa Testori le proprie ceramiche. Non ci sono più mine sottomarine ad accogliere lo spettatore nella stanza, ci sono fiori immersi tra una vegetazione rigogliosa. La ceramica cerca così di fare concorrenza alla flora tropicale, in un continuo rigenerarsi di colori che sfida la natura (qui controllata e tenuta in vita da sensori e sistemi elettronici), cercando di confondersi e di rubarne l’intima bellezza.

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Cinque di fiori, 2016, flora varia tropicale, irrigazione a sensori digitali, acqua, feltro, pvc, engobbio su terracotta, luce led cm 200x260x40

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