Di Isabella Becherucci
1. Se è vero che sono spesso gli accidenti a dare il sapore alle cose della vita, la necessità di spostare la prima stazione di questa sorta di via crucis laica dal cortile della Villa Manzoni di Brusuglio alla chiesa parrocchiale di San Vincenzo adiacente (e collegata al parco da una porticina a latere) ha fatto sì che la scena iniziale si trasformasse da un dolente paraclausiteron (cioè il pianto dell’amante dinanzi alla porta chiusa) in un canto ben più suggestivo.
Un sole splendente, anch’esso imprevisto, filtrando dal portone spalancato della chiesa fin ben addentro al coro dell’abside, dove un giovane e bravissimo Sebastian Herrera nelle vesti di Giovanni Testori evocava, sottilmente ironico, l’immagine del suo illustre interlocutore («È lui? È apparso? / Sei davvero tu? / Matto? Che matto! / È qui! Non vedete? / È qui!»), ha inaugurato con una nota gioiosa questo ‘dialogo immaginato’ così intriso di nostalgia e di motivi dolorosi: come del resto l’a solo dell’Introduzione, sempre per la voce di Herrera/Testori, non aveva mancato di mettere in evidenza («Manzoni fu e sarà sempre il “doloroso grembo” della storia»). È iniziato così, col grande Lombardo impersonato dal barbuto e giustamente pacato Matteo Bonanni che, nel suo lento avvicinarsi fino a guadagnare sul proscenio il posto accanto al suo antagonista (perché di questo, infine, si è trattato: dell’incontro / scontro fra due diverse concezioni dell’arte), si difende dalle accuse che via via l’altro gli muove lungo le quattro tappe previste nel brillante copione di Giulia Asselta. Prima di tutto quella linguistica, dove il dialetto lombardo potentemente fatto rivivere nel ricordo di Carlo Porta da entrambi tanto amato, fa la parte del leone («Bravo el mè Baldissar! Bravo el mè nan!»).
2. Sotto il sole davvero impietoso dell’ora meridiana, in piedi e financo accucciati sulle basi del celebre monumento funebre della famiglia Manzoni (stazione seconda, al cimitero di Brusuglio), dove le tante lapidi composte da chi la morte aveva visitato con accanita frequenza (per esempio quella di Giulia Manzoni d’Azeglio, quella di Enrichetta Blondel, quella di Sofia Trotti) e intristite dai sedimenti del tempo che le ha rese quasi illeggibili, i due personaggi si sono confessati sul loro diverso modo di accettare il dolore: composto, pudico, mai sopra le note, quello di Manzoni, a partire dal carme alla madre per la scomparsa del compagno Carlo Imbonati fino al grido d’amore di Ermengarda derelitta; incanalato sempre in un sofferto ragionamento al limite dell’invettiva («Non vedi? Sei soffocato, sei strozzato… […] Di’ la verità di Brusuglio! Combattuta, dileggiata, calpestata, strozzata, assassinata, verità, dove sei? Gridala, urlala! […]») quello del giovane discepolo dissidente.
3. Eppure lo sguardo pietoso rivolto all’amata città, che non la corona poetica dei monti lombardi sotto quel cielo «così bello quando è bello, così limpido, così in pace», ma la ben più prosastica catena dei grattacieli di Citylife stagliava sullo sfondo di questa terza sosta nel parco della Belossa, è risultato lo stesso per entrambi i dialoganti. È stato questo il punto di maggior contatto fra le diverse esperienze artistiche degli scrittori qui rappresentati: proprio dinanzi alla scritta quasi antifrastica di «Belvedere», dove il sole accecante coi suoi giochi di luce riflessi nell’argento delle lettere feriva dritto negli occhi i due attori grondanti per il caldo e per la fatica, sono scorsi i panorami di un’altra Milano ugualmente prostrata, a partire da quella rievocata da Fermo nel suo secondo girone infernale e appestato nella prima stesura del romanzo («Quale città! E che è mai ora a ricordare quel ch’ella fosse stata… […]»; «Come è conciato Milano! Quel che bisogna vedere! […]») fino al controcanto di Renzo nei Promessi sposi alla prova, insieme a tanti altri passi della poesia e della prosa testoriana. Veri e propri inni di amore e dolore («Mia città, / mia dolente patria / che ti stendi assembrata / nelle nubi della notte; / mia cupa madre di cemento […]» // «Casa. Città! Culla; tavolo; letto; bara; eppur sempre cara; madre nostra civile; riflesso della madre nostra corporale! […]») secondo una comune volontà di ritrovamento e di denuncia espressa in un corale planctus per le sorti magnifiche e progressive della nostra civiltà.
4. E il ritrovamento c’è stato davvero nel ritorno a Casa Testori (quarta e ultima stazione), quando ormai i raggi del sole cadente suggerivano la mestizia di quei tramonti lombardi tanto amati da poeta novatese anche nei “suoi” pittori. La tappa finale di questa lunga ricerca di pace è stata davvero simbolica di un percorso diventato anche quello di tutti gli spettatori: con l’approdo a una casa dai cancelli aperti, accogliente, festosa, disposta a esaltare il grande nostos del finale. Qui le passioni erano in gioco, tutte, con la loro lotta, con la furia spietata che Marianna de Leyva continua a esprimere sui palchi d’Italia, mentre gli elementi temporali assecondavano il loro esplodere, alle spalle del reticente Manzoni: tanto che una folata di vento impetuoso (quello della bufera infernal appunto del canto V dell’Inferno) ha fatto volare via il copione dal suo leggio, non bloccando affatto il giovane recitante Testori che, al contrario, ha proceduto sicuro, sfruttando il violento refolo a suo favore, proprio mentre declamava il rosario degli aggettivi sostantivati (secondo un cliché tutto manzoniano, basti pensare all’Innominato) teso a scolpire quella figura in un tragico monumento («la forzata, la tentata, la furibonda, la sconsacrata, la Scatenata, la furia, sì, la furia: vera e propria furia; anzi, jena; quantunque, poi, dolcissima…»). Il dialogo a tratti quasi all’unisono, specialmente nel sentimento campanilistico, s’è proprio qui franto in una perorante accusa di Testori: «L’hai lasciata inulta, seppellita di lastre di silenzio!» e nella fredda e sofferta difesa manzoniana: «Ho taciuto perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere delle passioni in modo di far consentire l’animo di chi legge a queste passioni stesse»). Ma con la scesa definitiva della sera, è calata assieme anche la sua pace: la poesia unisce, non separa, anche quando le soglie sono lontane e la prospettiva sembra opposta, se c’è alla base un identico credo, una qualche non debole speranza in quella «provvida sventura» che trasforma il torrente dell’angoscia versato sul nostro mattino nella pietà riserbata al resto. «Siamo arrivati tutti insieme alla fine (della storia) e / della nostra grande / bellissima passeggiata», grazie proprio alle passioni: quelle della sceneggiatrice Giulia Asselta e dei suoi – lo ripetiamo ancora una volta, bravissimi – attori, Sebastian Herrera e Matteo Bonanni