Author: Alessandro Frangi

LA STANZA SULLA FERROVIA

L’ultimo ambiente del percorso al piano terra propone il confronto tra due opere di impatto molto dirompente. Entrando il visitatore si trova di fronte, infatti, due grandi ceramiche di Bertozzi & Casoni.  Giampaolo Bertozzi e Stefano Del Monte Casoni dal 1980 lavorano in società; realizzano sculture spiazzanti in cui la ceramica viene usata per rappresentazioni che ne violentano la natura di materiale delicato e aggraziato. Con “Composizione scomposizione” è un insieme di tubi, raccordi, ruote, rubinetti che suggeriscono l’idea di una funzionalità palesemente non funzionante. È anche una rappresentazione delle regole che si sono accumulate al punto di consolidarsi come coacervi intricati, senza più un capo né una coda. La corruzione nelle opere di Bertozzi & Casoni ha speso preso la forma di cibo che viene “corrotto” dai processi di ossidazione. In questa serie (il ciclo completo di “Composizione scomposizione” è costituito da sette pannelli) invece la metafora è più espressamente rivolta al caos che si scatena in un’organizzazione sociale nel momento in cui le regole vengono alterate. Al centro di entrambe è posto uno scrigno dall’interno dorato, perché non c’è situazione intricata, degradata o opprimente che non possa avere un punto di fuga.

Il nesso con il video di Filippo Berta nella stessa stanza è stringente ed immediato. “Homo homini lupus” è un’opera del 2011 ed è stata presentata per la prima volta al Madre di Napoli. Berta prende alla lettera la celebre espressione di Plauto che divenne concetto base della filosofia di Thomas Hobbes. In uno scenario lunare da fine della Storia, un branco di lupi si accapiglia con ferocia attorno a una bandiera italiana. Il pezzo di tessuto viene addentato e strappato con violenza, ridotto impietosamente a brandelli. Il video può essere letto come a metafora brutale di un consesso sociale in cui prevale la logica della prepotenza e che quindi calpesta anche quello che dovrebbe essere un simbolo collettivo, come la bandiera nazionale. La corruzione è una forza negativa che   distrugge le relazioni. Porta aperta alla violenza, anche se subdola e non esplicita e a suo modo “sincera” come quella di questi lupi che si disputano la bandiera.

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LA SALA DEL CAMINO

Tre artisti si confrontano in questo spazio suggestivo di Casa Testori, intessendo un dialogo che ricorre a forme espressive coinvolgenti e audaci. Marco Cingolani entra in gioco portando un grande striscione, vera opera d’arte da manifestazione, distesa sopra al camino. Lo slogan tracciato  a lettere cubitali rivendica una richiesta che risuona persin ovvia, se non fosse smentita dalla realtà, ad ogni istante: “Il dovere al potere”. È un’opera che lascia interdetti nella sua nudità: un po’ come un grido che rimbomba nel silenzio. Se lo striscione è opera che Cingolani porta con sé da tanti anni, quasi come un’implorazione, il quadro-cartellone che lo affianca in questa sala è invece stato realizzato ad hoc per la mostra di Casa Testori. È un ritratto di Bernard de Mandeville, medico e pensatore olandese cui si deve una definizione dell’ipocrisia entrata nel linguaggio comune: «Vizi privati e pubbliche virtù». “La favola delle api: ovvero vizi privati e pubbliche virtù” è, infatti, il titolo del suo libro più noto, scritto nel 1714. E “I furfanti diventati onesti”, suonava il titolo nella prima versione del libro, sciogliendo ogni dubbio circa la natura di quelle “pubbliche virtù”.

Massimo Kaufmann porta a Casa Testori una rivisitazione “gridata” di una sua opera di inizi anni ‘90. Come nel caso di Cingolani il mezzo espressivo scelto è volutamente aconvenzionale: un wallpaper che ingrandisce a dismisura l’originale e ne restituisce, enfatizzato, l’inquietante messaggio. Il ciclo prende spunto dai celebri “Capricci” di Goya, rappresentazione impietosa della società corrotta, dominata dalla menzogna e dagli abusi di potere. Una rappresentazione che Kaufmann restituisce con un linguaggio attualizzato e ardito. Gli originali infatti sono stati realizzati con caratteri da macchina da scrivere, che accentuano gli aspetti caricaturali di questa rappresentazione di una società che sembra smangiata dalla pervasività della corruzione. Kaufmann, proprio per sottolineare la portata pubblica del messaggio contenuto in questa sua opera, ha realizzato anche una versione firmata e numerata del wallpaper, che i visitatori possono acquistare.

Infine, Stefano Arienti interviene con un’installazione affascinante, intitolata “Lame Italia”, dove degli attrezzi che sono memoria della terra contadina da cui viene l’artista (è nato ad Asola, in provincia di Mantova) assumono un aspetto enigmatico, quasi avessero smarrito il senso positivo della loro funzione. Una metafora delicata del rovesciamento di valori che avviene quando s’innescano patologie sociali come la corruzione.

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IL GIARDINO D’INVERNO

È la piccola sala d’angolo, le cui pareti sono state tutte dipinte da un intervento collettivo progettato e curato da Massimo Kaufmann nel 2014. Al centro dell’ambiente, il percorso della mostra prevede un nuovo lavoro inedito di Luca Pignatelli. L’artista ha sempre indagato sul tema della memoria e del passato, concependo la propria arte quasi come un atto di resistenza rispetto all’implacabile azione corrosiva del tempo. Questa volta l’opera di salvataggio è rivolta allo stesso supporto di questo dipinto, che è anche una scultura: è stato realizzato, infatti, su una lastra di ferro dismessa dal tetto di una chiesa dell’Engadina, in Svizzera, e destinata alla discarica.

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LA STANZA SUL GIARDINO

Due fotografi che propongono un identico dispositivo espositivo: coppie di foto in evidente dialettica tra di loro, ma in non così evidente relazione. Una celebre foto di Letizia Battaglia di un delitto di mafia, “I due Cristi” del 1982, va in rotta di collisione con un’altra immagine che documenta la beata indifferenza dell’alta società della città che festeggia il Capodanno 1985 a Villa Airoldi, a Palermo. Sangue e cristalli, buio e scintilli, tetro silenzio e fragori di allegria: e se fossero immagini di una stessa pellicola? Giovanni Hänninen propone una identica dialettica a Milano. Il baracchino dei panini che sbuca dalla nebbia è quello di via Celoria, di proprietà di Loreno Tetti. È stato denominato il paninaro anti-’ndrangheta. Tetti, infatti, è stato l’unico a non tirarsi indietro nel processo contro il racket dei venditori ambulanti controllato dalla famiglia Flachi. Ma poco tempo dopo la sua testimonianza il furgoncino, il 19 luglio 2012, è stato dato alle fiamme. Dalla piccola economia alla grande: davanti al Palazzo della Borsa c’è la scultura di Maurizio Cattelan. Provocatoria, ma interrogante: è davvero fuori luogo? È stata messa nel pieno della grande crisi che ha messo in ginocchio l’Italia. Una crisi fatta esplodere da meccanismi corrotti della finanza. «Il boss contemporaneo – scrivono Hänninen e Alberto Amoretti, che ha realizzato l’inchiesta alla base del reportage fotografico – è lontano dal cliché del mafioso rozzo, è un colletto bianco che ha studiato e s’intende di economia, di finanza e di tecnologia».

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LA BASE DELLA SCALA

I migranti hanno conosciuto il ricatto della corruzione sulla loro pelle. Lo hanno conosciuto sull’altra sponda del Mediterraneo quando hanno dovuto mettere i loro pochi risparmi nelle mani degli scafisti o di chi per loro; e spesso l’hanno sperimentata anche in Italia, quando l’accoglienza è finita nelle mani di organizzazioni gestite da affaristi. I migranti sono testimoniati in mostra da due opere di grande impatto e valore. Tindar, “nickname” di un artista milanese che oggi vive a Roma (e ha aperto le porte della sua casa all’accoglienza di un migrante), è presente con un trittico nato da un’esperienza di frontiera, a Calais, nei mesi della “Jungle”, il grande campo profughi dei migranti che speravano di passare la Manica. Tindar ha realizzato un ribaltamento di prassi e paradigma: ha chiesto ai migranti stesso di raccogliere (dietro un piccolo compenso) le impronte di persone che a diverso titolo incrociavano nel campo. Le impronte, montate su pannelli coperti di terra, vengono a comporre un flusso di presenze che transitano da un mondo all’altro. Tindar con un’opera come questa mette in gioco il suo essere artista. La stessa cosa accade per un nome carismatico di una diversa generazione: Corrado Levi ha portato a Casa Testori una propria foto (scattata da Beppe Finessi), in cui indossa gli abiti ritrovati sugli scogli di Otranto. Abiti abbandonati da migranti che erano sbarcati lì. Levi li aveva raccolti tutti e indossati.  «Io immaginavo di essere il corpo degli altri – ha raccontato – lo so di aver finto, ma per quanto potevo l’ho sentita dentro di me questa cosa». “Vestiti di arrivati” è il titolo dell’opera. «Quando me li tolgo e li lascio su una spiaggia, lì sugli scogli a futura memoria, quello è il momento in cui spero di poter cambiare la mia vita. È la libertà. Come un battesimo… per chi ci crede».

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LA CUCINA

Un autore in solitaria monopolizza questo ambiente: è Antonio Marras. Noto come stilista, ha sempre affiancato alla sua attività professionale anche una intensissima produzione artistica recentemente presentata con una grande mostra alla Triennale di Milano. L’opera di Marras è un’installazione che per il suo contenuto intreccia una relazione stringente con le altre opere presenti in questa sala. “Le malelingue” è un’installazione costituita da una cascata di lingue saettanti che sgorgano da una montagna di libri. È un’opera che si ispira ad una delle artiste più amate da Marras, Carol Rama. La reiterazione delle lingue che si prolungano nello spazio suona come deplorazione ironica “del vizio privato” del pettegolezzo che copre comportamenti pubblici tutt’altro che virtuosi. 

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LA VERANDA

Tre artisti diversi, per stile e generazioni, si confrontano in questo che è uno degli spazi più magici di Casa Testori. E qui il discorso sulla corruzione diventa interno all’arte, come un’energia che intacca il manufatto da dentro: è quanto sembrano comunicarci le due sculture di ceramica in forma di vaso di Alessandro Roma poste al centro. Uno sta perdendo la sua stessa forma regolare; l’altro accoglie fiori a cui però non riesce a dare vita. Il contrasto tra l’anelito alla bellezza costitutivo di due manufatti come questi, e una dinamica invece drasticamente avversa si propone come un trapasso liricamente emblematico. Francesco Fossati, con la sua lapide posta tra le colonne, usa un linguaggio sempre ai confini del verosimile, ponendo l’attenzione su un dato di realtà non eludibile: spesso accade agli artisti di essere loro stessi un anello nel meccanismo perverso della corruzione. La targa di Fossati non vuole raccontare una verità, ma smascherare quel rischio sempre presente di fariseismo. Si possono veicolare messaggi corretti, e intanto attivare meccanismi perversi con le proprie scelte rispetto al mercato: una bella statua può essere strumento per trafficanti di droga. Che resti comunque bella, è un problema che spiazza e fa pensare. Infine, alle pareti, Alessandro Verdi propone due lavori recentissimi, uno dei quali pensato all’interno del progetto “arte CONTRO la corruzione”. Infatti la piccola figura umana che naviga nel vuoto è il prototipo di quelle dipinte sulle colonne della Sala Testori al Teatro Franco Parenti, che aveva ospitato il primo incontro del progetto. Nella seconda carta la piccola figura si rapporta con un grande cosmo, realizzato con un intensissimo pigmento blu.  Un qualcosa di più grande di lui da reggere.

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IL SALONE

Per capire il tema di questo avvertimento basta che ci spostiamo nel salone di Casa Testori. Qui ci aspettano tre maestri dell’arte italiana di oggi: Mimmo Paladino, Emilio Isgrò e Gianni Dessì. Quella di Paladino è una scultura realizzata dal maestro di Paduli nel 2013 e mai mostrata in pubblico. Come spire di un serpente che non ha né capo né coda, un serpente da cui sembra impossibile potersi liberare, il cavo di ferro tiene prigioniera una testa lavorata in alluminio. Paladino si pensa in primo luogo come pittore, per questo dice «nella scultura io ho sempre pensato a quelli che anche nel passato avevano questa architettura grafica». Quello sul camino è un nodo inestricabile, che non solo imbriglia quell’icona umana ma la fa regredire quasi a maschera di un automa grazie all’uso di un materiale freddo come l’alluminio.

Nella parete di fronte sono esposte quattro tavole di uno dei cicli più celebri di Emilio Isgrò: “La costituzione cancellata”, del 2010. «Mi ha spinto in quest’impresa il disappunto malinconico di un italiano che vede il proprio Paese crollare», aveva detto l’artista spiegando le ragioni di questa sua impresa.  La cancellazione è un atto di profondo rispetto. «La Costituzione – ha detto Isgrò – è un’opera d’arte, al pari del “Cantico” di San Francesco e della “Commedia” di Dante. È scritta in un italiano perfetto, semplice, burocratico, non in “burocratese”. I Padri costituenti erano delle persone molto colte». Ma con la Costituzione cancellata Isgrò mette anche in risalto come in troppi si prendano gioco di quel testo costituente. Queste, infatti, sono le parole sopravvissute che danno quindi i titoli alle quattro opere in mostra: “Una indivisibile minorata”, “Non sono proibite le associazioni segrete”, “È senatore di diritto chi è nato a febbraio”, “Addì 27 dicembre 1947”. Rispetto e insieme denuncia; venerazione e insieme amarezza: questo ci comunica l’opera di Isgrò.

Il dittico di Gianni Dessì è un’opera recentissima: le tele sono dipinte a olio in una sorta di nero-nero su nero. Una delle due opere, “A&E”, richiama quello che simbolicamente rappresenta l’avvento della corruzione alle origini stesse della storia umana nella Bibbia. Il serpente come il grande corruttore. L’altra opera, “Insieme” vede ancora una figura umana: l’elemento geometrico, freddo, neutro sulla sua sinistra sembra scattare come una trappola.

Nella stanza, campeggia la sorpresa di Katja Noppes: è un’installazione semplice che mette in moto un processo da cui non ci si può sottrarre. Immagini di corruzione, di guerra e ingiustizia, raccolte a tutte le latitudini da oltre 25 anni, si riflettono nello specchio. Ne vediamo solo il riflesso, e tra loro si mescola anche la nostra immagine, come pure quella dell’ambiente incantato in cui ci troviamo. La corruzione ci riguarda. Non ci può chiamare fuori e non ci si può illudere di non c’entrare con quello che vediamo. La neutralità non ha spazio. Spazio extrapersonale, peripersonale e personale vengono a sovrapporsi.

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LA PRIMA STANZA

Il percorso della mostra prende avvio da una sala in cui al visitatore viene presentato un video con la sintesi del percorso fatto per arrivare a questa mostra: tre incontri per lanciare un dialogo tra chi è in prima linea nella sfida alla corruzione e artisti che hanno avvertito l’importanza di fare loro questa sfida. Michelangelo Pistoletto si è confrontato con Raffaele Cantone, alla testa dell’Autorità Nazionale Anticorruzione; Emilio Isgrò con Francesco Greco, procuratore capo a  Milano; infine, Stefano Arienti ha dialogato con Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia e con Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Di fronte al video è posta una coppia di opere emblematiche: è l’Italia sottosopra di Andrea Bianconi, artista vicentino che vive e lavora tra il nostro Paese e gli Stati Uniti e che con questo dittico ha voluto essere felicemente schietto: con il segno sottile ed esatto della sua penna acrilica – segno che sembra quello di un sismografo – traccia una cartina secondo la prospettiva resa celebre dall’opera di Luciano Fabro del 1968. L’Italia come Paese ribaltato e sulla soglia di implodere. Con il suo tratto delicato Bianconi lancia un morbido avvertimento. 

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FOTOGRAMMI IN DISSOLVENZA

Se la realtà non è solo un fotogramma si chiude, idealmente, con i fotogrammi in dissolvenza di due opere video: l’essay film di Alessandra Ferrini Negotiating Amnesia e la videoinstallazione Light Meter di Jacopo Rinaldi.

I due lavori, in termini molto diversi, pongono il tema della memoria, del suo oblio e della messa in discussione della storia, intesa come sensibile e potenziale strumento ideologico.

Il documentario di Ferrini affronta il problema della racconto del colonialismo italiano nel Corno d’Africa a partire dalla guerra d’Etiopia del 1935-36 e la sua ricostruzione storica dell’Italia contemporanea. L’artista si interroga sul modo in cui ideologie e manipolazioni affliggano ancora oggi l’immaginario collettivo italiano rispetto al colonialismo della prima metà del XX secolo e il modo con cui trasmettiamo e conserviamo le memorie, rivelando amnesie programmate e parziali ricostruzioni di fatti e storie.

Il lavoro di Rinaldi è invece una più ampia considerazione sulla visione, sulle immagini della nostra storia (e storia dell’arte) e sui nostri meccanismi di visione e costruzione dell’immagine. L’artista fotografa infatti, all’interno delle più celebri chiese di Roma, i sistemi tecnici attraverso cui quadri e sculture vengono illuminati a tempo, creando una costate alternanza tra luce e buio, immagine e censura. Questa stessa alternanza sembra apparire come una sorta di metafora dell’azione storica stessa: è l’azione volontaria del presente ad accendere una luce che inevitabilmente è destinata a spegnersi riportando anche i più importanti capolavori dell’arte occidentale nel buio dell’oblio.

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LightMeter_2_Estasi di santa Teresa d'Avila, Gian Lorenzo Bernini, Santa Maria della Vittoria
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LightMeter_1_Ciclo pittorico di San Matteo, Caravaggio, San Luigi dei Francesi
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