casa testori

Danielle Sassoon, VIA FATEBENEFRATELLI 20

Stanza 9

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti, a persone e/o cose realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Danielle Sassoon

“Stanze” nella stanza. “Stanze” di un passato impregnato di paura e di dolore in una stanza invasa invece dalla luce felice del giardino lombardo. Strisciate di sofferenza che prendono coraggio, che escono dal buco nero in cui se ne stavano rintanate. È il nodo del passato che riaffiora come per una necessità, preso per mano da un destino imprevisto e non più nemico. Il dolore muto di quelle stanze vissute da un’infanzia ferita, prende voce. Dolore visibile, non più nemico, come un compagno di strada ritrovato. Si avverte quasi un desiderio di accarezzare quel dolore, di prendersene finalmente cura. Di ripetere e ripetersi che aveva ed ha un senso.
Come tanta arte femminile di questi decenni anche quella di Danielle Sassoon è ferocemente sincera con se stessa. Non fa sconti. Mette a nudo l’anima con crudezza. Ma questo non impedisce di farsi canto. Nella stanza le “stanze” intonano finalmente il loro straziato canto.

Danielle Sassoon è nata nel 1965 a Milano, dove vive e lavora.

Piero Fogliati, LATOMIE

Stanza 8

Ogni cosa in fondo ha il suo centro che va svelato. Noi abbiamo il nostro centro, che però non sveliamo, lo teniamo ben nascosto. La mia è l’essenza delle cose, cioè penetrare all’interno della realtà e cercare di svelarne questi segreti nascosti. Io sono lo scienziato che tradisce la scienza. Vale a dire, io prima mi impossesso di tutti quei mezzi che oggi ho fortunatamente a disposizione e poi la tradisco perché invece che utilizzarla per fare oggetti di consumo, oggetti pratici, io utilizzo tutte le mie conoscenze per indirizzare questi risultati, queste invenzioni per ottenere un fatto estetico.
Piero Fogliati

E mentre lavorava faticosamente ad una pompa di benzina, negli inverni freddi di una città industriale già grande, elaborava di notte i suoi progetti fatti di immaterialità, di leggerezza, la sua speranza di restituire al mondo la sua vivibilità sulla scia di Constant, appunto, di Klein e anche, già, di Calvino, pensando alla sua utopica “Città  ideale”, col suo Tempio della Luce, il suo fiume, le cui acque sarebbero risuonate di nuovi ritmi, le gocce di pioggia avrebbero preso colore, i venti avrebbero creato sculture impalpabili e invisibili ma percepibili dai nostri sensi, i rumori si sarebbero trasformati in suoni…
Lara-Vinca Masini

Piero Fogliati è nato a Canelli (AT) nel 1930.Vive e lavora a Torino.

Agostino Osio, OLTRE ORIZZONTI

Stanza 7

Le immagini presentate fanno parte di un progetto più ampio che ha come protagonisti l’albero e l’orizzonte.
Il primo, nella sua verticalità , si propone come ponte spirituale tra cielo e terra.
Il secondo è indagato come punto di contatto vibrante tra un movimento ascensionale verso il cielo – che nel mio lavoro non è uno spazio secondario – e uno discendente, verso la terra osservata nella sua materia primordiale.
Lo sguardo, che attraversa l’orizzonte, da un lato si ritrae verso una qualche regione di me stesso, dall’altro spazia verso un immaginario alto e intangibile, l’oltre-orizzonte.
L’orizzonte, in quanto spazio di confine e collocato nella metà di ogni immagine, si presenta quindi come la linea mediana e strutturale dei quattro movimenti.
Lungo la linea di confine s’innalza la montagna. La sua base coincide con la terra, con ciò che è materico e manifesto, ma la sua altitudine la consacra a tutto ciò che è alto e si eleva verso uno spazio superiore.
Le fotografie presentate sono il frutto della ricomposizione di più scatti, di 9, 12, 15, 16, 20 o 25 immagini. Questa soluzione è stata dettata da una sfida stilistica, cioè quella di offrire un paesaggio il più vicino possibile all’architettura dell’immagine che solo il grande formato 20 x 25 può restituire.
Agostino Osio

Non direi Orizzonti, ma Incontri.
Gli incontri sono fondamentali per la vita: incroci che sono punti di svolta o prosecuzione di cammini già intrapresi.
L’incontro tra terra e cielo è sempre là, in un punto, su una linea statica.
A volte è la terra che si slancia, a volte è il cielo che scende, basso.
Il punto di contatto è fortemente immobile, senza tempo.
Attilio Maranzano

Agostino Osio è nato nel 1978 a Milano, dove vive e lavora.

Emma Ciceri, 14 DICEMBRE 2010

Stanza 1

Il reale vuole essere l’oggetto della mia ricerca. La relazione con esso si manifesta tramite una continua contemplazione: una prolungata, silenziosa e meditativa osservazione di qualcosa dal suo interno.
Lavoro con gesti semplici di selezione del reale che uniti ricreano una realtà parallela. Mi interessa la vicenda umana, il singolo e la moltitudine.
Sono alla ricerca continua di individualità nella folla, questa è il pretesto per l’osservazione continua e ravvicinata di simili.
Partecipo a raduni, concerti, funerali, manifestazioni con una videocamera in mano. Prendo parte agli eventi mimetizzandomi nella moltitudine, ciò mi consente di indagare i gesti, i corpi, le manifestazioni di piccole tensioni dell’individuo. La folla è il pretesto, l’evento è il contenitore dell’umano da osservare, seguire, registrare; il corpo è l’involucro di un’interiorità che si manifesta.
Tensioni, emozioni assumono forme ed aspetti molteplici nella dialettica tra soggettività e moltitudine, affermazione di sé e appartenenza ad un gruppo.
Emma Ciceri

Il lavoro di Emma Ciceri può rappresentare una replica alla retorica dell’anonimato della grande città .
In occasione di una manifestazione studentesca, Ciceri ha ripreso la piazza e i suoi movimenti, la sua inarrestabile energia.
Con la sua capacità  di cogliere i movimenti e la stasi, la luce che incide e che accentua, con i colori saturi e la dilatazione temporale che immette nel girato, la strada si rivela essere una vitale platea per gli individui.
Ma nelle sue immagini, dei ragazzi che per un attimo emergono tra la folla, notiamo soprattutto l’intensità  sempre unica dell’espressione, gli atteggiamenti concentrati pur nel caos, l’aspetto e i gesti che presiedono agli incontri e alle relazioni, così intimamente connessi a stati emozionali.
Il comportamento sociale si svela nella sua complessità: in parte espressione inconsapevole, plasmata dall’agire collettivo, dal fatto di partecipare ad un grande rito di massa; in parte frutto di cura e di consapevole attenzione: un recitare la propria parte e offrirsi agli sguardi altrui che risponde a codici e a convenzioni, ma può prendere forme bizzarre.
L’effetto è cinematografico, ma senza nulla di aneddotico, di sentimentale.
La microritualità che emerge dal video rientra nel grande, complesso spettacolo della vita quotidiana ed esprime la nostra polifonica società di individui.
Gabi Scardi

Emma Ciceri è nata a Ponte San Pietro (BG) nel 1983.

ROCCO (SIFFREDI) E I SUOI FRATELLI

Andrea Mastrovito 

Questa stanza è stata l’ultima che ho ideato e realizzato per la mostra. Nel realizzarla pensavo al lavoro di Martin Creed, e ad un racconto di Luigi Polla. Quando Luigi lo conobbe – mi diceva una sera – Martin, che era un ragazzino, gli tirò fuori una pepiera ed una saliera rifatte in rame e acciaio. Gliele appoggiò lì, sul tavolino su cui stavano mangiando. Erano praticamente invisibili, fra i piatti e le stoviglie. Gli spiegò che, per indole, non aveva voglia di fare nulla. Ma NON fare nulla era impossibile, per un artista. Allora, ogni volta, trovava la maniera di fare, realizzare la cosa più vicina al nulla, il minimo sforzo. Mi ha sempre colpito questo racconto (ripenso ai suoi palloncini pieni d’aria della galleria, ai fogli accartocciati, ai metronomi..). Così pensai che la stanza semi-vuota sarebbe stata perfetta per chiudere il percorso ideale della mostra. Anche perché, a quel punto, ero troppo stanco per qualsiasi altra cosa. Fatto sta che, tra tutto, mancava un qualcosa, un appiglio alla violenza gergale delle storie testoriane, e parlo di storie inventate e vissute. Mi venne in mente allora la sua amicizia/inimicizia con Luchino Visconti. Visconti che aveva preso ispirazione dai suoi Racconti del Ponte della Ghisolfa per Rocco e i suoi fratelli. Erano amici e si stimavano, all’epoca; poi successe che per un ruolo promesso e non dato ad Alain – compagno di Testori – in Ludwig, Giovanni si incazzò come una bestia e prese ad odiarlo a morte (fino a presentare pubbliche scuse dopo la morte di Visconti) tanto che nell’inedito epilogo dell’Ambleto si scagliò contro il “sozzialista registore” insultandolo e affibbiandogli vizi e perversioni: “in te amare è avere un cazzo di cane da leccare”. Per questo ho preso come spunto la locandina di Rocco e i suoi fratelli, in cui è raffigurato Simone che violenta Nadia. La violenza del gesto è mitigata dalla trasparenza invisibile dell’immagine ottenuta grattando il vetro opaco della portafinestra, cui fa da contraltare, microscopico, sulla parete di sinistra, Ceci n’est pas une pipe, opera realizzata per la personale Postmodern nel 2006. Qui il rapporto uomo/donna è capovolto (letteralmente, la donna sta sopra) e la citazione magrittiana sta a spiegare anche qui “cos’è l’amore”, giocando sul fatto che “pipe” in francese ha un doppio significato: pipa – come tutti ben sappiamo – e pompino, appunto…

LO STUDIO TESTORI

Andrea Mastrovito 

Per realizzare questa stanza ho tenuto presente una delle rare foto che ritrae Giovanni Testori nel suo studio privato. Qui lo scrittore custodiva i quadri raffiguranti nudi di uomini che attribuiva a Courbet e Géricault. In questa foto, si notano cinque quadri sullo sfondo, sopra la libreria. Di quattro si hanno notizie e dimensioni certe, del quinto – il torso di uomo sopra il ritratto di moro – non si sa nulla. Guardando la foto, ho riprodotto nella loro posizione originale i quattro quadri noti, utilizzando solamente la materia di cui era composta la parete, ovvero gli strati di pittura, gli intonaci fino al cemento ed i mattoni, come per la stanza con l’immagine della famiglia Testori al completo. In questo lavoro è l’assenza a parlare: quando togliamo un quadro che è stato appeso alla parete per lungo tempo, ci accorgiamo che sul muro rimane, lì dove era il quadro, una silhouette più scura, preservata dall’usura della luce e della polvere. Partendo dall’ìdea di quella traccia lasciata dai quadri, sono arrivato ad immaginare che l’intera figura fosse rimasta impressa sul muro che, perforato, tagliato, scavato, ha  infine restituito il ricordo che tratteneva. Esattamente di fronte ai quattro quadri scavati nel muro, un televisore al plasma propone una selezione di 13 video, tutti riguardanti l’Arte e la Storia dell’Arte, e realizzati con la regia di Zizi (Marco Marcassoli) tra il 2003 ed il 2006.  Tutti i video sono una riflessione – critica e non – sull’Arte, sui suoi meccanismi, sulla storia stessa dell’arte e sul rapporto tra artista ed opera, e trovano qui, in quello che era lo studio in cui Testori passava gran parte del suo tempo osservando e scrivendo, il loro posto naturale. Dagli Haiku, sorta di tableaux vivants o di piccoli sketch sulle pretese dell’arte contemporanea e non, fino a 150 chiodini di plastica per esprimere il tuo talento artistico in cui immagino di riportare una serie di celebri artisti moderni ai sei anni di età e di dare loro in mano dei chiodini di plastica per vederli riprodurre le loro opere più celebri nelle forme più semplici, e CH, in cui, con Stefano Arienti e Luca Francesconi tra i protagonisti, un museo viene preso d’assalto – sulla falsariga del Batman di Tim Burton – e tutte le opere distrutte e deturpate in nome di una nuova, violenta avanguardia ultrafuturista.

COSA IMPORTA SE SONO CADUTO?

Andrea Mastrovito 

Questo lavoro inizialmente nasce da una canzone, la cover di Tainted Love dei Soft Cell. Più che al brano in sé, mi riferisco al video, con le costellazioni che prendono vita e, sotto forma di ballerine composte di stelle, spingono un ragazzo a scappare di casa e lasciare il suo amore insano. Immediatamente ho pensato di utilizzare le stelline fluorescenti, quelle autoadesive che si applicano sul soffitto nelle stanze dei bambini, per ricreare una situazione che sdrammatizzasse l’enfasi nietzschiana dell’opera nella stanza accanto – 120578, in cui metto al mondo me stesso ed il mondo bucando il cielo a forza di spari di mitraglia – e che fosse preludio a quella successiva, genuinamente ludica nell’utilizzo dell’icona pop di Freddie Mercury versione anni ’80. Naturalmente il lavoro sarebbe risultato troppo leggero se non avessi messo in rapporto le stelline fluorescenti con un materiale “poverista”, “antico” e carico di significati opposti, come la carta carbone che, opaca, cattura e mastica luci e colori, inghiottendoli nel nero. Nel pensare a quest’opera e al contrasto, così forte, tra il bianco luminescente ed il nero totale, mi è venuta in mente l’immagine di mia madre il giorno delle nozze in chiesa. Contrariamente a tutte le spose era vestita totalmente di nero. Da piccolo, ricordo di averle chiesto il perché ogni volta che tirava fuori l’album di famiglia per farlo vedere a qualche coppia di amici. Risposta di mia madre: “Eh, mi piaceva così”. Allora sono andato a cercare una di quelle foto, ne volevo una in cui sia lei che mio padre fossero “distratti” da qualcosa. E l’ho trovata. Si vedeva chiaramente che tutti e tre (compreso mio nonno) stavano osservando ed indicando qualcosa in terra. Li ho presi e trasportati nel bosco di notte, dove senza luce non vedi ad un palmo dal naso. E così, semi invisibile, è questo bosco, rimasto impresso in negativo sulla carta carbone che ho posto sotto ai fogli sui quali ho eseguito il grande disegno a matita non esposto e qui riprodotto. Ovviamente, riportato in negativo, il vestito nero di mia madre appare invece più chiaro rispetto al nero dello sfondo: il processo di sbiancamento si completa sulla parete di fronte dove, a luci spente (un timer alterna un minuto di luce ad uno di buio), si possono osservare le sagome speculari di Anna e Nicola scintillare, composte di migliaia di bianche stelle fluorescenti. In terra, in un mucchio disordinato, altre migliaia di stelle luminose, unico elemento visibile sia a luci spente che a luci accese e in rapporto diretto con le due immagini che altrimenti non si incrocerebbero. Racconta di un amore che dura ogni giorno, nonostante tutto, e lo fa con naturalezza, adattandosi al suolo spontaneamente, in chiara opposizione alla visione violenta dell’amore nella stanza di fronte: vedi la scheda di Rocco (Siffredi) e i suoi fratelli.

120578

Andrea Mastrovito 

Questo lavoro, realizzato appositamente per Casa Testori, ha radici lontane: nasce infatti da un’idea per un lightbox intitolato My Birthday che presentai a Ginevra un paio d’anni fa, dopo uno sciagurato viaggio con Zizi ed Eugenia. L’opera raffigurava me che, con una rivoltella in mano, sparavo verso il cielo bucandolo e ridisegnando così, con la luce retrostante, l’esatta disposizione delle costellazioni che si poteva osservare da Bergamo il 12 maggio 1978, giorno della mia nascita. Nei vari sopralluoghi a Casa Testori, mi è stata sempre fatta notare l’importanza della grande stanza al piano di sopra, in cui Testori era stato concepito, era nato, in cui erano morti entrambi i genitori ed in cui lui, dopo la morte della madre, si era trasferito. Mi è sembrato naturale pensare di riproporre quel concetto di nascita, allargandolo però a tutta la stanza e rendendolo allo stesso tempo globale ed intimo, attraverso la videoproiezione separata in due stanze. Nel locale adiacente alla grande stanza patriarcale, al buio, ci sono io (video animato e proiettato) che sparo a ripetizione verso il muro opposto, quello contiguo alla grande stanza dove, man mano che proseguono i colpi, sul soffitto si disegna l’esatta disposizione delle costellazioni che, appunto, si vedeva dalla Lombardia il giorno della mia nascita. Questo fila liscio come l’olio, ho pensato. Ma mi serviva qualcosina di più, e mi son messo a spulciare tra le foto del giovane Testori, finché alzo lo sguardo alla biografia e leggo: Giovanni Testori (Novate Milanese, 12 maggio 1923 – Milano, 16 marzo 1993). Stupito, mi accorgo che non devo cercare più nulla, siamo nati lo stesso giorno.

APPUNTI PER UNA GUERRIGLIA

Andrea Mastrovito

In questa camera sono raccolti tre lavori (due video ed uno installativo) che proseguono il cammino a ritroso dalle origini della Famiglia Testori fino alla nascita di Testori, sempre alternando i livelli di narrazione dalla mia storia alla sua. Questa è la stanza dei bambini. Appunti per una guerriglia, realizzato con semplici chiodini di plastica per bambini e del polistirolo, è un chiaro rimando, esplicito nel titolo e nei materiali, all’Arte Povera ed al suo “manifesto” che Celant pubblicò su ’Flash Art’ nel novembre del ’67: qui la tautologia sta nei bambini (i miei nipoti ed un loro amico) che, composti di chiodini, cercano, scavando nel polistirolo, altri chiodini per ricostruire “l’identificazione uomo-natura”, il mostro primordiale col cranio di uomo, per un “ritorno alla progettazione limitata ed ancillare, in cui l’uomo è il fulcro e il fuoco della ricerca, non più il mezzo e lo strumento”. L’opera venne realizzata nel 2008 per la mostra L’origine delle specie da Biagiotti Progetto Arte a Firenze, a chiusura di un ciclo di sette pezzi, tutti realizzati con chiodini di plastica su polistirolo. Sulla parete opposta all’installazione, un televisore propone due video realizzati a distanza di sei anni uno dall’altro ma accomunati dalla rivisitazione ludica di classiche storie per adulti. In Nickelodeon, il Frankenweenie di Tim Burton (che già parla, tra l’altro, di un piccolo Frankenstein che ridà vita al suo cane), viene fotocopiato fotogramma per fotogramma e quindi rimontato facendo scorrere, a mano, tutte le circa 10.000 fotocopie di fronte alla telecamera, riottenendo esattamente la sequenza originale del film in cui il montaggio e la regia sono, però, effettivamente affidate alla mano, ben visibile, dell’artista. In Bawitdaba due animali giocattolo, una scimmia ed un maiale di plastica, attraverso un blob cinematografico in cui ogni scena è ricostruita con materiali di recupero ed in cui l’audio è preso esattamente dall’originale del film, interpretano i miti del grande cinema, da Il Dottor Stranamore Shining, da The Blair Witch Project Nosferatu Qualcuno volò sul nido del cuculo e così via. Ripropongo sempre con affetto questo video: è la prima opera che mostrai in una vera mostra (Italian Boys da Analix Forever a Ginevra) e fu anche la prima che vendetti, con grande gioia mia e di Zizi (regista del video) che ci beccammo, a testa, la bellezza di 125 euro.

FAMILY MATTERS

Andrea Mastrovito 

Otto sotto un tetto è il titolo italiano per la sitcom americana Family Matters. Di otto membri era composta la famiglia Testori: mamma, papà, due figli maschi e quattro femmine. Ci si dava da fare all’epoca, quando la sera non c’era la televisione. L’immagine rappresentata è tratta da una foto, l’unica che ho trovato con tutta la famiglia al completo ed in posa davanti ad uno dei grandi alberi del giardino della villa. L’opera è realizzata intagliando direttamente il muro e portando alla luce, di volta in volta, gli strati di pittura, gli intonaci, il cemento ed i mattoni: è una tecnica che, in precedenza, avevo utilizzato solo una volta, in occasione di Pindemonte a Ginevra. Ricordo bene, era Natale. A Natale mi vengono sempre nuove idee, non so perchè. Ero in bagno – come Freddie Mercury quando compose Crazy little thing called love, solo che lui era nella vasca da bagno, io sulla tazza del cesso – e stavo sfogliando un catalogo del CesaC di Cuneo. Ad un certo punto mi si para dinanzi una foto col lavoro di William Anastasi. Una striscia di muro scavata a picconate, e le macerie abbandonate lì, proprio sotto la striscia, come se fosse passato un dio a incidere la roccia col suo mignolo. Illuminante, pensai. Da lì scrissi un’email a Barbara, che mi chiedeva un’idea nuova per la mostra in programma da Analix a maggio. E pensai a queste figure, questi “guardiani” incisi nel muro della galleria, e alle loro ceneri, racchiuse in urne sottostanti. Ricordavo benissimo che su quelle pareti, erano intervenuti pittoricamente decine di artisti, da Julian Opie a Martin Creed, da Matt Collishaw ad Alex Cecchetti a Luca Francesconi, da Jessica Diamond fino a me stesso un paio di volte, e pensai che, piano piano, con un taglierino e molta pazienza, si potevano ritrovare tutti gli strati di pittura, ricostruendo la storia archeologica della galleria semplicemente portando alla luce tutti quei colori. Pian piano l’idea prese forma e si trasformò in Pindemonte, ovvero una sorta di allegra danse macabre in cui diciotto personaggi, saltando, giocando, scopando, corrono dritti tra le braccia della morte. E tutte le ceneri raccolte in 18 urne, come un piccolo cimitero della pittura. Ricordo che, per la prima volta in vita mia, piansi di commozione una volta finita l’opera, dopo notti insonni passate a grattare decine di metri quadri col taglierino. Così anche qui a Casa Testori ho lasciato che fossero i muri a parlare: come se fossero stati impregnati di sostanze fotosensibili, ci restituiscono le sembianze delle persone che hanno vissuto qui negli anni passati, presenze che ancora impregnano (credeteci, da uno che ha passato le notti lì dentro), benevole, tutte le venti stanze…

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