Gionri Felici

Ettore Frani, RESPIRI

Stanza 22

Porre il corpo dentro l’anima e non viceversa.
Non l’opera nella stanza ma la stanza dentro l’opera, intreccio tra profondità e superficie, scambio osmotico tra viscerale e atmosferico.
Liberare aperture, nella speranza che l’opera possa accogliere le vestigia di questa epifania.
Una lingua indecifrabile trapela dalle pareti mute, e l’opera si fa orecchio, conchiglia accarezzata dalla spuma sulla rena.
Il tempo è unzione che sgorga e secca.
Toccare con gli occhi il tempo, il silenzio appeso alle pareti.
Bisogna che l’immagine respiri con esse, che si faccia soglia misteriosa.
Nel respiro c’è qualcosa che ritorna e svanisce continuamente, movimento anadiomene che suggerisce e non mostra.
Ciò che resta celato è maggiore di ciò che si esibisce.
Il respiro non conosce distinzione tra esterno ed interno, tra mio e tuo, tra individuale e universale.
Nel respiro c’è contagio, attraversamento, trasudo, umore interstiziale tra la pelle dell’opera e le vesti della stanza.
Sei opere per custodire e rivelare ciò che non può essere mostrato.
Non ci sono che resti, piccole sopravvivenze che l’opera tenta di tracciare.
Un cuore vivo riscalda i bianchi, e la superficie si scopre ricettacolo d’attesa e desiderio.
Ettore Frani

La poetica di Frani si conferma innanzitutto come una poetica del velo e dell’attesa. Egli sa interrogare la superficie della tela e la superficie del mondo perché vi sa vedere la profondità che vi è implicata. È nella superficie che infatti si dà il quadro e si dà il mondo. Ma, come diceva Nietzsche, sarebbe del tutto ingenuo pensare che la superficie sia di per sé superficiale, cioè contrapposta al vero essere del mondo, come una parte caduca e secondaria rispetto alla centralità sostanziale dell’essenza. No, Frani lavora sulla superficie ponendo nella superficie il mistero del mondo, la sua contingenza illimitata.
I suoi bianchi sono il frutto di stratificazioni di colore multiple, meticolose, liriche e, insieme, insistenti e accanite. La pace che egli raggiunge al termine dell’opera è ottenuta attraverso un lavoro tenace. Il suo bianco non è affatto un dato di partenza. Egli non parte dalla superficie, ma la raggiunge. I suoi bianchi sono così sempre popolati da macchie, ombre, presenze, piccole incisioni, scavi impercettibili, densità discontinue su uno sfondo solo apparentemente omogeneo. Il suo sforzo monocromo ruota in modo privilegiato attorno all’oscillazione dell’assenza nella presenza e viceversa. Frani costruisce i suoi bianchi attraverso la pittura e in questa costruzione eleva la superficie alla dignità di un mistero.
Il velo non ricopre l’essenza, non occulta il mistero, non nasconde il mondo. Il velo è il mondo; non c’è mondo senza velo. Il mistero del mondo è tutt’uno col mistero del velo.
Massimo Recalcati

Ettore Frani è nato a Termoli (CB) nel 1978. Vive e lavora a Roma.

Danielle Sassoon, VIA FATEBENEFRATELLI 20

Stanza 9

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti, a persone e/o cose realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Danielle Sassoon

“Stanze” nella stanza. “Stanze” di un passato impregnato di paura e di dolore in una stanza invasa invece dalla luce felice del giardino lombardo. Strisciate di sofferenza che prendono coraggio, che escono dal buco nero in cui se ne stavano rintanate. È il nodo del passato che riaffiora come per una necessità, preso per mano da un destino imprevisto e non più nemico. Il dolore muto di quelle stanze vissute da un’infanzia ferita, prende voce. Dolore visibile, non più nemico, come un compagno di strada ritrovato. Si avverte quasi un desiderio di accarezzare quel dolore, di prendersene finalmente cura. Di ripetere e ripetersi che aveva ed ha un senso.
Come tanta arte femminile di questi decenni anche quella di Danielle Sassoon è ferocemente sincera con se stessa. Non fa sconti. Mette a nudo l’anima con crudezza. Ma questo non impedisce di farsi canto. Nella stanza le “stanze” intonano finalmente il loro straziato canto.

Danielle Sassoon è nata nel 1965 a Milano, dove vive e lavora.