Month: Marzo 2020

STANZA 1 – IN SALA DA PRANZO

La mostra si apre con la scultura Loose (2017) di Christian Fogarolli che invita il fruitore a relazionarsi con l’opera per riuscire pian piano a cogliere l’immagine-identità che emerge da un gioco di rifrazioni su una superficie specchiante. L’immagine fotografica di archivio, di cui l’autore si è appropriato, riemerge per frammenti sotto la superficie informe del piombo e la sua visione richiede pazienza e perizia, mettendo in scena simbolicamente un andare oltre una prima osservazione retinica delle apparenze, per aprirsi alla scoperta dell’altro e delle sue peculiarità — gesto che ben riassume molti temi dell’esposizione. La scultura si relaziona con la fotografia Déjà vu (2008) di Filippo Berta, dove vediamo inscenata la sfida apparentemente ludica del tiro alla corda tra sei coppie di gemelli che porta a una riflessione sulla competitività sottesa alla nostra esistenza: un ritorno metaforico al Bellum omnium contra omnes dove si combattono persone con il medesimo corredo genetico. In questo, come nella maggior parte dei lavori dell’autore, è la messa in scena di piccoli gesti quotidiani a far emergere la conflittualità e le tensioni insite nel rapporto tra uomo e società. La serie di video e fotografie dell’autore che si succedono in mostra sono l’esito di performance collettive dove azioni all’apparenza banali assumono un valore allegorico per smascherare il conformismo diffuso nel nostro vivere.

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LE OPERE

Christian Fogarolli, Loose, 2017, stampa a pigmenti su piombo lavorato a mano, specchio spia
Filippo Berta, Déjà vu, 2008, performance, Photo Print Diasec©

Mauro Maffezzoni e Matilde – i dialoghi della quarantena

Matilde fa la terza media e l’anno prossimo farà il liceo artistico. Siamo chiusi in casa ormai da un mese. Non possiamo né andare nel mio studio a prendere del materiale nemmeno andare in un colorificio perché sono tutti chiusi. Così abbiamo deciso di usare un album che mia moglie ha regalato a Matilde poco prima della quarantena e usare tutti i pastelli e le matite trovate in casa. Ci mettiamo in piedi al tavolo con sopra il foglio e, l’uno davanti all’altra, disegniamo alternandoci come in un botta e risposta. Ora facciamo così quotidianamente. Il titolo della serie è “I dialoghi della quarantena” 
Mauro e Matilde Maffezzoni

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Mauro Mafezzoni (Rovereto 1960). Vive e lavora a Milano e Cremona

Attraversando Piazza Arbasino


“La «fortuna topografica» dell’Ingegnere pare invero scadente. Un cosiddetto «Largo» a Milano su via Paolo Sarpi, altra Chinatown. E a Roma, nel più profondo Ardeatino, partendosi da una «piazza E. Montale» (da non confondere con una via Montale all’estremo NordEst, accanto a via R. Pampanini, via G. Pasquali, via M. Del Monaco), un desolato cul-de-sac fra i tanti: Pratolini, Fenoglio, Da Verona, ma anche Lorca, Kafka, Joyce, Proust. Ecco perché su radio-taxi si sentono specificazioni per un incrocio Pavese-Vittorini. Gli altri non fanno «civico». (Ma quanti vecchi amici sono diventati strade a cul-de-sac, secondo le Pagine Gialle, mannaggia)”.

È un passaggio memorabile del ricordo dedicato a Carlo Emilio Gadda, l’Ingegnere in blu, firmato, con la consueta pungente e malinconica ironia, da Alberto Arbasino, lo straordinario scrittore scomparso questa settimana a 90 anni. 
Se lo ricordiamo qui è perché Alberto Arbasino fu molto legato a Giovanni Testori e lo era stato innanzitutto proprio nel nome di Gadda. Nel 1960, a sei anni da Il dio di Roserio e a ciclo de “I Segreti di Milano” pressoché concluso, un Arbasino in cerca d’ideali compagni di strada, sulle pagine del «Verri» coniava per sé, Testori e Pier Paolo Pasolini, la celebre definizione di “nipotini dell’Ingegnere”, per sottolineare il loro comune debito verso il plurilinguismo di Gadda. Del resto, anche Pasolini aveva dato alle stampe le storie della sua periferia, quella romana, ed erano usciti in quegli anni Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). 
Un mondo, quello del neorealismo, che in pochi anni stette molto stretto a tutti e tre e che, a Testori, era andato in frantumi con l’esperienza de L’Arialda, uno scandalo, ma soprattutto una liberazione per lo scrittore di Novate. Del resto, dopo Le piccole vacanze (1957) e il primo L’anonimo lombardo (1959), per Arbasino, nel 1963, arrivò il tempo di Fratelli d’Italia. Proprio in quell’anno, forse non a caso,  spetta a lui registrare quel momento fondamentale di passaggio per Testori: “Mutamenti d’interessi, ripensamenti profondi, ragioni biografiche e i soprassalti d’una fioritura produttiva ricchissima ne fratturano da un paio d’anni la carriera letteraria così significativa e operosa”, scrive Arbasino nell’attacco della sua bellissima intervista a Testori che potete leggere in versione integrale sul sito dell’Associazione.

Del resto, l’amicizia tra i due fu una di quelle che durarono una vita, magari a distanza, sulla direttrice Milano-Roma, fino agli ultimi anni. E non solo in quelli topici in cui Testori lo accompagnava a colazione da Luchino Visconti e sedevano insieme (ufficialmente dal 1962), al tavolo della redazione di «Paragone Letteratura», diretta da Roberto Longhi e governata da Anna Banti. A testimoniarlo – è un ritrovamento proprio di pochi giorni prima di questa chiusura forzata – è una lettera di Alberto Arbasino, conservata nell’Archivio dell’Associazione al primo piano di Casa Testori. È l’ottobre del 1991, Testori è in piena lotta con il male dell’ultima battaglia contro la malattia, ma in cantiere ci sono ancora drammi teatrali e, sulle pagine del «Corriere della Sera», i suoi articoli escono a spron battuto. Tra un intervento dedicato ad Alberto Burri e uno a Keith Haring, s’incastona questa paginetta semplice, poche righe su un fondo carta da zucchero, parole limpide e asciutte, come si addice all’amicizia che l’età ha reso tersa ed essenziale.

A Giovanni Testori la città di Milano ha dedicato un grande giardino pubblico in una delle sue periferie della città, in fondo a Via Mac Mahon, a pochi passi dal Ponte della Ghisolfa, incastonato tra i quartieri di Villa Pizzone e della Bovisa. Niente cul-de-sac, insomma. Quando potremo uscire di casa, e tornare a passeggiare per le vie di Roma, ci auguriamo di poter attraversare, riconoscenti, piazza Alberto Arbasino e, se ci sarà una panchina, ne approfitteremo per riaprire uno dei due “Meridiani” con dedica che acquistammo qualche anno fa, alla presentazione con autore, nel foyer del Teatro Franco Parenti.

Davide Dall’Ombra

VESTITI COME UNA VESPA

Lo scultore greco Pigmalione si era innamorato della propria statua, Galatea, al punto da considerarla superiore a qualunque donna e di dormirle accanto. Afrodite decise allora di accontentarlo dandole la vita. Similmente Matteo Negri ha cercato di dare vita a una Vespa Piaggio degli anni Settanta, realizzandola in bronzo e dotandola di una carenatura in grado di farla piroettare. La Vespa è così un simbolo di libertà, di leggerezza, e sembra quasi danzare come una ballerina che vola sulle proprie gambe.

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Vestiti come una Vespa, 2016, fusione in bronzo a cera persa, motore elettrico, ferro, legno cm 135x120x240

CINQUE DI FIORI

Una carta da gioco floreale, un frammento di giardino racchiuso nella stanza dove tanti anni fa l’artista aveva esposto per la prima volta a Casa Testori le proprie ceramiche. Non ci sono più mine sottomarine ad accogliere lo spettatore nella stanza, ci sono fiori immersi tra una vegetazione rigogliosa. La ceramica cerca così di fare concorrenza alla flora tropicale, in un continuo rigenerarsi di colori che sfida la natura (qui controllata e tenuta in vita da sensori e sistemi elettronici), cercando di confondersi e di rubarne l’intima bellezza.

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Cinque di fiori, 2016, flora varia tropicale, irrigazione a sensori digitali, acqua, feltro, pvc, engobbio su terracotta, luce led cm 200x260x40

ALEPPO

Aleppoè una trottola cromata, cava al suo interno, con un motore che le fa compiere trenta giri al minuto. Un’opera che racconta la vitalità e il desiderio di normalità dei bambini di un paese martoriato come la Siria, che tenta di rinascere. Aleppo racconta cromaticamente il paesaggio dell’infanzia, ne costituisce un bagaglio in continuo movimento in cui sono contenuti i colori ed il gioco, in un orizzonte in cui il presente continua incessantemente, talvolta in maniera dolorosa, a bussare alla porta.

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Aleppo, 2016, installazione ambientale, motore elettrico, acciaio, resina poliestere, cromo liquido, colore per vetro 

DELLE PIÙ BELLE, LE PAROLE, MANCO A DIRLE PENSANO DI ESSERE

Manciate di lettere seminate e perse da una grossa palla capricciosa che rotola. Parole in grande libertà e di curiosa incomprensibile qualità. Parole come cielo stellato da unire con un trattino. Parole costellazioni, parole per guardare e vedere più in là del naso. Parole da leggere senza capire, a bocca aperta.

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Delle più belle, le parole, manco a dirle pensano di essere, 2016, installazione ambientale, silicone, legno, luce wood, WowPowder

KAMIGAMI

Kamigami è una scatola magica che amplifica la percezione dello spazio e di ciò che sta al di là del nostro limite fisico. È scultura che si vede dal buco della serratura dalla quale si intuiscono la griglia costruttiva e la struttura ricorsiva di un mattoncino moltiplicarsi all’infinito. Kamigami è un miraggio che pare reale, è rifrazione, creazione di uno spazio intimo e magico che trasforma ludicamente l’osservatore in voyeur.

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Kamigami, 2016, installazione ambientale, ferro cromato, laccato, zincato, specchio, legno, luce neon

L’ULTIMA STANZA

L’ultima stanza chiude il percorso dei continenti, dopo la Cina, il Sud Africa, il Guatemala e l’Italia, si documenta con immagini e un breve video realizzato da un canale online di Al Jazeera la vicenda del colletttivo ArtsLords diretto da Kabir Mokamel che, in Afghanistan, ha invaso la città di Kabul con i suoi graffiti, realizzati sui muri della città, eretti per cercare di fronteggiare i frequenti attacchi suicidi. Ma non solo. Chilometri di mura abbandonate, macerie, edifici sventrati sono a disposizione dell’arte, per denunciare un paese segnato dalla corruzione e perseguire una resistenza culturale sulla falsariga dei murales di Banksy, in una terra continuamente oppressa dai talebani. L’opera con cui il collettivo ha vinto il Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani Anti-Corruption Excellence Award è il murales con i grandi occhi che ci guardano e interrogano, affiancati dalla frase che è anche una possibile conclusione di questa mostra: “Ho visto la vostra corruzione che non è nascosta agli occhi di Dio, benché voi cerchiate di nasconderla alla gente”. 

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LA STANZA DEL TERRAZZO

C’è Roma a fare da filo conduttore di questa stanza. Tre artiste con diversi approcci affrontano il tema di una città il cui destino ha spesso intrecciato grandezza e corruzione. Emblematica da questo punto di vista l’opera di Elena Monzo, sulla destra, che con il suo stile che sa essere delicato e tagliente nello stesso tempo, lavora sull’immagine simbolo della Città eterna: la lupa. Ma sotto di lei non troviamo i celebri gemelli bensì figure femminili nude, che richiamano l’immagine di una nuova Babilonia, accentuata da una vestale, una neo Salomè che, appoggiata alla nicchia, si pro-pone. 

Il lavoro di Marica Fasoli nella parete di fronte si richiama invece ad un episodio celebre e ai confini del credibile nella Roma in cui il potere papale era all’apice. Si tratta del regalo che Manuele I, re del Portogallo, fece nel 1514 a Leone X, uno straordinario elefante albino, chiamato Annone. Quando il “presente” del re passò in corteo per le strade di Roma fu un vero trionfo. Nel 1962 durante i lavori nei Giardini del Belvedere, alcuni operai si imbatterono nei resti di una grande mascella e di un dente gigantesco. Solo a fine anni ‘80 lo storico Silvio Bedini riuscì a ricostruire la vicenda e a ricollegare quei resti all’elefante Annone, che a Roma non aveva resistito molto, morendo nel 1516. L’elefante, a cui si racconta che il papa si fosse molto affezionato, era diventato il simbolo delle degenerazioni del potere pontificio, pronto a cedere alle lusinghe dei potenti d’Europa. Simbolo anche di una corruzione profonda che avrebbe sollevato l’indignazione degli ambienti filo-luterani. La pubblicazione delle tesi e lo scisma protestante erano alle porte.

In alto, volutamente in disparte, a vegliare e interrogare la Roma divisa tra i due poteri terreni, imperiale e papale, è l’opera di Adele Ceraudo, una fotografia (scattata da Matteo Basilé) in cui la stessa artista posa in croce. Anche in questo caso il richiamo corre inevitabilmente all’episodio di corruzione che sta all’origine della Crocifissione di Gesù.  

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