Month: Marzo 2020

IL BAGNO

Una collocazione che più pertinente non si poteva immaginare per l’opera di Annalisa Pirovano, che approccia il tema del rapporto tra sessualità e potere. Il suo lavoro mette a tema un soggetto da sempre molto amato dagli artisti: quello biblico di “Susanna e i vecchioni”. È la vicenda di una giovane e bella ragazza che viene sorpresa da due anziani che frequentano la casa del marito. I due “vecchioni” che sono da poco stati nominati giudici, prima la importunano con proposte oscene, poi, di fronte alle sue resistenze, l’accusano di adulterio davanti al marito. La Pirovano immagina la scena all’interno di un bagno vintage, attualizzando la storia biblica e avvicinandola all’immaginario collettivo pruriginoso. La sua opera è dunque una riflessione su sesso, potere e corruzione.

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La terza stanza

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È monografica e dedicata al ciclo “donotclickthru”, di Debora Hirsch, artista brasiliana che vive e lavora a Milano. Il lavoro si presenta come una sequenza di immagini disegnate su piccoli fogli di acetato, con un riquadro che suggerisce lo schermo di un computer o l’interfaccia di un social media come può essere Instagram, e una breve didascalia che fa parlare l’immagine, nel senso che ne svela il paradosso. L’operazione di Debora Hirsch, con ironia e intelligenza, ci parla del depistaggio che il sistema mediatico opera rispetto al reale andamento delle cose. Un sistema di depistaggio che sempre più spesso viene acriticamente accettato. È una forma di corruzione della capacità critica delle persone, quella che l’artista ci racconta con la sequenza delle sue schermate. E mettendocela davanti agli occhi attiva la curiosità e stimola a opporre una nuova conoscenza capace di andare oltre la frenesia dei click.

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LA SECONDA STANZA

Il video di Regina José Galindo è uno dei punti certamente più intensi e drammatici del percorso. È un’opera celebre, presentata nel 2013, una denuncia impressionante delle degenerazioni del potere dell’ex presidente del Guatemala Efrain Rios Montt. L’artista seduta su un banco di scuola legge le dichiarazioni delle donne vittime di violenze e di soprusi durante la guerra civile in Guatemala. L’operazione viene interrotta più volte da un dentista che, a cadenza regolare, inietta dell’anestetico nella bocca dell’artista, limitandone sempre di più la capacità di formulare delle parole. La lettura si trasforma in un mantra pronunciato con immensa fatica. Ma nonostante il sistematico tentativo di censurare la sua voce, tentativo rappresentato dalla figura del dentista, l’artista continua a parlare imperterrita, con la voce che si spacca, le labbra gonfie e le parole sempre più rallentate. Il corpo dell’artista diventa in questo modo unità di misura della pressione dispotica del potere: assume su di sé le atrocità subite dal corpo collettivo.

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LA STANZA GRANDE

Un’altra escursione globale è in questa stanza del primo piano. Si confrontano due artisti, uno italiano e uno americano, che hanno messo a tema il Sudafrica di ieri e quello di oggi. Al passato del paese si rivolge il lavoro di Pietro Ruffo, esposto sulle tre pareti a sinistra. La ricerca dell’artista restituisce due diversi momenti pre-rivoluzionari della storia del Sudafrica ed è il risultato di un progetto di residenza a Johannesburg. Il primo periodo è il Seicento, quando gli insediamenti degli olandesi sono unicamente a scopo agricolo, funzionali all’approvvigionamento delle proprie navi dirette in Oriente. Il secondo periodo è relativo alla fine degli anni ‘80 del Novecento, caratterizzati dalle rivolte che precedono le fine dell’apartheid. Per il primo periodo Ruffo ridisegna stampe originali olandesi; per sovrapporci il secondo momento utilizza manifesti di protesta utilizzati come vere e proprie armi contro il regime. Due momenti “pre” perché «Prima di una rivoluzione, prima del tempo in cui cambia qualcosa, le persone hanno un’idea unica di libertà e questa idea di libertà è molto forte nella loro mente», spiega l’artista. Nella grande parete frontale si presenta Yazmany Arboleda, di origini colombiane, oggi vive a New York dove mette a punto progetti di “living sculptures” in grado di trasformare il mondo. In Sudafrica ha messo nell’obiettivo la questione degli edifici che il potere politico ed economico lasciano vuoti: l’azione narrata dai disegni e dalle fotografie esposte racconta l’intervento al Central Business District di Johannesburg, dove, in una notte, nove edifici del centro sono stati segnalati grazie a macchie di vernice rosa sulla facciata, fatte per resistere qualche settimana.

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LA GRANDE SCALA

La salita al primo piano della casa è scandita da un ciclo emblematico: è quello realizzato da Zhang Bingjian, artista e filmmaker cinese. Il titolo è ironico: “Hall of Fame”. In realtà è un “wall of shame”, un muro della vergogna. Bingjian ha commissionato ad un gruppo di artisti 3600 ritratti di funzionari pubblici cinesi condannati per corruzione. È un progetto in fieri, in continuo aggiornamento, lanciato nel 2009. A Casa Testori Bingjian porta una selezione di questa enorme galleria della corruzione. Sul fianco di ogni ritratto troverete il timbro che indica nome, cognome, quanto ha rubato e la condanna ricevuta. Emblematicamente Bingjian ha voluto che tutti i ritratti fossero dipinti in rosa su rosa, che è il colore della banconota cinese da 100 yuan.   

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LA STANZA SULLA FERROVIA

L’ultimo ambiente del percorso al piano terra propone il confronto tra due opere di impatto molto dirompente. Entrando il visitatore si trova di fronte, infatti, due grandi ceramiche di Bertozzi & Casoni.  Giampaolo Bertozzi e Stefano Del Monte Casoni dal 1980 lavorano in società; realizzano sculture spiazzanti in cui la ceramica viene usata per rappresentazioni che ne violentano la natura di materiale delicato e aggraziato. Con “Composizione scomposizione” è un insieme di tubi, raccordi, ruote, rubinetti che suggeriscono l’idea di una funzionalità palesemente non funzionante. È anche una rappresentazione delle regole che si sono accumulate al punto di consolidarsi come coacervi intricati, senza più un capo né una coda. La corruzione nelle opere di Bertozzi & Casoni ha speso preso la forma di cibo che viene “corrotto” dai processi di ossidazione. In questa serie (il ciclo completo di “Composizione scomposizione” è costituito da sette pannelli) invece la metafora è più espressamente rivolta al caos che si scatena in un’organizzazione sociale nel momento in cui le regole vengono alterate. Al centro di entrambe è posto uno scrigno dall’interno dorato, perché non c’è situazione intricata, degradata o opprimente che non possa avere un punto di fuga.

Il nesso con il video di Filippo Berta nella stessa stanza è stringente ed immediato. “Homo homini lupus” è un’opera del 2011 ed è stata presentata per la prima volta al Madre di Napoli. Berta prende alla lettera la celebre espressione di Plauto che divenne concetto base della filosofia di Thomas Hobbes. In uno scenario lunare da fine della Storia, un branco di lupi si accapiglia con ferocia attorno a una bandiera italiana. Il pezzo di tessuto viene addentato e strappato con violenza, ridotto impietosamente a brandelli. Il video può essere letto come a metafora brutale di un consesso sociale in cui prevale la logica della prepotenza e che quindi calpesta anche quello che dovrebbe essere un simbolo collettivo, come la bandiera nazionale. La corruzione è una forza negativa che   distrugge le relazioni. Porta aperta alla violenza, anche se subdola e non esplicita e a suo modo “sincera” come quella di questi lupi che si disputano la bandiera.

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LA SALA DEL CAMINO

Tre artisti si confrontano in questo spazio suggestivo di Casa Testori, intessendo un dialogo che ricorre a forme espressive coinvolgenti e audaci. Marco Cingolani entra in gioco portando un grande striscione, vera opera d’arte da manifestazione, distesa sopra al camino. Lo slogan tracciato  a lettere cubitali rivendica una richiesta che risuona persin ovvia, se non fosse smentita dalla realtà, ad ogni istante: “Il dovere al potere”. È un’opera che lascia interdetti nella sua nudità: un po’ come un grido che rimbomba nel silenzio. Se lo striscione è opera che Cingolani porta con sé da tanti anni, quasi come un’implorazione, il quadro-cartellone che lo affianca in questa sala è invece stato realizzato ad hoc per la mostra di Casa Testori. È un ritratto di Bernard de Mandeville, medico e pensatore olandese cui si deve una definizione dell’ipocrisia entrata nel linguaggio comune: «Vizi privati e pubbliche virtù». “La favola delle api: ovvero vizi privati e pubbliche virtù” è, infatti, il titolo del suo libro più noto, scritto nel 1714. E “I furfanti diventati onesti”, suonava il titolo nella prima versione del libro, sciogliendo ogni dubbio circa la natura di quelle “pubbliche virtù”.

Massimo Kaufmann porta a Casa Testori una rivisitazione “gridata” di una sua opera di inizi anni ‘90. Come nel caso di Cingolani il mezzo espressivo scelto è volutamente aconvenzionale: un wallpaper che ingrandisce a dismisura l’originale e ne restituisce, enfatizzato, l’inquietante messaggio. Il ciclo prende spunto dai celebri “Capricci” di Goya, rappresentazione impietosa della società corrotta, dominata dalla menzogna e dagli abusi di potere. Una rappresentazione che Kaufmann restituisce con un linguaggio attualizzato e ardito. Gli originali infatti sono stati realizzati con caratteri da macchina da scrivere, che accentuano gli aspetti caricaturali di questa rappresentazione di una società che sembra smangiata dalla pervasività della corruzione. Kaufmann, proprio per sottolineare la portata pubblica del messaggio contenuto in questa sua opera, ha realizzato anche una versione firmata e numerata del wallpaper, che i visitatori possono acquistare.

Infine, Stefano Arienti interviene con un’installazione affascinante, intitolata “Lame Italia”, dove degli attrezzi che sono memoria della terra contadina da cui viene l’artista (è nato ad Asola, in provincia di Mantova) assumono un aspetto enigmatico, quasi avessero smarrito il senso positivo della loro funzione. Una metafora delicata del rovesciamento di valori che avviene quando s’innescano patologie sociali come la corruzione.

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IL GIARDINO D’INVERNO

È la piccola sala d’angolo, le cui pareti sono state tutte dipinte da un intervento collettivo progettato e curato da Massimo Kaufmann nel 2014. Al centro dell’ambiente, il percorso della mostra prevede un nuovo lavoro inedito di Luca Pignatelli. L’artista ha sempre indagato sul tema della memoria e del passato, concependo la propria arte quasi come un atto di resistenza rispetto all’implacabile azione corrosiva del tempo. Questa volta l’opera di salvataggio è rivolta allo stesso supporto di questo dipinto, che è anche una scultura: è stato realizzato, infatti, su una lastra di ferro dismessa dal tetto di una chiesa dell’Engadina, in Svizzera, e destinata alla discarica.

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LA STANZA SUL GIARDINO

Due fotografi che propongono un identico dispositivo espositivo: coppie di foto in evidente dialettica tra di loro, ma in non così evidente relazione. Una celebre foto di Letizia Battaglia di un delitto di mafia, “I due Cristi” del 1982, va in rotta di collisione con un’altra immagine che documenta la beata indifferenza dell’alta società della città che festeggia il Capodanno 1985 a Villa Airoldi, a Palermo. Sangue e cristalli, buio e scintilli, tetro silenzio e fragori di allegria: e se fossero immagini di una stessa pellicola? Giovanni Hänninen propone una identica dialettica a Milano. Il baracchino dei panini che sbuca dalla nebbia è quello di via Celoria, di proprietà di Loreno Tetti. È stato denominato il paninaro anti-’ndrangheta. Tetti, infatti, è stato l’unico a non tirarsi indietro nel processo contro il racket dei venditori ambulanti controllato dalla famiglia Flachi. Ma poco tempo dopo la sua testimonianza il furgoncino, il 19 luglio 2012, è stato dato alle fiamme. Dalla piccola economia alla grande: davanti al Palazzo della Borsa c’è la scultura di Maurizio Cattelan. Provocatoria, ma interrogante: è davvero fuori luogo? È stata messa nel pieno della grande crisi che ha messo in ginocchio l’Italia. Una crisi fatta esplodere da meccanismi corrotti della finanza. «Il boss contemporaneo – scrivono Hänninen e Alberto Amoretti, che ha realizzato l’inchiesta alla base del reportage fotografico – è lontano dal cliché del mafioso rozzo, è un colletto bianco che ha studiato e s’intende di economia, di finanza e di tecnologia».

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LA BASE DELLA SCALA

I migranti hanno conosciuto il ricatto della corruzione sulla loro pelle. Lo hanno conosciuto sull’altra sponda del Mediterraneo quando hanno dovuto mettere i loro pochi risparmi nelle mani degli scafisti o di chi per loro; e spesso l’hanno sperimentata anche in Italia, quando l’accoglienza è finita nelle mani di organizzazioni gestite da affaristi. I migranti sono testimoniati in mostra da due opere di grande impatto e valore. Tindar, “nickname” di un artista milanese che oggi vive a Roma (e ha aperto le porte della sua casa all’accoglienza di un migrante), è presente con un trittico nato da un’esperienza di frontiera, a Calais, nei mesi della “Jungle”, il grande campo profughi dei migranti che speravano di passare la Manica. Tindar ha realizzato un ribaltamento di prassi e paradigma: ha chiesto ai migranti stesso di raccogliere (dietro un piccolo compenso) le impronte di persone che a diverso titolo incrociavano nel campo. Le impronte, montate su pannelli coperti di terra, vengono a comporre un flusso di presenze che transitano da un mondo all’altro. Tindar con un’opera come questa mette in gioco il suo essere artista. La stessa cosa accade per un nome carismatico di una diversa generazione: Corrado Levi ha portato a Casa Testori una propria foto (scattata da Beppe Finessi), in cui indossa gli abiti ritrovati sugli scogli di Otranto. Abiti abbandonati da migranti che erano sbarcati lì. Levi li aveva raccolti tutti e indossati.  «Io immaginavo di essere il corpo degli altri – ha raccontato – lo so di aver finto, ma per quanto potevo l’ho sentita dentro di me questa cosa». “Vestiti di arrivati” è il titolo dell’opera. «Quando me li tolgo e li lascio su una spiaggia, lì sugli scogli a futura memoria, quello è il momento in cui spero di poter cambiare la mia vita. È la libertà. Come un battesimo… per chi ci crede».

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