La stanza dipinta da Massimo Kaufmann nel 2014 – coinvolgendo diversi amici artisti a partecipare all’impresa – accoglie l’opera simbolo della mostra. Come due facce della stessa medaglia, i piccoli dipinti, posti al centro in un’intelaiatura lignea, raccontano due episodi analoghi e opposti insieme, tra storia e finzione. L’opera di Samorì prende spunto da una celebre foto che immortala due “Monuments men” nel momento del recupero di un Autoritratto di Rembrandt, occultato dai Nazisti. Fato racconta, invece, un ritrovamento nel segno del fake, e del grottesco: la grande testa è uno pseudo reperto romano emerso su una spiaggia americana, e proveniente dai vicini Studios di Hollywood, dove era stato creato per un colossal storico pochi anni prima.
Grazie all’intervento di Matteo Fato la stanza si trasforma completamente, diventando, di fatto, un articolato polittico in cui il visitatore è chiamato a entrare, partecipandovi. Si squaderna davanti a noi la mente dell’artista, permettendoci di scoprirne il processo creativo dell’opera. Sulle pareti troviamo, dipinti singolarmente, una persona anziana spaesata, una forchetta incomprensibilmente confitta in una trave e una pianta profumata. Tre elementi realmente colti nel luogo che ha ispirato l’opera, messi in dialogo. Un’unità che diventa fusione nel collage con la cornice di specchi e nel grande dipinto finale. Le immagini sono in qualche modo riassunte e “illuminate” dalla dominante di colore della sala, espressa nel monocromo verde, e da un flebile neon; si tratta di un elemento che per l’artista evoca in sé la terza dimensione – Fontana docet – ma che è anche un elemento di disturbo, che deconcentra dalla visione delle tele. È uno spaesamento necessario, voluto dall’artista, che invita alla ricerca di una percezione reale del proprio lavoro, grazie al superamento della visione frontale del dipinto.
PH MICHELE ALBERTO SERENI
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L’OPERA
Matteo Fato, Senza titolo con Collage (impersonale), 2012 / 2016, olio su lino, colla di coniglio e pigmento su lino, casse da trasporto in multistrato, scultura in neon, collage su carta, cornice in multistrato e specchio Courtesy dell’Artista e Galleria Michela Rizzo, Venezia
Due piccoli punti di unità e dissimiglianza si affiancano anche nella parete di fronte alla grande scala. Una presenza discreta, significativamente accanto alla grande libreria dedicata ai maestri del passato. A destra, il volto della persona amata si concentra in un filo sottile ma tenace, a sinistra, il segno vorticoso di Fato preannuncia l’esplosione di colore che attende il visitatore nella seconda parte della casa.
PH MICHELE ALBERTO SERENI
LE OPERE
Nicola Samorì, Senza titolo, 2017, olio su rame, AmC Collezione Coppola, Vicenza, Courtesy EIGEN+ART, Berlino/Leipzig
Matteo Fato, Florilegio (6), 2018 circa, olio su tela, cassa da trasporto in multistrato, Courtesy dell’Artista e Galleria Michela Rizzo, Venezia
Una grande scultura in legno di Samorì domina il centro della stanza in stretto rapporto con il giardino di Casa Testori. Si tratta di una scultura che simula le forme della natura, ricreandole in modo artificiale per comporre una figura antropomorfa, visibile ma irriconoscibile. La testa, realizzata con un legno corroso dalle onde e ritrovato sulla spiaggia, guarda il dittico di Matteo Fato dedicato a Ennio Flaiano, ritratto con i lineamenti dolci di un tessuto caro all’artista che ne ha rimodulato le forme, in un atto di dolce affinità, nata dalla lettura del suo Autobiografia del Blu di Prussia.
PH MICHELE ALBERTO SERENI
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LE OPERE
Nicola Samorì, Dell’arpia, 2017, legno di noce e pioppo
Matteo Fato, Autoritratto (del) Blu di Prussia, 2017, olio su lino, olio su tavola, cassa da tra- sporto in multistrato, AmC Collezione Coppola, Vicenza, Courtesy dell’Artista e Galleria Michela Rizzo, Venezia
Sul camino, un busto di sapore neoclassico è realizzato da Samorì in onice, scolpendo un blocco fortemente compromesso dalle impurità naturali della pietra. La scultura è costruita, così, togliendo parte della materia che cresceva intorno a un vuoto. Di fronte, con una serie di piccoli quadri, l’artista presenta alcune variazioni intorno a due volti del pittore Hans Memling, tormentati dalla punta di un bulino, dal cammino di una cimice sul colore ancora fresco o parzialmente celati dalla sottrazione della pellicola pittorica, fino a evocare la presenza di un burqa. Ma il salone è il luogo di un omaggio a Giovanni Testori e non solo grazie al dipinto su rame, tratto da uno dei due David di Tanzio da Varallo, autore riscoperto e prediletto dal padrone di casa. Entra in scena, infatti, il secondo protagonista della mostra: Matteo Fato realizza un triplo ritratto di Testori e della sua Biblioteca, costruito intorno al cavalletto appartenuto allo scrittore-pittore. Il materiale ligneo, sempre protagonista dell’opera di Fato, qui crea un blocco solo apparentemente unitario, a evocare le pile di libri che attorniavano Testori, e posto a reggerne uno, completamente trasformato in pittura. In una fusione totale tra colore e parola, un altro libro appartenuto a Testori viene così premuto sul ritratto ancora fresco, tanto da assorbirne i lineamenti del volto posto accanto, in un processo che evoca una sinopia, la Sindone o il lino della Veronica.
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LE OPERE
Nicola Samorì, Onichina (madremacchia), 2017/18, Onice messicano Nicola Samorì, Testa con lacrima, 2017, olio su tavola, AmC Collezione Coppola, Courtesy Monitor, Roma/Lisbona Nicola Samorì, Madonna dello zucchero, 2016, olio su tavola, AmC Collezione Coppola, Vicenza, Courtesy Monitor, Roma/Lisbona Nicola Samorì, Traspirazione della Vergine, 2016, olio su tavola, AmC Collezione Coppola, Vicenza, Courtesy Monitor, Roma/Lisbona Nicola Samorì, Pestante, 2018, olio su rame, Courtesy Monitor, Roma/ Lisbona
Matteo Fato, Il fatalista senza padrone (1923 – 1993), 2018, olio su lino, olio su libro incollato con preparazione a pigmento, cassa da trasporto in multistrato, olio su libro incollato con preparazione a pigmento, piedistallo in multistrato, Courtesy dell’Artista e Galleria Michela Rizzo, Venezia
Sono tre lavori di Nicola Samorì ad accoglierci in mostra. La grande opera posta sulla parete di fronte a noi è realizzata dipingendo una precisa copia di una Maddalena di Luca Giordano, a colore ancora fresco, spingendo la pellicola pittorica verso il basso, tanto da farla arricciare su se stessa, pregiudicandone quasi totalmente la leggibilità. Non si tratta però di una semplice deturpazione, ma di un modo con cui l’artista accentua la drammaticità esistenziale vissuta dalla santa, che riemerge dal vuoto con ancor più forza. Di fronte, due affreschi strappati e incisi, ad accentuarne la potenza visiva, hanno come punto di partenza altrettante piccole sculture: a destra, un Cristo risorto di area tedesca, a sinistra, una statua antropomorfa, eseguita con materiali diversi dall’artista stesso.
PH MICHELE ALBERTO SERENI
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LE OPERE
Nicola Samorì, Il cavacarne, 2014/15 olio su rame, AmC Collezione Coppola, Vicenza Nicola Samorì, Firmamento, 2017 Affresco su alveolam, Courtesy Monitor, Roma/Lisbona Nicola Samorì, Pentesilea, 2017/18, Affresco strappato
La scelta di realizzare l’anteprima del secondo capitolo del lavoro A nostra immagine e somiglianza (2018) di Filippo Berta a Casa Testori è conseguente alle suggestioni che l’autore ha ricevuto visitando il luogo e studiando il pensiero dello scrittore, tanto che l’opera vuole essere un omaggio testoriano, una sorta di “ritratto” ideale. L’azione — in corso durante il vernissage della mostra e poi esposta in forma di documentazione video — vede come protagonista un uomo di età avanzata, a simboleggiare una persona che si pone in modo consapevole nei confronti dei sistemi normativi e di potere — secolari o morali che siano — che ne regolano la vita; a differenza del precedente capitolo, dove il feticcio sovrastava le persone, in questo caso si instaura un rapporto paritario con il performer che inizia a giocare con un rosario, facendolo girare nell’indice della mano fino a farlo volare via. L’oggetto viene così privato della sua aura e trattato come un manufatto qualsiasi: questo non vuole però essere un gesto dissacratorio, ma quello di un individuo che intende rivendicare il proprio libero arbitrio. La scelta di collocare l’azione nel piano sotterraneo, nella cantina (e non al pianterreno, dunque in continuità con il resto della mostra) discende dal voler porre in rilievo la natura privata di questo micro-gesto, che avviene così in una atmosfera rarefatta dove, tra il performer e i pochi spettatori ammessi a ogni sessione, si instaura una relazione carica di pathos.
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Filippo Berta, A nostra immagine e somiglianza 2, 2018 – in corso , performance, HD Video 2’ 00″
Davanti allo scalone è presentato il video di Filippo Berta, primo capitolo del trittico A nostra immagine e somiglianza, (2017 — in corso), che indaga la relazione tra l’individuo e le norme imposte dalle convenzioni sociali o dai dogmi religiosi. Nel primo — esposto in forma di video che documenta la performance realizzata alla Galleria Massimodeluca di Mestre nel gennaio 2018 — alcune persone piantano simultaneamente un chiodo sulla parete per appendere un crocifisso: ognuno dei partecipanti compie l’azione in punta di piedi per collocarlo ad un’altezza superiore alla propria figura, inscenando così l’esigenza connaturata all’uomo di porsi in una condizione subalterna rispetto all’entità incarnata dall’idolo.
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Filippo Berta, A nostra immagine e somiglianza 1, 2017, performance, HD Video 2’ 00’, Courtesy Massimodeluca, Mestre
Nella sala è proiettato il video della performance di Filippo Berta, Forma perfetta del 2017. Un gruppo di persone sta cercando di mantenere visibile un cerchio nel mezzo di un quadrato nero. Questa forma perfetta può essere visibile solo attraverso un costante tentativo collettivo in cui il fallimento è un potenziale sempre presente.
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Filippo Berta, Forma perfetta, 2018, performance realizzata presso Tenuta dello Scompiglio, HD Video 1’ 17’’
La sala si apre con l’immagine che documenta la performance Allumettes 2 (2013) di Berta, realizzata nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Si vedono delle persone che accendono uno dopo l’altro dei fiammiferi, rendendo visibile il quadrato creato dall’unione dei loro corpi. Questo gesto ostinato si dimostra fallimentare quando le prime persone, una volta terminati i fiammiferi, abbandonano il gruppo, decretando un lento processo di dissolvimento del quadrato perfetto. Il fievole bagliore prodotto dai fiammiferi cela in sé tutta la fragilità di una perfezione che è solo momentanea e trova il suo culmine quando l’ultimo fiammifero si spegne. Sopra il caminetto è collocato invece il secondo dittico di Fogarolli, della serie Remember, Repeat, Rework, anch’esso incentrato sulle analogie visive tra fotografie di cui l’artista si è appropriato. La sala si chiude con la nuova opera del progetto Stone of madness, intitolata Locura (2018), dove Fogarolli si rifà alle credenze di area nordeuropea del tardo Medioevo e Rinascimento (ma presenti anche nelle civiltà preistoriche) che imputavano le devianze comportamentali, come follia o stranezza, alla presenza di una pietra nel cranio umano. Il lavoro è composto dalla fotografia analogica di un encefalo con una pietra incastonata al suo interno, una fluorite, che modifica il proprio tono cromatico grazie all’intervento dello spettatore invitato a interagire con uno strumento a luce ultravioletta. In tal modo, l’artista novella un tema iconografico che nel dipinto L’estrazione della pietra della follia (1494) di Hieronymus Bosch ha il suo precedente più illustre. In quest’opera il maestro olandese realizza infatti una scena di genere, descrivendo il raggiro compiuto da un ciarlatano ai danni di una persona ingenua sino a estrarre dalla testa di quest’ultima un fiore; il pittore, però, calca la mano sulla superbia dell’ingannatore che è raffigurato con in testa un cappello a imbuto, simbolo dell’idiozia del suo presunto sapere.