Author: Alessandro Frangi

Marzo 1993. Per Bacon l’ultimo articolo di Testori

Sono numerose le sorprese che riserva l’inventariazione dell’archivio depositato presso Casa Testori. Decine di inediti, centinaia di elaborazioni finora sconosciute di testi celebri, carte capitali per comprendere l’esperienza artistica e umana di Giovanni Testori…
Tra i documenti che davvero danno il «magone», sono comparsi tre fogli manoscritti. Redatti in stilografica blu, solcati da tante frecce che innestano al testo le aggiunte dislocate tra i fogli, vergati nella tipica, orrenda grafia testoriana. Sono le ultime pagine scritte e pubblicate da Giovanni Testori: il destino volle che, nove giorni dopo, la mattina di un 16 marzo come oggi, chiudesse gli occhi per sempre…
È un articolo. Uscì sul «Corriere della Sera» del 7 marzo 1993: 
Gli assalti del destino, la recensione alla mostra di Francis Bacon a Lugano, che riproponiamo qui di seguito. Sono pensieri dominati da un sentimento di serenità, quasi composto. Al tratto, l’attacco tradisce un brivido, per ricomporsi nel volgere della riga: «La grande novità di questa bellissima rassegna, la prima realizzata dopo la morte dell’artista»… Al fondo del testo c’è solo la sigla, GT. Il consueto sigillo al testo finito qui si disarticola e scioglie, si fa simile a una stella, come potrebbe disegnarla un bambino. Quella stella sfilacciata sembra un sigillo sulla sua vita. 
Della vita e dell’arte di Testori rimane tanto, nell’archivio di Casa Testori. Un garbuglio che, dagli anni della giovinezza, conduce a questi fogli estremi. Dove finalmente regna, «quietata», la pace. A tanti percorsi, a tante scoperte apre (e aprirà) lo studio di queste carte.

Gli assalti del destino
Corriere della Sera, 7 marzo 1993

La grande novità di questa bellissima rassegna, la prima realizzata dopo la morte dell’artista, ci coglie proprio lì, ad apertura. Contrariamente a come ci si era abituati, non è con un povero lacerto umano, né con una bocca ferita o spalancata in un urlo o in un vomito di sangue, e neppure con uno dei celeberrimi intrichi di siringhe, che essa si apre; bensì con un gruppo di 4 dipinti duramente decorativi e decoranti; uno dei quali si presenta addirittura con la forma e la pratica utilità di un paravento da salotto (1929-1930). La situazione figurativa di queste opere non risulta in nulla amabile, giocata com’è su un anonimo internazionalismo cubista che rivolga sguardi molto prodighi a figure come Ozanfant. 
Così, sostiamo davanti a queste opere per cercare di comprendere la ragione critica della loro presenza; quando, di colpo, nel dipinto successivo (1933), l’estraneità decorante viene spezzata appunto perché vengono spezzati gli elementi stessi che la sostenevano; infatti dalle strutture di quest’opera, prende a uscire una forma verdastra, metà vegetale e metà animale. Ed ecco, ogni quiete della bella villa lacustre si rompe. 
Il pittore, insomma, ha finalmente schiacciato il gran pedale della propria poesia di disperazione, di gloria e di morte. Tuttavia proprio così facendo la fredda e fin ostile struttura delle opere precedenti rimane come un punto che pare destinato a farsi insieme elemento di struttura portante e nello stesso momento elemento e luogo d’orgasmo, di sadismo e di tortura; quasi fosse il pilastro, o i pilastri, cui legare e slegare di continuo le povere figure umane, gettandole l’una contro l’altra, ora facendole rimbalzare come in un abbruttito gioco erotico, ora in uno sconcio gioco di rimbalzi. 
In tal modo, pian piano, noi vedremo quegli elementi astratti delle opere iniziali diventare sedie, lettini ospedalieri, divani, porte, water, bidè, lavabi, frammenti di scale; diventare l’armamentario sacro e dissacranti di quell’immane operazione sulla vita e sulla chirurgia esistenziale in cui andrà via via crescendo, come in un inno lamentoso, la poesia ottenebrata e, insieme, lucidissima di Bacon. 
Tutto sembra chiarirsi, a furia di assalti senza pace e, lì per lì, senza destino; ma noi non riusciremo mai a comprendere come lui, il grande Bacon, riesca a mescolare, attivamente, l’inferno a una sorta di regno di antichi imperi, di antiche porpore e di antiche glorie. 
M’è già accaduto di scrivere più volte, ma pochi anni e, ora, quell’immane atto di distacco e di allontanamento che è la morte, sono stati sufficienti per trasformare “il genio che non sapeva dipingere” (distinzione, questa, cui Bacon stesso per non poco tempo ebbe a soggiacere) in uno dei più prestigiosi maestri della bellezza planante del secolo; e sia pur d’una bellezza tesa sempre sui limiti della febbre e della perdizione. 
L’arruffato e raggomitolato copista dei Papi, che amava mostrarsi incerto e quasi umiliato nel realizzare dentro i suoi spazi subito memorabili la figura umana, mentiva? Certo giocava la carta non di chi non sapesse come la sua luce e il suo inferno battessero più dalla parte delle glorie enfatizzate della Sistina o dei fiori, delle rose e dei glicini di Monet, di quanto non fossero in qualunque modo legati all’iconografia dell’Espressionismo. 
La seconda sorpresa dunque di questa mostra o, meglio, la totale riconferma ci è data dalla serenità, quasi dalla suprema atarassia cui, rivedendo il percorso del maestro, rivedendolo crescere su di sé, non più come un luogo di follia, bensì come un luogo di meditazione, ancorché terribile e rabbrividente, la grandezza del pittore inglese sembra destinarsi a farsi vieppiù esclamativa e solenne. 
Qua e là, anzi, essa arriva a una sorta di ultimativa tenerezza; di rapina umana che non ci saremmo mai attesi. Quanti dipinti del nostro secolo possono ambire a dare un’immagine così fatale e totale della giovinezza come quelli che compongono il trittico dedicato a John Edwards? 
Ricordo come se fosse accaduto ieri; nelle sale vuote del Tate di Londra dove di lì a poco si sarebbe aperta l’esposizione del 1985, il bellissimo giovane ritrattato, che tra l’altro fu l’ultimo amico del maestro, se ne stava lì di lato alle opere, con quel leggero impaccio che deve provare chi sente d’essere catturato dalle voci dell’eterno. Bacon lo guardava e sembrava, più che felice, quietato; una sorta di cosciente sorriso che aveva finalmente fatto cadere a pezzi il grifagno becco da corvo disperato di sempre. Fu l’ultima volta che lo vidi e gli parlai. 
Oggi, riguardando, a Lugano, quell’opera risento lo stesso struggimento d’una freddezza primaria che volle sembrare di morte, di strage e di tortura ed era, forse, fin dall’inizio un modo per perdersi nella salvezza e per salvarsi dalla perdizione. Un genio, solo un genio può portarci a queste soglie per mostrarci che, pur nell’immensità delle domande tragiche, si vuole estrema la leggerezza di lui, l’amore. Che sull’urlo o dall’urlo di Oreste può discendere anche la dolcezza, che so, d’un Lucien Létinois: “Il patinait merveilleusement”. 

I Lunedì di Casa Testori. Ep.16



Puntata 16, lunedì 8 marzo ore 21.15

– ore 21.15 – La puntata si apre con la lettura di una pagina tratta dagli articoli d’arte di Giovanni Testori. Questa volta protagonista Tiziano, per la grande mostra londinese del 1983. La voce come sempre è quella di Federica Fracassi

– ore 21.25 – «Savinio. Incanto e mito» è il titolo della grande mostra che Roma dedica al fratello di Giorgio De Chirico, nel contesto di Palazzo Altemps, con le sue raccolte di sculture romane: un contesto perfetto per un artista che ha sempre dialogato con l’antico. Ne parleremo con la curatrice Ester Coen e con Massimo Di Carlo, gallerista e grande conoscitore di Savinio.

 – ore 21.45 – A seguire avremo con noi Massimo Kaufmann e il curatore Giorgio Verzotti per raccontare la mostra appena inaugurata a Milano, alla Galleria Giovanni Bonelli. La mostra propone un’accoppiata sorprendente: Kaufmann infatti espone gli ultimi lavori insieme alle opere di Gonçalo Mabunda, scultore mozambicano, che costruisce le sue opere con i resti dei proiettili disseminati in un paese che ha vissuto una lunghissima guerra civile. 

Casa Testori online. Un ciclo su Edward Hopper

Hopper, un artista per questo nostro tempo

Da sabato 3 aprile tutti gli incontri saranno visibili sulla pagina YouTube di Casa Testori

Edward Hopper è uno degli artisti più amati e popolari del 900. Non solo, è l’artista in cui tutti ci siamo riconosciuti in questo lungo anno di pandemia: «Siamo tutti dentro un quadro di Hopper», aveva titolato un grande giornale americano. Le immagini di Hopper parlano a tutti senza bisogno di intermediazioni. Le sue sono opere cariche di infinite suggestioni, che stimolano chiunque le osservi a riflettere e a cercare chiavi di lettura a volte anche molto personali. Ma Hopper non è affatto un pittore “rifugio”, con il quale consolarsi. Hopper è un artista che accende moltissimi stimoli e che “mette al lavoro” chi lo guarda in profondità. È proprio questo l’obiettivo del percorso che Museo Diocesano e Casa Testori intraprendono a partire da martedì 9 marzo, con il sostegno di GiGroup invitando interlocutori non specialisti ad approfondire lo sguardo su alcuni capolavori dell’artista americano.

Questi gli appuntamenti
9 marzo, Luigino Bruni (economista, docente di Etica e cultura d’impresa alla Lumsa)
“Summertime” (1943): La donna sulla soglia, come una nuova Sarah

16 marzo, Andrea Dall’Asta (direttore del Centro San Fedele di Milano
“Camera sul mare” (1951): L’attimo che precede la rivelazione

23 marzo, Silvano Petrosino (filosofo, docente di Teoria delle comunicazioni in Univesrità Cattolica)
“Western Motel” (1957): Silenziosi, ma non affatto muti

30 marzo, Alessandro Zaccuri (scrittore, giornalista, inviato per le pagine cultura di Avvenire)
“Mattino a Cape Cod” (1950): Uno sguardo a ponte tra due mondi

Entra nella riunione in Zoom: ID riunione: 830 6149 9764 / Passcode: 126441
https://us02web.zoom.us/j/83061499764?pwd=aGJHNXhCQTR4WlZaK1V3RWk2b2kwZz09

Tutti gli incontri sono GRATUITI / Non è necessaria prenotazione Gli incontri si svolgono il martedì / Orario: ore 18.30 / Durata: 60 min. E’ previsto l’utilizzo della piattaforma ZOOM. Verrà pubblicato il link di accesso all’incontro sul sito www.chiostrisanteustorgio.it e inviato tramite la newsletter del Museo Diocesano. 

I lunedì di Casa Testori. Ep.15

– ore 21.05 – Federica Fracassi da questa settimana aprirà la puntata, proponendo ogni volta una pagina tratta dagli articoli d’arte di Giovanni Testori: si inizia con “Giacometti, il genio e la solitudine” (1991).

– ore 21.25 – Controcorrente: è il titolo del libro che Laura Cherubini, curatrice e docente a Brera, ha appena pubblicato. Al centro del libro “i grandi solitari dell’arte italiana”, da Boetti a Fabio Mauri. Sono tutti artisti che Cherubini ha conosciuto e frequentato di persona, per cui il libro è anche una storia di incontri che hanno segnato la sua traiettoria non solo critica ma anche umana. Ne parleremo con lei e con Marco Cingolani, artista, docente anche lui a Brera e promotore di una delle più interessanti iniziative didattiche ad Accademia chiusa, Aula 49.

 – ore 21.45 – A seguire la diretta dà spazio ai protagonisti di due eventi che Casa Testori ospita il 5 marzo: la performance di Daniele Gaggianesi “Interni Vicini”, un progetto poetico realizzato con un gruppo di over 60 di Novate Milanese e la personale di Francesco Tola, “Ma allora, perché mi ha fatto venire fin qui?”, curata da una delle realtà più interessanti del panorama milanese, Il Colorificio

INTERNI VICINI

Daniele Gaggianesi
Casa Testori
24 Maggio – 18 Giugno 2021

Interni Vicini è un progetto poetico partecipativo di Daniele Gaggianesi, realizzato in collaborazione con Associazione Giovanni Testori nell’ambito di NovateCULT – la cultura è per tutti e promosso dalla Cooperativa Koinè grazie al contributo di Fondazione Cariplo.

L’idea di Interni Vicini è nata dal desiderio di raccontare momenti di vita che hanno caratterizzato la pandemia. Il virus ha tentato di spazzare via un paio di generazioni, quelle dei nostri anziani, custodi della memoria del nostro passato recente. E non solo il virus, ma con il lockdown l’anonimato stesso è diventato contagioso e capillare, al punto che tutti noi, contagiati e non, reclusi nei nostri appartamenti, ne abbiamo fatto esperienza: siamo stati uno dei tanti volti affacciati a una delle tante finestre, a guardare la solita strada deserta, occhi che sbirciano dietro una mascherina, senza più una storia, un mestiere, una vita che ci ha segnato il viso. Occhi sbarrati dietro il bianco. Eppure, la vita, la memoria di noi, si annida da qualche parte, probabilmente dietro e dentro i nostri oggetti, quelle solite cose che restano poggiate sulle nostre mensole, sui nostri comodini, lavandini.

Da qui l’idea di affidare a Daniele Gaggianesi, poeta e attore, il compito di scrivere una grande poesia di cose piccole piene di vita, prendendo spunto da alcune fotografie inviategli da dieci novatesi over 60. Ognuna di queste persone è stata intervistata a lungo dall’artista, occasione per poter parlare di sé mantenendo comunque il più totale anonimato.
Il risultato dell’azione di Gaggianesi è stata una mostra, al primo piano della Casa, dove le fotografie scattate dagli anziani erano esposte insieme alle poesie scritte dall’artista e al sottofondo musicale realizzato da Chiara Ryan Izzo.

Il 28 maggio Gaggianesi ha arricchito il proprio progetto con la realizzazione di una performance a Casa Testori. Il poeta, accompagnato dalla proiezione delle fotografie sulla facciata della Casa e dal paesaggio sonoro di Chiara Ryan Izzo, ha letto al pubblico dal vivo i propri testi.

Il progetto ha previsto anche una campagna Instagram e Facebook sulla pagina dedicata @internivicini.

MA ALLORA, PERCHÈ M’HA FATTO VENIRE QUI?

Francesco Tola
A cura de Il Colorificio
Casa Testori
5 Marzo – 19 Giugno 2021

PROLOGO
Il Colorificio

Il 5 marzo 2021 Il Colorificio, collettivo curatoriale e spazio progetto, inaugura la collaborazione con Casa Testori, associazione culturale con sede nella dimora di Giovanni Testori a Novate Milanese volta alla promozione dell’eredità artistica dello scrittore, drammaturgo, storico dell’arte e artista milanese, come della ricerca contemporanea, talvolta messa direttamente in dialogo con la sua figura. 
In questa cornice Il Colorificio presenta Ma allora, perché m’ha fatto venir qui?, quinto capitolo de L’Ano Solare. A year-long programme on sex and self-display, programma espositivo, performativo e di ricerca su sessualità e pratiche collettive di autorappresentazione. Il progetto
si concentra sulla figura poliedrica di Giovanni Testori (1923, Novate Milanese – 1993, Milano), in quanto riferimento rilevante nelle ricerche de L’Ano Solare per la sua attenzione a un teatro degli oppressi, per il suo studio incessante della regia dei corpi e del corpo collettivo, per il suo immaginario legato alla sessualità contraddittorio e ancora da esplorare. Ma allora, perché m’ha fatto venir qui? si articola attraverso due mostre personali, una di Francesco Tola (1992, Ozieri; vive a Milano) negli spazi di Casa Testori, l’altra di Giovanni Testori a Il Colorificio. 
Testori è stato il narratore degli abitanti delle periferie milanesi, nel ciclo I segreti di Milano (avviato con il postumo Nebbia sul Giambellino); il critico che ha sottratto i Sacri Monti – particolarmente quello di Varallo descritto ne Il gran teatro montano – all’oblio dovuto all’etichetta di folklore a loro attribuita, per restituirli agli studi storico artistici; il drammaturgo che ha per la prima volta dato spazio all’amore omosessuale sulla scena teatrale, senza stereotipare e relegare i soggetti a figure macchiettistiche, ne L’Arialda del 1960. La sua omosessualità, che ha per tutta la vita negoziato a causa del proprio rapporto con una fede cattolica radicata, è un aspetto di rilievo, che può essere interrogato e confrontato con altre figure storiche che hanno condotto battaglie nel dibattito pubblico italiano. Testori è infatti per L’Ano Solare una voce fuori dal coro rispetto ad altre interlocutrici ed interlocutori teorici emersi negli anni sessanta e settanta come Carla Lonzi, Guy Hocquenghem, Monique Wittig, Mario Mieli, Mariasilva Spolato, ma è per questo che offre spunti laterali e conflittuali, spesso politicamente contraddittori con la direzione de L’Ano Solare, ma fondamentali per comprendere una vicenda umana e un humus culturale che ha accompagnato Milano attraverso quattro decadi del XX secolo, fino al 1993. 
Il metodo adottato nello sviluppo del progetto è stato diretto da un’approfondita ricerca su Testori, la sua vita e i suoi lavori, costituito di incontri nell’archivio di Casa Testori e di viaggi ai Sacri Monti, grazie a un gruppo composto da Il Colorificio, dall’artista Francesco Tola e dalla ricercatrice Mariacarla Molè (1991, Ragusa; vive a Torino) […]. L’intenzione dell’operazione risiede nel tentativo di ricontestualizzare la materia “calda” della sessualità in Testori, “calda” in quanto storicamente poco approfondita, anche per ragioni politiche, sia per il favore della sua figura nell’ambito della cultura cattolica, sia per le sue posizioni percepite come conservatrici dall’orizzonte omosessuale italiano. Ristudiare in Testori sesso e analità, quel dispositivo fisico e concettuale di disidentificazione e di superamento del genere e dell’orientamento sessuale, riteniamo possa oggi essere rilevante per poter rileggere l’autore aggiornandone le grammatiche e immaginando pratiche celate come quella del cruising – che sembra emergere in alcuni suoi lavori – per tracciare quindi uno spazio di possibilità queer
Ma allora, perché m’ha fatto venir fin qui? è la domanda che il Lino rivolge all’Eros chiedendo spiegazioni sul motivo dell’incontro al buio nei prati intorno alla cava, ne L’Arialda, la già citata opera teatrale testoriana, per la regia di Luchino Visconti, censurata nel 1960 e ritirata dopo lo spettacolo a Milano nel 1961 «per turpitudine e trivialità» e per il racconto di una coppia gay. La frase sottende un non detto o non compreso, una dimensione di illecito e una paura di stigma. Il campo del sessuale si presenta sulla scena come qualcosa di imprevisto che lascia interdetti e che prelude a uno scenario fatto di possibilità che richiedono scelte e, ancora oggi, responsabilità da spartire con la società. 
Ma allora, perché m’ha fatto venir qui? indaga il tema della sessualità partendo dall’opera testoriana e discostandosene, attraverso materiali d’archivio, testi e disegni, individua conflitti e discontinuità della sua riflessione in un contesto storico e religioso fortemente normativo, confrontandosi con orizzonti contemporanei. Interroga identità e rappresentazioni sessuali connesse o ispirate da Testori, costruendo un processo di archeologia degli immaginari e rinegoziazione degli stessi alla luce di emancipazioni ed esperienze situate nell’oggi. 
In relazione a questo rapporto di interrogazione e interpellazione trans-temporale, entrambe le mostre riportano lo stesso titolo, perché in entrambi i casi ci immaginiamo che gli artisti abbiano provato a rispondere alla medesima domanda, inaugurando tracciati divergenti, ma al tempo stesso consonanti. 
[…]

LA MOSTRA

Casa Testori la mostra di Francesco Tola è costituita da nuove produzioni, concepite appositamente in relazione all’architettura dello spazio, mentre presso la sede de Il Colorificio (collettivo curatoriale e spazio progetto composto da Michele Bertolino, Bernardo Follini, Giulia Gregnanin e Sebastiano Pala) è presentata una selezione di disegni erotici di Giovanni Testori prodotti tra il 1973 e il 1974, all’interno di un allestimento immersivo. 
Nella piccola pubblicazione sviluppata per l’occasione, oltre al testo di Il Colorificio, sarà presentato un contributo della ricercatrice Mariacarla Molè che, parallelamente a Francesco Tola, ha condotto un percorso di ricerca nell’archivio di Casa Testori.

I lunedì di Casa Testori. Ep.14

Si apre eccezionalmente con la lettura di Federica Fracassi di alcune poesie di Testori tratte dal libro “Alain”. In ricordo di Alain Toubas recentemente scomparso. 

Dialogo con il Direttore Generale Creatività Contemporanea del MiBACT Dott. Onofrio Cutaia, che interverrà insieme al Dott. Matteo Piccioni e all’Arch. Eliana Garofalo, responsabili rispettivamente dei progetti “Italian Council” e “Creative Living Lab”.

A seguire parleremo del Manuale per giovani artisti di Giulio Alvigini, uscito nel 2020 da Postmedia Books, un sorprendente best seller dell’editoria d’arte. In realtà è un anti-manuale, ironico e canzonatorio, scritto da uno che potrebbe esserne il destinatario (Alvigini è generazione 1995). L’autore per i “Lunedì di Casa Testori” si confronterà con Davide Gavioli, Social Media Manager di Arte Fiera. Con loro ci sarà anche Gianni Romano, fondatore di Postmedia Books, una casa editrice che ha portato in Italia tanti importanti testi teorici di scrittori e artisti contemporanei, nutrendo una generazione che si definisce cresciuta a “pane e Postmedia”.

L’arte che guarda al domani – Connessioni Digital Edition

Milano, 16 febbraio 2021. Da Banksy a Maurizio Cattelan, Da Marina Abramovic a Billa Viola a Olafun Eliasson. Si intitola L’arte che guarda al domani ed è la miniserie in cinque puntate prodotta da Fastweb e realizzata da Casa Testori associazione culturale, in collaborazione con l’agenzia di comunicazione K words e che è adesso disponibile gratuitamente per il pubblico sul canale Youtube dell’azienda e sul nostro canale.

L’iniziativa, inserita all’interno del progetto Connessioni Digital Edition, ha voluto raccontare l’esperienza di alcuni tra i più celebri e celebrati artisti contemporanei che attraverso le loro opere hanno saputo provocare, innovare, ma anche la realtà. Ciascun video, grazie alla guida di un esperto, è stato pensato come un vero e proprio viaggio dentro l’opera e la visione di ciascun artista per coglierne la poetica e raccontarne quelle opere che hanno saputo relazionarsi al presente e, talvolta, anticipare il futuro.

Il format Connessioni Digital Edition è nato con l’intento di diffondere tra i dipendenti Fastweb stimoli culturali e chiavi di lettura originali, in particolare in questo periodo eccezionale durante il quale l’accesso in presenza a eventi culturali è stato, ed è tuttora, in gran parte precluso.

Il filone dell’arte, all’interno del progetto Connessioni, è stato inaugurato già nell’aprile dello scorso anno, il periodo più duro del lockdown, attraverso la serie Finestre sulla primavera, dieci appuntamenti, sempre realizzati da Casa Testori e K words, dedicati ad altrettante grandi opere d’arte, da Botticelli a Monet, da Hopper a Warhol, che hanno saputo raccontare, appunto, la primavera. Un modo originale per far vivere a stagione più bella dell’anno anche nelle settimane in cui eravamo costretti a guardarla, appunto, solo dalla finestra di casa.

I video realizzati all’interno del format Connessioni Digital Edition, nati con la volontà di creare legami e confronti anche all’esterno dell’azienda, sono ora disponibili anche online, gratuitamente, a disposizione del pubblico sul canale youtube di Fastweb e di Casa Testori.

Lunedì di Casa Testori. ep.13

Puntata 13, lunedì 15 febbraio ore 21.15

ore 21.15 – Si inizia con la mostra di Titina Maselli a Brescia raccontata da Massimo Minini: un’antologica che si apre con un grande ritratto dell’artista romana di Renzo Vespignani che Testori aveva esposto nel 1969. Titina Maselli è stata una delle protagoniste della nuova figurazione romana, con grandi visioni che negli ultimi anni sconfinano anche nell’astrazione. Al centro della mostra della Galleria Minini, l’immenso quadro-installazione del 1975, “Metro”. 

– ore 21.35 – Da Brescia i Lunedì di Casa Testori si spostano poi a Napoli per la mostra di Alessandro Mendini organizzata dal Madre – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina. Ne parleranno i due curatori Arianna Rosica e Gianluca Riccio. Il legame tra Mendini e Napoli è un legame significativo e profondo: a lui si devono gli stupendi allestimenti di due delle stazioni della metropolitana partenopea: le stazioni Salvator Rosa e Mater Dei.

 – ore 22.05 – In chiusura l’appuntamento con Federica Fracassi che leggerà le prime pagine di “Nebbia al Giambellino” di Giovanni Testori.

Testori e Paolo Isotta: una grande amicizia

È stata una grande amicizia quella tra Giovanni Testori e Paolo Isotta, il grande musicologo napoletano, morto ieri a 70 anni. Era stato Testori a favorire il suo arrivo al “Corriere della Sera” nel 1980, perché diventasse titolare della critica musicale sul quotidiano, dove Testori era responsabile della pagina d’arte. Isotta si era messo in luce per la qualità dei suoi interventi su “Il Giornale” di Indro Montanelli. Il suo arrivo al “Corriere” aveva causato numerosi ostracismi da parte delle istituzioni musicali, intimorite dalla libertà e anche dalla estrema competenza delle sue critiche. Il titolare della critica rimase Duilio Courir (fino al 2010) e nel 2013 Isotta interruppe definitivamente la sua collaborazione con il “Corriere”, dopo che il soprintendente della Scala, Stéphane Lissner, lo aveva dichiarato “persona non gradita” a causa di una sua stroncatura ad un concerto della Filarmonica scaligera diretta da Daniel Harding. Il direttore Ferruccio De Bortoli aveva difeso la libertà di critica, ma l’ostracismo restò nei confronti di Isotta. A testimonianza del rapporto e dell’intesa che si era stabilita con Testori c’è questa recensione di Testori stesso, pubblicata il 30 luglio 1980 sul “Corriere”, a “I sentieri della musica”, libro che raccoglieva interventi critici di Isotta: «libro bellissimo, denso come un’antica enciclopedia, appassionato, intrigante e avventuroso come un grande romanzo».

Voi sapete ch’io v’amo
Giovanni Testori
Corriere della Sera, 30 luglio 1980

«Se la musica è il nutrimento dell’amore, continuate a suonare…»: principia così la più dolce e stregata “commedia d’amore” che si conosca, cioè a dire la Dodicesima notte di Shakespeare. Quando Orsino rivolge queste parole ai musici di corte, ai confortatori della sua malinconia e, insieme, della malinconia che si stende, come un manto di porpora vespertina o di velluto notturno sopra tutta la terra, la tempesta sta facendo approdare sull’isola di cui egli è duca e signore la protagonista dal nome bellissimo e sacrificalmente significativo di Viola. Viola, appunto, d’amore. Il bisticcio m’è venuto da sé; ma riferito a uno degli strumenti, appunto, della musica sembra quasi dalla medesima musica determinato; o evocato. Poiché nell’amore, partitamente e universalmente, risiede il senso della vita, la musica viene qui invocata come nutrimento di lei, la vita.

Ora, che risponde dai suoi nidi nascosti e dai suoi nascosti grembi, la musica all’uomo e alla vita? Forse anche questo potrà parer casuale. Ma letto il corpus degli scritti, casuale non risulta assolutamente più il titolo che Paolo Isotta ha voluto dare al frammento del Suonatore di liuto di Caravaggio scelto per la copertina del suo bellissimo libro; bellissimo, denso come un’antica enciclopedia, appassionato, intrigante e avventuroso come un grande romanzo (I sentieri della musica, Mondadori, L.8.000). Quel titolo riprende le parole del madrigale di Jacques Arcadelt, la cui musica gli specialisti han potuto riconoscere nello spartito che il giovane suonatore, straripante d’adolescente indolenza e d’ambigua, fascinosa bellezza, si tiene spalancato davanti: «voi sapete ch’io v’amo…».

Se l’uomo invoca la musica come nutrimento della propria vita e del proprio destino d’amore, la musica profferisce di risposta all’uomo, «a noi», quanto dire a noi, il suo amore: dunque, la necessità che essa avverte dell’uomo e della di lui vita. 

È probabile che in questa stretta, continua eppur liberissima, in questa vera e propria catena di domande e di risposte, di richieste e di offerte, che di per sé è già un atto liturgico, risieda non solo il senso totale che la musica assume per Isotta nella vicenda umana, ma altresì la sua essenza di metafora in ritmi e in suoni del rapporto che intercorre tra l’uomo e il suo creatore, tra l’uomo e Dio. Assieme a tale metafora, a venire enucleata e esaltata, è la natura precipuamente religiosa della musica; e il suo religioso destino. Allontanandosi dal quale e dalle connesse necessità di tempi, azioni e figure liturgiche, la musica s’allontana da sé, esce dal proprio centro, s’opacizza, si tradisce, rantola, forse urla e si suicida, certo si spegne e muore.

Pienissimo, stipato, come se tutta la storia della musica vi fosse chiusa dentro (ciò che in effetti, come vedremo, accade ad ogni pagina), lucente sempre d’una scrittura che domina la materia e le stesse, variatissime occasioni di lettura e d’interpretazione, ma capace nello stesso tempo di soffrire fino allo spasimo (e trascinando in tale spasimo il nitore stesso, il cristallo, ecco, del proprio stile); capace di soffrire, dicevo, i vagiti dell’apparire della musica e della sua fatalità dentro i primi gesti che l’uomo ha compiuto dentro le prime pietre che ha mosso e levigato per dar loro una forma (vagiti nei quali è già tutto contenuto della potenza e dell’eloquenza che quella fatalità andrà assumendo nel giro dei secoli); capace di soffrire, poi, i tempi supremi della gloria e di congioirne; e di soffrire, infine, la caduta verso l’abisso, che forse è altrettanto fatale come i vagiti del principio (atto, questo, che sta racchiuso nei capitoli ultimi del libro, che risultano i più alti, dolorosi e partecipi che sulla musica moderna siano mai stati scritti, proprio perché in essi la musica intesa come “consumazione”, come rantolo ed  agonia); pienissimo e stipato nella sua lucidità che s’indora di stupende speculazioni, s’oscura di strazi e d’inabissamenti, accetta, abbraccia, glorifica, rifiuta, sferza e s’indigna senza mai cedere d’un millimetro al suo specchiatissimo ordine (anche quando si trova impegnato in un corpo-a-corpo col disordine), il libro di Isotta diventa così la guida attraverso cui egli ci insegna che la musica è un atto precipuamente rituale e che la funzione sua sta appunto nell’enucleare ogni volta e ad ogni incontro tale verità e nel trasformarla poi in coscienza dove forma ed eticità coincidono, fanno blocco e si stabiliscono per sempre come unità.

Per questa via, anzi per questi sentieri isottiani che procombono verso le origini, quelle origini che noi avremmo pensato inattingibili (e ciò accade nel capitolo La musica delle pietre, forse il più emozionante di tutto il libro, certo quello che si spalanca all’ampiezza d’un vero, grande e misterioso racconto poematico); toccano i vertici della possibilità stessa di partecipazione e di trasposizione in parole nel grande tempio o colonnato dorico-nibelungico dedicato a Wagner; e, passo dietro passo, si preparano poi, come in una cupa eppur doverosa quaresima, a scendere nell’inferno della rottura e dello squilibrio; quindi, ancora più oltre, nell’asettico pantano delle ceneri presenti; per questa via, dicevo, gli scritti di Isotta superano e cancellano la riduzione della musica a fatto meramente storicistico o, peggio ancora, a fatto meramente sociologico cui da anni ci avevano abituati le ideologie che gli ingranaggi critici e burocratici della musica dispongono e governano, finendo, come sono finiti, nell’incapacità medesima ad ascoltare prima e a riferire e scrivere sull’ascolto, poi. La superano e cancellano in quanto l’indagine risulta condotta su di una conoscenza capillare del tessuto storico da cui, di volta in volta, la musica s’è alzata per celebrare le sue certezze e le sue paure, le sue feste e le sue penitenze, le sue glorie e le sue tombe.

Isotta ci ammonisce così che la musica, come tutte le espressioni dell’arte, non è serva di quel tessuto e, men che meno, come usa sostenersi e farsi oggidì, non è serva degli interessi cupamente politici delle ideologie che di quel tessuto vorrebbero impadronirsi per sempre (mentre, nel profondo della realtà, è già caduto dalle loro mani). La musica, egli dice, esprime l’uomo; e solo l’uomo ama e serve. Ma il suo amore e il suo servizio sono di natura, di qualità e di luce supremamente etiche. 

Ora è proprio questa coscienza generale del destino della musica, che diventa una cosa sola col destino religioso e, dunque totale dell’uomo, a permettere ad Isotta il miracolo critico che, a mia memoria, nella nostra cultura era stato solo di Roberto Longhi: quello di saper contenere dentro la disanima di un frammento, anche il più modesto, anche il più breve, l’intera storia di quel destino: di saper contenere nel particolare il tutto. Così dentro ogni sua pagina, anche là dove essa diventa filologica perquisizione delle zone più minute e delle più minute connessioni di significati, rapporti, influenze e confluenze, noi avvertiamo premere sempre il rombo dell’immensa arcata che la storia della musica ha costruito sulla nostra terra. L’atto critico sale così di gradi e diventa, in Isotta, atto creativo.

Se è vero che la «poesia nasce in primis sulla poesia» (com’era solito dire, appunto, Roberto Longhi), è altrettanto vero che la musica nasce in primis sulla musica; e che, senza nulla lasciare della loro condizione di partenza e persino di cronaca, gli scritti di Isotta, raccontandoci la storia della musica, compongono una loro, indimenticabile musica; quella che ne forma il fascino, l’attrazione e lo stile. Per cui ci basta un attacco o persino un titolo per avvertirci che è lui il mentore, il pastore che sta conducendoci lungo i sublimi, gloriosi, straziati “sentieri”; e per dirci altresì quale suono dal suo flauto il mentore e pastore farà giungere al nostro cuore. Insomma, per finire con un’altra citazione letteraria, cavata da quel poeta a me carissimo che fu Verlaine: de la musique avant toute chose. Anche nella musica, ecco, prima di tutto, musica. Una musica trasparente e solenne che è felicità di se stessa perché insieme e sempre è coscienza del destino degli uomini e del loro primo ed ultimo significato.

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