Month: Marzo 2020

LA CUCINA

Un autore in solitaria monopolizza questo ambiente: è Antonio Marras. Noto come stilista, ha sempre affiancato alla sua attività professionale anche una intensissima produzione artistica recentemente presentata con una grande mostra alla Triennale di Milano. L’opera di Marras è un’installazione che per il suo contenuto intreccia una relazione stringente con le altre opere presenti in questa sala. “Le malelingue” è un’installazione costituita da una cascata di lingue saettanti che sgorgano da una montagna di libri. È un’opera che si ispira ad una delle artiste più amate da Marras, Carol Rama. La reiterazione delle lingue che si prolungano nello spazio suona come deplorazione ironica “del vizio privato” del pettegolezzo che copre comportamenti pubblici tutt’altro che virtuosi. 

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LA VERANDA

Tre artisti diversi, per stile e generazioni, si confrontano in questo che è uno degli spazi più magici di Casa Testori. E qui il discorso sulla corruzione diventa interno all’arte, come un’energia che intacca il manufatto da dentro: è quanto sembrano comunicarci le due sculture di ceramica in forma di vaso di Alessandro Roma poste al centro. Uno sta perdendo la sua stessa forma regolare; l’altro accoglie fiori a cui però non riesce a dare vita. Il contrasto tra l’anelito alla bellezza costitutivo di due manufatti come questi, e una dinamica invece drasticamente avversa si propone come un trapasso liricamente emblematico. Francesco Fossati, con la sua lapide posta tra le colonne, usa un linguaggio sempre ai confini del verosimile, ponendo l’attenzione su un dato di realtà non eludibile: spesso accade agli artisti di essere loro stessi un anello nel meccanismo perverso della corruzione. La targa di Fossati non vuole raccontare una verità, ma smascherare quel rischio sempre presente di fariseismo. Si possono veicolare messaggi corretti, e intanto attivare meccanismi perversi con le proprie scelte rispetto al mercato: una bella statua può essere strumento per trafficanti di droga. Che resti comunque bella, è un problema che spiazza e fa pensare. Infine, alle pareti, Alessandro Verdi propone due lavori recentissimi, uno dei quali pensato all’interno del progetto “arte CONTRO la corruzione”. Infatti la piccola figura umana che naviga nel vuoto è il prototipo di quelle dipinte sulle colonne della Sala Testori al Teatro Franco Parenti, che aveva ospitato il primo incontro del progetto. Nella seconda carta la piccola figura si rapporta con un grande cosmo, realizzato con un intensissimo pigmento blu.  Un qualcosa di più grande di lui da reggere.

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IL SALONE

Per capire il tema di questo avvertimento basta che ci spostiamo nel salone di Casa Testori. Qui ci aspettano tre maestri dell’arte italiana di oggi: Mimmo Paladino, Emilio Isgrò e Gianni Dessì. Quella di Paladino è una scultura realizzata dal maestro di Paduli nel 2013 e mai mostrata in pubblico. Come spire di un serpente che non ha né capo né coda, un serpente da cui sembra impossibile potersi liberare, il cavo di ferro tiene prigioniera una testa lavorata in alluminio. Paladino si pensa in primo luogo come pittore, per questo dice «nella scultura io ho sempre pensato a quelli che anche nel passato avevano questa architettura grafica». Quello sul camino è un nodo inestricabile, che non solo imbriglia quell’icona umana ma la fa regredire quasi a maschera di un automa grazie all’uso di un materiale freddo come l’alluminio.

Nella parete di fronte sono esposte quattro tavole di uno dei cicli più celebri di Emilio Isgrò: “La costituzione cancellata”, del 2010. «Mi ha spinto in quest’impresa il disappunto malinconico di un italiano che vede il proprio Paese crollare», aveva detto l’artista spiegando le ragioni di questa sua impresa.  La cancellazione è un atto di profondo rispetto. «La Costituzione – ha detto Isgrò – è un’opera d’arte, al pari del “Cantico” di San Francesco e della “Commedia” di Dante. È scritta in un italiano perfetto, semplice, burocratico, non in “burocratese”. I Padri costituenti erano delle persone molto colte». Ma con la Costituzione cancellata Isgrò mette anche in risalto come in troppi si prendano gioco di quel testo costituente. Queste, infatti, sono le parole sopravvissute che danno quindi i titoli alle quattro opere in mostra: “Una indivisibile minorata”, “Non sono proibite le associazioni segrete”, “È senatore di diritto chi è nato a febbraio”, “Addì 27 dicembre 1947”. Rispetto e insieme denuncia; venerazione e insieme amarezza: questo ci comunica l’opera di Isgrò.

Il dittico di Gianni Dessì è un’opera recentissima: le tele sono dipinte a olio in una sorta di nero-nero su nero. Una delle due opere, “A&E”, richiama quello che simbolicamente rappresenta l’avvento della corruzione alle origini stesse della storia umana nella Bibbia. Il serpente come il grande corruttore. L’altra opera, “Insieme” vede ancora una figura umana: l’elemento geometrico, freddo, neutro sulla sua sinistra sembra scattare come una trappola.

Nella stanza, campeggia la sorpresa di Katja Noppes: è un’installazione semplice che mette in moto un processo da cui non ci si può sottrarre. Immagini di corruzione, di guerra e ingiustizia, raccolte a tutte le latitudini da oltre 25 anni, si riflettono nello specchio. Ne vediamo solo il riflesso, e tra loro si mescola anche la nostra immagine, come pure quella dell’ambiente incantato in cui ci troviamo. La corruzione ci riguarda. Non ci può chiamare fuori e non ci si può illudere di non c’entrare con quello che vediamo. La neutralità non ha spazio. Spazio extrapersonale, peripersonale e personale vengono a sovrapporsi.

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LA PRIMA STANZA

Il percorso della mostra prende avvio da una sala in cui al visitatore viene presentato un video con la sintesi del percorso fatto per arrivare a questa mostra: tre incontri per lanciare un dialogo tra chi è in prima linea nella sfida alla corruzione e artisti che hanno avvertito l’importanza di fare loro questa sfida. Michelangelo Pistoletto si è confrontato con Raffaele Cantone, alla testa dell’Autorità Nazionale Anticorruzione; Emilio Isgrò con Francesco Greco, procuratore capo a  Milano; infine, Stefano Arienti ha dialogato con Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia e con Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Di fronte al video è posta una coppia di opere emblematiche: è l’Italia sottosopra di Andrea Bianconi, artista vicentino che vive e lavora tra il nostro Paese e gli Stati Uniti e che con questo dittico ha voluto essere felicemente schietto: con il segno sottile ed esatto della sua penna acrilica – segno che sembra quello di un sismografo – traccia una cartina secondo la prospettiva resa celebre dall’opera di Luciano Fabro del 1968. L’Italia come Paese ribaltato e sulla soglia di implodere. Con il suo tratto delicato Bianconi lancia un morbido avvertimento. 

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FOTOGRAMMI IN DISSOLVENZA

Se la realtà non è solo un fotogramma si chiude, idealmente, con i fotogrammi in dissolvenza di due opere video: l’essay film di Alessandra Ferrini Negotiating Amnesia e la videoinstallazione Light Meter di Jacopo Rinaldi.

I due lavori, in termini molto diversi, pongono il tema della memoria, del suo oblio e della messa in discussione della storia, intesa come sensibile e potenziale strumento ideologico.

Il documentario di Ferrini affronta il problema della racconto del colonialismo italiano nel Corno d’Africa a partire dalla guerra d’Etiopia del 1935-36 e la sua ricostruzione storica dell’Italia contemporanea. L’artista si interroga sul modo in cui ideologie e manipolazioni affliggano ancora oggi l’immaginario collettivo italiano rispetto al colonialismo della prima metà del XX secolo e il modo con cui trasmettiamo e conserviamo le memorie, rivelando amnesie programmate e parziali ricostruzioni di fatti e storie.

Il lavoro di Rinaldi è invece una più ampia considerazione sulla visione, sulle immagini della nostra storia (e storia dell’arte) e sui nostri meccanismi di visione e costruzione dell’immagine. L’artista fotografa infatti, all’interno delle più celebri chiese di Roma, i sistemi tecnici attraverso cui quadri e sculture vengono illuminati a tempo, creando una costate alternanza tra luce e buio, immagine e censura. Questa stessa alternanza sembra apparire come una sorta di metafora dell’azione storica stessa: è l’azione volontaria del presente ad accendere una luce che inevitabilmente è destinata a spegnersi riportando anche i più importanti capolavori dell’arte occidentale nel buio dell’oblio.

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LightMeter_2_Estasi di santa Teresa d'Avila, Gian Lorenzo Bernini, Santa Maria della Vittoria
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LightMeter_1_Ciclo pittorico di San Matteo, Caravaggio, San Luigi dei Francesi
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HARALD SZEEMANN NEL SUO ARCHIVIO

Jacopo Rinaldi 

Uno dei lavori più complessi sviluppati da Rinaldi nel corso degli anni si è focalizzato su Harald Szeemann e il suo archivio, a partire da un documentario realizzato dall’artista nel 2014 presso l’ex Archivio di Szeemann, la Fabbrica Rosa, a Maggia, in Canton Ticino, durante il suo processo di svuotamento e spostamento negli Stati Uniti. 
Da qui l’artista ha iniziato a riflettere sulle relazioni tra spazio, ricerca curatoriale e le dinamiche di proiezione delle stesse metodologie di ricerca del più importante curatore del XX secolo, all’interno del suo ambiente di studio e lavoro. 
Da queste premesse sono nati una serie di lavori editoriali, grafici, video e fotografici di cui in mostra si presenta un allestimento site-specific, pensato appositamente per instaurare un ipotetico dialogo Testori – Szeemann. Se infatti da una parte la mostra si apre con una riflessione di Alessandra Ferrini sul metodo Morelliano e Longhiano del riconoscimento, dall’altra la stessa si chiude con un’apertura, intuitiva, verso le metodologie e i sistemi di relazione e produzione che caratterizzano l’arte contemporanea da Szeemann ad oggi. Un intreccio di sguardi e metodi che è, in fondo, un’ulteriore chiave di lettura dell’intero progetto espositivo.  

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Jacopo Rinaldi, Harald Szeemann nel suo archivio, 2017, Stampe, carta da parati

INTERVALLO

Jacopo Rinaldi 

A Casa Testori Jacopo Rinaldi ricostruisce un’installazione nata nel 2016 in Salento, pensata per la linea ferroviaria tra Lecce e Gagliano del Capo. L’artista aveva sostituito le tende di un vagone del treno con alcuni tessuti stampati con i i frame di un piccolo video girato nel 1935 da una littorina, carrozza motrice creata in epoca fascista e diventata sinonimo di “treno” nella cultura popolare italiana. Come scrive l’artista “i vagoni [della linea Lecce e Gagliano del Capo] sono molto piccoli e hanno fra i 16 e i 17 finestrini, esattamente quanti frame al secondo ha bisogno l’occhio umano per avere un’immagine fluida del movimento. Vorrei quindi stampare sui tendaggi dei finestrini 16-17 frame di un video sull’Africa preso dall’Istituto Luce. Il video, realizzato per un cinegiornale, è ripreso da dentro un treno durante l’inaugurazione della ferrovia dell’Oltremare pugliese. L’idea è quella di un’intermittenza fra un’immagine fissa di un video, che in realtà è in movimento, e un’immagine che sarebbe fissa se solo il treno non si muovesse. Viene a realizzarsi un palinsesto intermittente con diverse temporalità a confronto: tende chiuse fermo nel passato, tende aperte ti muovi nel presente”.
In questa installazione per Casa Testori, Rinaldi riallestisce le tende rimosse dal treno mettendole in dialogo con il video dell’Istituto Luce, creando un nuovo intervallo tra passato e presente, questa volta nel dialogo con gli altri ambienti domestici e la più vasta riflessione sulle relazioni tra immagine e realtà, che attraversa l’intera mostra. 

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Jacopo Rinaldi, Intervallo, 2017, Tubi in metallo, tende in cotone, HD Video 1’’, In associazione con Archivio Storico Istituto Luce, Ferrovie del Sud Est, Courtesy dell’artista e dell’associazione RAMDOM

ABRASFERA

Jacopo Rinaldi 

L’installazione ambientale di Jacopo Rinaldi sviluppa e approfondisce le riflessioni legate al colonialismo e alla storia italiana del novecento già introdotte nei capitoli precedenti.  L’elemento centrale del progetto è una lastra in metallo in cui è incisa una pattern che l’artista arriva a costruire attraverso la ripetizione di un elemento grafico. Si tratta di un disegno che Rinaldi rielabora a partire da un’immagine realizzata negli anni Venti da Luigi Daniele Crespi per la Pirelli. Le mani si tengono le une con le altre e allo stesso tempo tengono in mano una gomma per cancellare, appunto Pirelli. Rispetto al disegno originale l’artista, inoltre, fa indossare alle mani disegnate dei guanti bianchi, che ricordano quelli di Mickey Mouse (indossati dal cartone animato per la prima volta nel 1929 in un episodio in cui il personaggio doveva interpretare il ruolo di “incantatore di serpenti”, sicuramente “non occidentale”). 
Questo elemento grafico così, più che un documento storico, si rivela essere una nota visiva, il risultato di una speculazione storica e un sottile atto di accusa che mescola colonialismo, sfruttamento di risorse primarie (come la gomma in Africa) e rappresentazione dell’alterità, in un costante processo di espansione e negazione, come la pattern che si diffonde sul soffitto di Casa Testori, che cerca, attraverso le mani disegnate che impugnano gomme, di cancellare se stessa. 

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Abrasfera, 2016 – 2019, Installazione ambientale: incisione laser su ferro, fumo, disegni su carta.

A BOMB TO BE RELOADED

Alessandra Ferrini 

A partire dalla veranda di Casa Testori e proseguendo nella sala del camino è allestito in differenti nuclei il progetto di ricerca a lungo termine di Alessandra Ferrini dal titolo A Bomb to be Reloaded. L’opera, come spesso accade per lavori che si sviluppano negli anni, è suddivisa in vari capitoli che esplorano storie e vicende legate al Centro Documentazione Frantz Fanon (CDFF), fondato da Giovanni Pirelli nel 1963 e dedicato al celebre psichiatra e filosofo naturalizzato francese nato in Martinica, fondamentale per lo sviluppo dei movimenti di decolonizzazione in Asia, America Latina e Nord Africa.
Come scrive l’artista: “Il progetto è suddiviso in vari capitoli, che esplorano diversi personaggi e elementi investigati durante la ricerca sul Centro Documentazione Frantz Fanon. Il lavoro si basa sulla struttura di una costellazione di voci, di personaggi, di luoghi che sono più o meno legati dalla ricerca sul CDFF”.
Il lavoro affronta, nel suo insieme, le potenzialità di rivitalizzazione di un resistant archive cioè un archivio che, nonostante i suoi spostamenti e smembramenti, continua ad avere la possibilità di parlare ed interrogare il presente, appunto come una bomba che sta per essere innescata. La portata politica dell’intero lavoro non ha dunque solo un piano contenutistico, ma anche metodologico poiché mette in luce possibilità e strumenti per dare voce a fatti e storie che solo in apparenza sono silenti. 

Così A Bomb to be Reloaded si snoda tra le sale della mostra: 

CHAPTER 0 – Sala del camino

Questo capitolo funziona come un’introduzione al progetto e al processo di ricerca sul CDFF, in particolare, sui materiali della sua biblioteca ed emeroteca, che mettono in rilievo il network internazionale sviluppato dal Centro, specialmente con i movimenti di lotta anti-coloniale e anti-imperialista in Africa, America Centrale e Meridionale, e Sud Est Asiatico. Concentrandosi sugli spazi che ne accolgono i materiali, e la storia dietro la loro dispersione, la ricerca è stata sviluppata durante un laboratorio realizzato nel 2018 con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Include documenti che appartenevano al CDFF e materiale documentario relativo a luoghi storici dell’attivismo milanese come l’Archivio Primo Moroni o la Panetteria Occupata, così come all’Istituto Nazionale della Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

CHAPTER 1 – Sala del camino 

Il primo capitolo, in ordine di tempo, esplora l’influenza diretta di Fanon su Giovanni Pirelli e sul regista Valentino Orsini. L’installazione è realizzata attraverso documenti storici, pubblicazioni e citazioni stampate su grandi bandiere e si concentra sul film diretto da Orsini I Dannati della Terra (1969) anche attraverso un’intervista realizzata da Ferrini con Kadigia Bove, attrice che compare nello storico film, che deve il suo titolo proprio al celebre libro di Fanon. Questa presenza cerca anche di sopperire alla scarsa visibilità femminile nella narrazione del contesto storico del cosiddetto “terzomondismo”. L’installazione, in particolare, mette in luce l’importanza della scrittura e dell’esposizione di una pratica autoriflessiva e autocritica, nell’attività degli autori.

CHAPTER 2 – Veranda

Questo capitolo si focalizza sull’opera del compositore  Luigi Nono  A floresta è jovem e cheja de vida scritta tra il 1965 e il 1966  in collaborazione con Giovanni Pirelli e suonata per la prima volta nel 1966 al teatro La Fenice di Venezia in occasione della XIX Biennale di Musica Sperimentale di Venezia. L’installazione di Ferrini, attraverso documenti storici e video, ricostruisce la storica performance ma “lo fa in modo parziale: si concentra su alcuni documenti che sottolineano l’influenza del pensiero Fanoniano sulla realizzazione dell’opera e su una delle performer dell’opera, Kadigia Bove che collega anche questo capitolo con quello precedente”. I racconti di Kadigia arricchiscono questa narrazione di una serie di aneddoti e storie autobiografiche, che aprono anche una finestra sull’esperienza dell’attrice e cantante – di origini Italo-Somale – nell’Italia del dopoguerra.

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Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 0), 2018 – 2019, Installazione ambientale: stampe fotografiche e su alluminio dibond, Courtesy di INSMLI, Archivio Primo Moroni e Panetteria Occupata.
Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 1), 2018 – 2019, Installazione ambientale: video, stampa su plexiglass e su tessuto acrilico, materiali d’archivio.
Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 2), 2018 – 2019, Installazione ambientale: video, stampa su plexiglass e su carta, treppiedi in alluminio, Courtesy di Archivio Privato Giovanni Pirelli, Fondazione Archivio Luigi Nono e Kadigia Bove.

MARADAGÀL

Jacopo Rinaldi 

Il grande salone di Casa Testori viene trasformato da Jacopo Rinaldi in una serra piena di piccole piante tropicali. Questa installazione ha diverse chiavi di lettura che superano quello che a prima vista sembra un semplice interesse botanico. Il primo piano interpretativo ha a che vedere con il titolo del lavoro Maradagàl: si tratta del nome del paese immaginario in cui Carlo Emilio Gadda situa il suo romanzo La cognizione del dolore (1963). Maradagàl è un luogo inventato ma anche una ricostruzione fittizia della Brianza fascista degli anni Venti e un’aspra critica all’indolente società borghese italiana di quegli anni. In questa prospettiva le piante scelte da Rinaldi ironizzano e mostrano criticamente la dimensione borghese della cultura milanese in cui lo stesso Testori nacque. Inoltre l’inserimento della pianta tropicale all’interno del contesto domestico, come evidenzia Penny Sparke, è esso stesso un atto decorativo coloniale, nato nell’Inghilterra vittoriana, che legittima la dimensione esotica e aspirazionale della cultura borghese – modernista.

Vi è però, nella semplicità di questa azione, un livello successivo di lettura dell’opera: le piante tropicali alludono in modo molto più specifico alla storia italiana ed entrano in relazione con il racconto di Gadda, le vicende fasciste e il passato coloniale, in modo intimo poiché le piante allestite sono di Ricinus Comunis, noto anche come ricino. 

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Jacopo Rinaldi, Maradagàl, 2019
Installazione ambientale: ferro, alluminio, luci led e piante di ricino

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