Giorni Felici

Mario Schifano, IL SUO ROSARIO

Stanza 7
Invitato da Andrea Mastrovito

Quello tra Mario Schifano e il gallerista modenese Emilio Mazzoli è stato un rapporto fondamentale per entrambi dagli anni Ottanta. Le 700 foto che erano presentate sono tratte dalla collezione personale del gallerista che ne acquistò da Schifano alcune migliaia. Le celebri foto scattate alla televisione, stampate e ridipinte, esprimono a pieno la poetica e la prassi pittorica dell’artista nell’ultimo decennio della sua vita: la sua passione per i mezzi di comunicazione e la sua bulimia visiva. Come ricorda il suo storico segretario, Renzo Colombo: “Passava tantissimo tempo a lavorare sulle fotografie che scattava alla televisione e che poi ritagliava e colorava. Con le foto Mario si staccava da tutto e da tutti. Per un periodo ha consumato venti rullini al giorno, portavo al laboratorio di stampa venti rullini al giorno! Diceva: “È questo adesso il vero lavoro di qualità, non i quadri’”.
Come precisa l’amico Roberto Ortensi, storico assistente della gallerista Ileana Sonnabend: “Tutto partiva dalle immagini fotografate alla televisione, spesso sfocate o con strani bagliori azzurrini, figure che evocano un altrove, un qualcos’altro, su cui lui a volte interveniva con il colore. Quando interveniva lo faceva quasi come un omaggio alla pittura, erano come dei segni, una specie di richiamo.

Quella delle foto ritoccate era un’occupazione veloce, ma anche misteriosa. Riusciva a far saltar fuori dalle immagini un’intensità e una profondità mai viste, impercettibili. Era come il lavoro di un rabdomante. Rivisitava con la pittura le immagini della realtà che gli arrivavano in casa dal televisore. Queste foto per un po’ rimanevano sul tavolo di lavoro, impilate e divise per generi”.Conclude Mazzoli: “Come sai Mario non era interessato al sacro ma per me il suo lavoro era un po’ come una religione e mi faceva venire in mente le suore di clausura che pregano sempre per arrivare all’atarassia. Lui faceva lo stesso, lavorava di continuo, o disegnava o dipingeva, la sua era come una forma di purificazione. Certo, poi aveva questo laicismo del volere tutto e subito. Ma queste foto erano il suo rosario: ne teneva un mazzetto sempre sottomano e mentre parlava con te o al telefono ci dipingeva sopra, sgranandole una dopo l’altra”.

Mario Schifano è nato a Homs (Libia) nel 1934. Muore a Roma nel 1998.

Daniela Peracchi, MICRO-MACROCOSMO

Stanza 6
Invitata da Adrian Paci

Quando sono entrata in Casa Testori mi è sembrato di visitare tanti piccoli microcosmi intimi collegati tra loro grazie a delle porte molto strette. Nella mia stanza ho percepito questa riservatezza come se potessi proiettare la mia immagine in tutti i punti.
Cos’è la famiglia se non questo. L’insieme di tutte le proiezioni emotive dei componenti, racchiusi in intimità in un piccolo macrocosmo.
Lo stesso rapporto genitoriale crea tanti piccoli microcosmi del loro stesso essere.
Noi figli siamo genitori e individui unici allo stesso tempo; cresciamo con la convinzione che saremo diversi ed esploriamo il mondo facendo affidamento solo su noi stessi, ma cosa siamo se non un microcosmo derivato dall’unione di due macrocosmi?
Proveniamo tutti da una madre e un padre, tutti siamo il risultato di due geni diversi.
Mi sorge quindi una domanda: perché noi figli non dovremmo essere semplicemente un continuo di un fluido, il passaggio del testimone di un qualcosa di sensoriale che muta al passaggio di un corpo attraverso diversi linguaggi di espressione?
Io lavoro con la mia famiglia proprio per questo: sono un microcosmo che guarda nel loro mondo e scardino quella campana di vetro costruita per una gerarchia educativa trasformandomi in genitore e figlio allo stesso tempo. 
Agisco su mio padre e mia madre perché voglio rompere il vetro della campana in cui mi rifletto.

Daniela Peracchi è nata ad Alzano Lombardo (BG) nel 1990. Vive e studia a Milano.

Branko Jankovic, “NOTHING’S GONNA CHANGE MY WORLD”

Stanza 3
Invitato da Massimo Kaufmann

“Images of broken light,
which dance before me like a million eyes,
that call me on and on across the universe”

Il mio lavoro è istintivo, ed è emotivo. Non so mai cosa esce fuori. Io voglio essere sorpreso. Voglio che l’immagine mi superi e che io stesso mi trovi a domandarmi da dove viene e che cosa sia. Fare un quadro è come fare una lunga passeggiata, senza sapere dove arrivo e scegliendo sempre vie sconosciute, perdendomi spesso negli angoli bui della mia mente e ritrovandomi un attimo dopo illuminato dalle luci nervose delle macchine frettolose. Si procede fino ad un punto, punto in cui mi accorgo che il lavoro funziona. Quel punto è sempre misterioso e raggiungerlo è fonte di enorme soddisfazione. Un passo dopo anch’io sono spettatore (mai oggettivo), trovo spesso in un quadro le diverse emozioni vissute. La pittura è un’esperienza emotiva. Il quadro è una concentrazione di energia, spesso incontrollabile.Il titolo è preso dalla canzone Across the Universe dei Beatles, anche se l’idea mi è venuta ascoltando la bellissima cover fatta dai Laibach. La canzone viene definita “cosmic ballad”. Mi piace l’idea che un’emozione possa essere personale, universale e anche cosmica. Mi piacciono le opere d’arte che hanno questa tendenza, anche se solo nella testa dell’artista. Anche quando rappresentiamo i frammenti è importante ricordare sempre che tutte le cose nell’universo sono collegate. Nikola Tesla diceva: “Tutto ciò che vive è legato a un rapporto profondo e meraviglioso: l’uomo e le stelle, l’ameba e il sole, il nostro cuore e la circolazione di un numero infinito dei mondi”. 

Branko Jankovic è nato a Belgrado nel 1978. Vive e lavora a Milano.

Davide Rivalta, RINOCERONTE

Giardino

Afferma il critico John Berger: “Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali vengono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo. L’animale lo scruta attraverso uno stretto abisso di non-comprensione. Ecco perché l’uomo può sorprendere l’animale. Eppure anche l’animale – perfino se è domestico – può sorprendere l’uomo.”
Ma come? Provando una indeterminata nostalgia per una ferinità che c’era e non esiste più, per un richiamo alla natura che non è del tutto sopito sotto spessi strati di civilizzazione. Ecco che l’uomo si prodiga per segregare animali domestici, per costruire e visitare zoo, nell’inutile ricerca di quello sguardo, dell’occhio dell’animale che però, completamente snaturato, non si ferma se non per un istante a osservare il visitatore, per poi dirigersi ciecamente al di là , oltre, perché nulla più può occupare un luogo centrale nella sua attenzione.
Cerco di riproporre quel dualismo che è andato completamente perduto nel momento in cui l’uomo si è sentito signore e padrone della natura. Il dualismo dello sguardo tra la specie-uomo e gli occhi degli altri viventi: la mia opera vuole proporre l’incontro sorprendente, fecondo perché sottratto dall’elaborazione artistica all’anestetizzazione del presente, l’incontro tra l’uomo e l’animale.
Davide Rivalta

Lo scopo dell’artista è allora quello di fissare la possibilità di un vero e proprio incontro fra tre elementi diversi: la figura dell’animale in forma di scultura che pur se fatta ad arte mantiene la propria caratteristica innocente sacralità, la propria naturalezza, e, pur non potendosi sottrarre del tutto alle sempre possibili associazioni simboliche, prendendone le distanze in virtù del proprio “realismo” di fattura; il contesto ambientale in cui si trova ad essere e su cui non tende né a prevaricare né a orientare, bensì solo ad esservi come ospite ingrato; e infine tutti coloro che si troveranno per scelta, per consuetudine o per caso, a confrontarvisi. Si viene così a stabilire un gioco di relazioni che è la sostanza vera e ultima dell’opera, più di quanto non lo siano i suoi connotati stilistici e formali. Consiste questa sostanza nell’evocazione di un senso positivo della vita nelle sue più elementari manifestazioni quali quelle offerte dalla casualità dell’esistere e dalle potenzialità percettive che ci raccordano con il mondo e l’altro-da-sé nell’ambito di quello spazio condiviso, e non esclusivo, a cui nessuna forma vivente si può alla fine sottrarre. Tutto tende allora verso la meraviglia, che è pari nel rappresentato e nell’osservatore, nel visto e nel vedente, quasi a voler indicare quell’unità primigenia che è il nostro e più vero paradiso perduto.
Pier Luigi Tazzi

Davide Rivalta è nato nel 1974 a Bologna, dove vive e lavora.

Mario Airò, THE MOTORCYCLE BOY REIGNS

Stanza 20

Come è che un cinquantenne “suonato” si mette a fare un graffito a Casa Testori? Come mai ci presenta un lavoro dello scorso millennio?
La mostra qui vorrebbe aprire alle giovani generazioni, mettere in luce il loro lavoro. Cosa ci vuol suggerire questo graffito, che graffito proprio non è, visto che è citazione di un graffito, oltretutto “cinematografico”, e quindi fittizio all’origine… Citazione di citazione quindi… Eppure in ogni passaggio indicizzata… F.F. Coppola cita con quel graffito, segno del personaggio, l’essere contro per antonomasia, e nel film ne decreta la fine, o la crisi, e come suo unico sviluppo esistenziale pone un atto poetico, destinato a sfociare nella morte. Al di là della visione tragica di F.F. Coppola The Motorcycle Boy è figura folle, anarchica, e grazie alla sua impossibilità  di adattamento, per “sensibilità”, l’unica ancora in grado di comunicarci una verità, aldilà  di ogni mediazione.
Da queste osservazioni, già  15 anni fa era nato il desiderio di citarlo, e ora in questo contesto, volto appunto alle nuove leve e nel profondo buio della nuova era, spero possa dire quello che è e quello che spero l’arte voglia pur sempre essere, e cioè invenzione per un possibile mondo, magari migliore di questo, dove, come nel sogno del Motorcycle Boy, i pesci combattenti, nell’oceano, possano vivere in pace, perché hanno ognuno spazio sufficiente per le proprie esigenze.
Mario Airò

Ogni suo [di Airò] lavoro afferma, con discrezione, che esiste la possibilità di vedere il mondo con occhi nuovi, di vivere la propria esperienza coltivando un’attesa nei confronti del mondo.
Gianni Romano

Mario Airò è nato a Pavia nel 1961. Vive e lavora a Genova.

Christiane Löhr, CINQUE ELEVAZIONI

Stanza 19

Che tipo di sensazione ho quando mi trovo in una cattedrale gotica in cui tutto punta alla verticalità?
Negli edifici sacri spesso c’è una riconoscibile relazione tra strutture botaniche, regole di costruzione che funzionano sia su larga che su piccola scala.
La realizzazione materiale mi parla delle intenzioni spirituali, e nel caso di chiese e templi mi parla della fede di chi le ha costruite. Qualcosa di simile si può notare anche nelle opere d’arte.
Christiane Löhr

La semplicità e l’essenza delle cose.
Leggera e fragile, l’opera di Christiane Löhr risolve la complessità e l’abbondanza degli elementi di cui è composta con la “delicatezza”. La grande laboriosità costruttiva, il numero dei micro-elementi impiegati, la ricchezza geometrica e compositiva delle forme, trovano espressione in una sorprendente e preziosa semplicità, che si manifesta attraverso la delicatezza, la fragilità e la leggerezza. L’essenza dell’opera di Christiane Löhr si coglie osservando, fino al dettaglio più microscopico, la complessità che la genera, e di cui riesce a raggiungere una sintesi estetica mirabile in bellezza eppure incredibilmente leggera, quasi evanescente, nella percezione. La forza espressiva di queste opere sta proprio nella loro capacità  di sorprendere, di lasciare col fiato sospeso, in una forma di ossequioso incantamento e di rispetto per quella fragilità  impalpabile di cui si sostanzia.
Semi di cardo, soffioni, gambi d’erba, crini di cavallo, sono gli elementi utilizzati per comporre vere e proprie micro-architetture, sostenute dal rigore e dalla precisione geometrica, dove niente è superfluo, e tutto è assoggettato a regole che sembrano attingere direttamente alla Natura, anche se la Natura non è che uno spunto, un punto di partenza da cui costruire inattese composizioni a metà  tra il botanico e l’architettonico. […]
Della Natura Christiane Löhr coglie il senso effimero e la caducità dei suoi elementi, ne sfida le leggi fisiche, assemblando i semi in forme a loro inusuali, e quelle temporali, fissando quegli stessi elementi in strutture immobili e durature. […] La ricerca si fa a questo punto evidente: la semplicità  diventa lo strumento di indagine per individuare qualcosa che sta ben oltre l’apparenza, che utilizza la fragilità  per far sottendere l’orecchio e i sensi a un messaggio latente, appena sussurato, di ricerca dell’essenza delle cose, di una Natura intrinseca che si nasconde dietro la forma complessa e articolata, che ordina la bellezza e regola il mondo.
“Forse sono alla ricerca di ciò che tiene insieme il mondo” dichiara l’artista: la delicatezza è una condizione, uno stato del sentire, e la semplicità  una meta, che si raggiunge, come insegnava Costantin Brancusi “malgrado se stessi, avvicinandosi al senso reale delle cose”.
Valentina Muscedra

Christiane Löhr è nata a Wiesbaden (Germania) nel 1965. Vive e lavora tra Colonia e Prato.

Guido Nosari, HORNY HOTEL

Stanza 18

Horny Hotel è il titolo di un hard movie, Etat et Santè il titolo di uno studio socio-medico che, seppur malinteso, ispirò molta parte della politica eugenetica nazista.
Dopo l’esperienza del Novecento affianchiamo la privazione di libertà e di pensiero a una estetica del campo di sterminio. Vengono in mente irrimediabilmente il vuoto, l’estrema magrezza, i colori assenti e la passività. Dovremmo però oggi ripensare all’estetica dell’annichilimento umano, in forza del fatto che è diventato una delle caratteristiche del contemporaneo, non più legato all’idea di campo vuoto.
Al polo opposto del vuoto vediamo la condensazione di simboli, corpi, colori, riferimenti e stimoli. Come il vuoto, la presenza eccessiva impedisce il pensiero. Un luogo dove i riferimenti riempiono ogni spazio è un campo dove un potere coordinato può esercitare un controllo sul fruitore.
Nei due spazi che ho usato ho cercato di riprendere i temi che meglio si adattano a questa instaurazione di potere (in particolare la sessualità) e legarli a un’estetica satura; nello spazio del bagno, poi, ho rielaborato una foto storica della famiglia Testori ripresa in giardino (Testori masturbazione 1), facendo del giardino uno spazio denso ed eccitante, e dei Testori rimane solo un accenno di sessualità, al quale penso questo bagno abbia davvero assistito nel tempo.
Guido Nosari

L’accumulo dei densi grumi di colore con cui costruisce le sue forme, o meglio le de-costruisce plasticamente, ha un che di animale, atavico. Il più delle volte partendo da fotografie, l’artista “rovina” l’immagine, una volta, un’altra, e poi un’altra ancora, con l’accanimento di chi rivolta, rimesta il reale e la materia pittorica, cercando ciò che di drammatico (nel senso di azione, rappresentazione teatrale), di epico, vi si possa trovare.
Un accumulo, dunque, che è un percorso in profondità, un dentro che esplode fuori. Tutta la sovrabbondanza e il disordine che è il mondo “interiore” del “rappresentato” (e di ognuno di noi), che s’appiccica, s’impasta, alla parte “visibile”.
Ecco allora i corpi offerti nudi, e scarnificati, il rosso sangue (vita e morte) che colpisce gli occhi.
Tutto il contrario di un accanimento terapeutico, a dire: “muori, ma dimmi chi/cosa sei”. Come non pensare agli animali sanguinosi di Varlain, Soutine o anche al Giancarlo della mostra Testori a Lecco? Oppure al cumulo, al grido, alle figure caricaturali di Grosz?
Dunque il rosso, e da questo i rosa, e poi il blu. Colori, peraltro, delle messe in scena nei ritratti di Fra’ Galgario, bergamasco come Nosari, dei suoi fastosi costumi che sembrano contrastare con i volti invece “comunemente umani” (e Nosari ne scrive riguardo alla mostra del 2011 a Bergamo). Un contro altare, come in altra misura a Casa Testori.
Qui la densità della materia ha, in più, il suo contro altare nella piccola dimensione dei quadri, quasi una narrazione continua, “intima”. Oltretutto alcune fotografie origine dei dipinti ritraggono l’artista e suo fratello.
Unica eccezione la grande tela che è allestita in bagno, volutamente fuori misura nello spazio. Dipinta su un lenzuolo usato da Nosari, ripresa dall’unica fotografia della famiglia Testori al completo (altra foto “intima” e incisa sui muri della villa da Andrea Mastrovito), l’opera è totalmente ricoperta da una germinazione vegetale, da una elegante coda di pavone dispiegata. Accumulare e scavare per collegare e disvelare…
Francesca Radaelli

Guido Nosari è nato nel 1984 a Bergamo, dove vive e lavora.

Davide Baroggi, LA MIA VITA

Stanza 16

Faccio questi quadri perché me li sento dentro. Uno si potrebbe domandare perché scelgo di rappresentare paesaggi, ritratti o case isolate in un paesaggio. La casa ha il significato di una persona. Ne conosco solo l’esterno ma non l’interno. Come una famiglia. Io sono fuori, non riesco mai a entrare.
Gli animali, poi, sono la ferocia, il selvaggio, la rappresentazione della mia vita.
Il colore è energia, sensazione. Dimensione che trasformo nella mia realtà. Rosso, giallo, blu, colori molto forti. Espressionisti. Nella mia anima mi sento un po’ nordico, amo Kirchner e Nolde, con i suoi quadri infantili, ma carichi di emozione!
Davide Baroggi

…Cosa accade in queste immagini, o cosa è “già” accaduto? C’è un presente o solo una sospensione tra attesa e abbandono? Si tratta di un prima della creazione o di una sua irreversibile agonia? Esposti sul precipizio di un nulla eppure capaci di manifestarsi con l’invenzione anche assurda del colore, con l’impennarsi del segno, il precipitare convulso dei tempi narrativi, questi dipinti vivono dell’ansia che li ha generati e, pure nella loro istanza convulsa, ci interrogano ancora sulle ragioni del vivere.
Claudio Olivieri


Davide Baroggi è nato nel 1974 a Locarno (Svizzera). Vive e lavora a Pavia.

Michela Forte,1900 SPIFFERI

Stanza 15

Mia nonna paterna era una sarta, la sarta più famosa del quartiere, era lei che mi cuciva tutte quelle gonnelline da bambina vanitosa che sfoggiavo a scuola, le creava da rimasugli di tanti tipi di stoffe, e così i pois si mescolavano con i fiorellini, le righe con i quadrettini; se ci penso ero inconsapevolmente punk, alternativa, oggi sarebbero vintage e andrebbero a ruba, all’epoca erano soltanto allegri e colorati, tranne una volta che per Natale avanzandogli del velluto nero mi cucì un completino con tanto di gilet abbinato. Mi faceva impazzire quel rumore di grosse forbici Zac Zac Zac, sembrava un ciak di fine ripresa ed era il suo film quotidiano, un intreccio che riempivano spazi presenti e assenti. ZAC
Michela Forte

Per entrare nel mondo di Michela Forte ci vuole la chiave… E bisogna entrare piano, in silenzio, chinando un po’ la testa.
Intimità e profondità di un mondo femminile e sacro, le opere scelte per questa mostra raccontano la sua fragilità e straordinaria forza. Difficile separare le immagini dall’artista in questo caso.
Intensi bianchi e neri che rimandano alla potenza sublime della vita, alle radici di un passato che aiuta a vivere il presente. Ho sempre amato la profonda drammaticità di queste immagini che hanno il senso della grazia. Verità e bellezza in uno scatto veloce, rapido e profondo. Fotogrammi in bianco e nero che raccontano la vita, le radici, le emozioni, i ricordi, la purezza, la bellezza, il dolore, la forza, la tragicità, l’intimità, la passione, la musica.
Le forbici che tagliano per cucire e le forbici che tagliano per salvare. La forza dolorosa, tragica e salvifica dell’amore. Il filo che in sala operatoria salva il cuore, diventa una corona della passione così viva e reale. Il melograno, frutto sacro e regale, accostato al suo corpo, unisce la santità e la bellezza, la fecondità e l’abbondanza della vita.
Oggetti quotidiani che vengono trasfigurati in un profondo significato, fino a rendere il quotidiano sacro, monumentale, senza tempo.
E sempre, anche solo un dettaglio, ci ricorda la sua presenza, perché lei si mette in gioco e ci ricorda che quelli sono i suoi occhi, che ritraggono, ricordano e amano.
Alessandra Klimciuk

Michela Forte è nata nel 1980 a Erice (TP). Vive e lavora a Milano.

Francesco Diluca, ULTIMA CENA

Stanza 14

All’inizio ho voluto creare una scultura piccola che racchiudesse in sé una propria storia, ma con il passare del tempo la storia si è ampliata.
Pian piano stavo componendo una narrazione, un cammino preordinato, sulla società di oggi.
Nasce così Ultima Cena, un’installazione scultoreo-pittorica, un racconto per immagini atto a squarciare il velo di Maya.
Ho scelto questo titolo come pretesto per segnare un passaggio.
Un inizio.
Una fine.
Francesco Diluca

Il senso dell’assenza.
Francesco Diluca vede in queste forme attorcigliate, in queste lamiere umane, una possibilità di unione del singolo con l’universale, il particolare e il generale, il senso dell’intellegibile congiunto all’estrinsecazione del mondo sensibile.
Ma allora dov’è finito il corpo? Può esistere il contenitore senza il contenuto? Quale strana metamorfosi sta accadendo a questi uomini e perché? È proprio su questi quesiti, su questi dubbi, che Diluca si concentra provando a sovvertire ogni possibile aspettativa, raffigurando un involucro, un bozzolo apparentemente privo di vita, statico ed inerme, l’anima della non presenza, per indurci a considerare e provare a comprendere il senso dell’assenza. Un’assenza che obbligatoriamente invita, anzi costringe, a valutare ed analizzare il motivo di tale mancanza, trovando così paradossalmente la propria unità tra le trame del sensibile, del materico, per poi trovare il significato nell’immateriale.
Si tratta ora di continuare il viaggio all’interno della crisalide, nelle viscere del corpo, tra le trame dell’anima e le elucubrazioni del pensiero; sculture che trovano il coraggio della rottura, per poi addentrarsi nell’intimo e nella strutturazione dell’ossatura umana.
L’opera d’arte, come ci ricorda Andrè Malraux, non è solo esecuzione, ma nascita, è la vita in faccia alla vita.
Alberto Mattia Martini

Francesco Diluca è nato nel 1979 a Milano, dove vive e lavora.

Privacy Policy Cookie Policy