Contexto

Julia Krahn, PETTICOAT – KYRIE ELEISON

Petticoat è un lavoro sull’immigrazione. La protagonista è l’artista stessa: il suo corpo è in una posa in bilico tra la Madonna della Misericordia e la Madonna dell’Umiltà. Il canto che Krahn intona nella sua lingua natia è un atto penitenziale della tradizione cristiana. Il testo descrive il turbamento di Maria incinta, che deve attraversare un bosco di spine. È un canto di dolore e speranza, un omaggio alle madri e ai rifugiati che approdano in Europa. Al termine del canto l’artista alza la gonna, le colombe, simbolo sacrificale per eccellenza, rinunciano alla protezione del suo lungo vestito e, intimorite, talvolta macchiate di sangue a ricordo della sofferenza subita dall’uomo, si librano nell’aria finalmente libere.

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L’OPERA

Petticoat – Kyrie Eleison, fotografia applicata su muro, 2015

Francesco Fossati, FALSEFRIEND [UMBERTO]

FalseFriend è una serie di targhe commemorative, come quelle che costellano i muri di tanti edifici delle nostre città, che racconta eventi inventati ma plausibili, legati a personalità del mondo della cultura. Francesco Fossati vuole creare luoghi immaginari attraverso la costruzione di una nuova memoria collettiva che, contemporaneamente, permetta di prendere consapevolezza di spazi già conosciuti e di riflettere sulle lacune della politica culturale nazionale e internazionale (il lavoro è esposto in modo permanente a Carrara, Montoro, Cormano e Novate Milanese). La definizione di un fatto mai accaduto diviene, quindi, un metodo di analisi del reale.

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L’OPERA

FalseFriend [Umberto], 2016, incisione dipinta con vernice a solvente su marmo Botticino, 50x80x2 cm

Davide Rivalta, GHEPARDI

Un incontro inaspettato. Questo il primo impatto dell’opera di Davide Rivalta per chi si muoveva guidato dall’abitudine per le strade di Edolo. Chi sapeva esattamente cosa avrebbe incontrato girato l’angolo, tanto da non rendersi nemmeno conto di quel poco che cambiava, probabilmente invece si era accorto della presenza delle figure forgiate dall’artista. I suoi animali in bronzo erano fuori contesto, ma poggiavano sullo stesso pavimento che calpestano ogni giorno gli abitanti di Edolo. Non volevano essere simbolici, ma epifanici. Si imponevano nello spazio, prima, e nella memoria, successivamente: «Qui, un giorno, c’era un ghepardo», si racconterà.

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L’OPERA

Ghepardi, 2015, bronzo, misure ambientali

Matteo Maino, MECCANISMO DI CESURA SONORA #1.1

Ogni essere umano presenta una soglia di frequenza oltre la quale, seppur sollecitato, l’orecchio diventa insensibile e cessa di inviare stimoli al cervello. 
«Sentite qualcosa?». Questa l’unica domanda possibile davanti al Meccanismo di cesura sonora #1.1 di Matteo Maino. Due riposte nette, senza indecisioni, andavano a comporre due gruppi con due percezioni differenti dell’esistente. L’opera di Maino consisteva, infatti, non solo nella trasmissione della frequenza sonora più elevata udibile dall’artista, ma soprattutto nella differente percezione e conseguente reazione che il lavoro generava nel visitatore, in bilico tra frustrazione, insofferenza e fastidio. Era solo il suono a determinare la costruzione di queste due comunità, costrette al dialogo come mezzo di condivisione e completamento di un’esperienza.

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L’OPERA

Meccanismo di cesura sonora #1.1, 2014, soglia di frequenza udibile dall’artista (18410 Hz in giugno 2016)

Dario Goldaniga, MAPPE STELLARI

Le Mappe stellari di Dario Goldaniga miravano a fornire all’osservatore un nuovo senso dell’orientamento. Stabilivano un punto di riferimento che l’artista ha disegnato sulla superficie di lastre d’ardesia di recupero, lavagne non più utilizzate, sostituite da nuovi strumenti tecnologici e abbandonate nei meandri delle scuole, contenitori di sapere fatto di scritture e di cancellature, di sovrapposizioni continue e ridefinizioni di significati. Goldaniga ha tracciato sul delebile per antonomasia segni che non possono essere eliminati, poiché incisi sulla pietra. Sono costellazioni incancellabili, bussola per lo sguardo di chi osserva la sua opera.

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L’OPERA

Mappa Stellare, 2015, incisioni su lavagna, 90×120 cm cad. 
Courtesy Fabbrica Eos e l’artista

Aleksander Velišček, IL PICCOLO ALBANESE

La pittura di Aleksander Velišček è la continua sovrapposizione di strati di materia che si fanno sempre più densi sulla tela, fino a che è talmente carica da sembrare di non poter più reggere il colore, fino a essere una pittura concreta come scultura. Velišček accumula olio così come si accumula il peso della storia: rappresenta, spesso, il potere – politico, intellettuale, sportivo, mediatico – nei volti di coloro che hanno segnato le nazioni, a partire dalla sua Slovenia. Il piccolo albanese è il ritratto di un compagno di studi dell’artista, di bassa statura ma raffigurato come un gigante di quasi cinque metri. Una pietra miliare per la sua formazione, che come tale era necessario rappresentare.

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L’OPERA

Il piccolo albanese, 2009, olio su tela, 480×200 cm

Michela Pomaro, I CINQUE SENSI

Era lo scorrere del tempo a determinare l’esistenza dell’opera di Michela Pomaro. Sebbene, infatti, la sua installazione fosse visibile in ogni momento del giorno, erano i cambiamenti di luce a trasformarla. L’artista ha sperimentato con i materiali, giocando con l’osservatore e illudendolo che quelle che vedeva fossero tele tradizionali. In realtà, Pomaro ha utilizzato pigmenti fosforescenti, che reagiscono con la luce e si caricano non appena fa buio creando un mondo surreale.
Prendendo spunto dalle pitture rupestri, l’artista ha tracciato un codice simbolico difficilmente decifrabile, in cui ha unito l’attitudine puerile all’approfondimento della storia e dell’iconografia della Valle dei Segni.

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L’OPERA

I cinque sensi, 2016, tecnica mista su tela, opera composta da cinque tele di dimensione variabile

Emanuele Dottori, SULLA SOGLIA

All’ingresso vi era il frottage di uno dei graffiti ancora visibili in una cella. Almeno una parola si leggeva chiaramente e sembrava descrivere meglio di ogni altra la situazione: Inferno. Entrando in una delle due stanze gemelle, quella di sinistra, una grande tela mostrava l’unico orizzonte visibile dalla cella di fronte. Oltre la porta sbarrata ci guardava una veduta puntuale di Edolo, da sbirciare attraverso la finestrella crociata. La città era dentro e la visione interna si proiettava fuori. In questo scambio c’era tutto il senso dell’opera di Dottori: il carcerato sogna la sua Edolo libera e luminosa e la città rivede se stessa e la sua storia dentro l’angustia di quelle quattro mura buie. Una piccola tela e il suo negativo legavano le due stanze e ci invitavano ad andare nell’altra. Varcata la soglia si scopriva l’inimmaginabile: una fuga era possibile e la parete squarciata si apriva sulle montagne circostanti. Per chi è fuggito e per chi non ce l’ha fatta, una vista di Edolo di notte occhieggiava dalla quadratura del soffitto. Una città terrestre che si fa celeste non sarebbe dispiaciuta a Zeffirino.

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LE OPERE

Forse un mattino, 2016, gessetto e primal su tessuto preparato a gesso, 140×200 cm
Notte insonne, 2016, olio su tessuto, 250×210 cm

Dittico, 2016: 
Azzerucis id Aremac, olio su tessuto, 23×21,5 cm
Camera di sicurezza, gessetto e primal su tessuto, 23×21,5 cm
Il cielo sopra Edolo, 2016, olio su tessuto, 140×270 cm
Sognando ad occhi aperti, 2016, gessetto e primal su tessuto, 250×210 cm 

Andrea Fiorino, LA FUGA

A prima vista non si riconosceva l’ambientazione della storia che Andrea Fiorino stava raccontando. Poteva essere la stanza dell’artista, il cui alter ego è spesso protagonista dei suoi dipinti, invece si trattava della cella di un detenuto, che dalle sbarre alle finestre può vedere solo una notte senza stelle. 
Fiorino racconta un’epifania che offre una possibilità di fuga, di evasione da una prigione o dal quotidiano, un salto nel vuoto, proprio perché non si sa cosa ci sia fuori.
Il suo tratto è apparentemente istintivo, vicino ai disegni elementari che segnano le pareti di tante carceri; la tavolozza che utilizza pone l’accento su alcuni elementi della composizione, indirizzando lo sguardo dell’osservatore sugli elementi cardine della storia: dall’attesa alla fuga.

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L’OPERA

La fuga, 2016, acrilico su legno, 80×800 cm

Davide Baroggi, QUATTRO STAGIONI

Le finestre di una casa in Piazza Moles sono state occupate dalla fantasia creativa di Davide Baroggi. La sua energia non riusciva a restare all’interno delle mura, premeva verso l’esterno fino a incastrarsi negli unici quattro varchi da cui era possibile uscire. Essi si accendevano dei colori acidi e irreali di Baroggi, che ha delineato con uno spesso tratto nero e con un cromatismo istintivo ed espressionista le sue Quattro stagioni. Sono contesti diversi in cui l’artista ha inserito un animale, non sempre immediatamente identificabile, un simbolo che riassume senza alcuna mediazione la sua visione di un periodo dell’anno e della vita.

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LE OPERE

Quattro stagioni, 2016, tecnica mista su tela
Primavera, 99×88 cm
Autunno, 145×86 cm
Inverno, 155×87 cm
Estate, 161×87 cm