Month: Aprile 2021

I lunedì di Casa Testori. Ep.23


Puntata 23, lunedì 26 aprile, ore 21.15

Il dialogo difficile, conflittuale, intrattenuto da Pasolini con le avanguardie di questo dopoguerra, dall’Informale all’Arte povera, passando per la Pop Art e la cultura dell’happening: è il tema di un importante libro pubblicato da Ara H. Merjian, titolare alla New York University per la cattedra di Italian Studies. “Against the Avant-Garde. Pasolini, Contemporary Art and Neocapitalism” è un libro che ripropone il carattere “eretico” dell’intellettuale Pasolini e il suo giudizio disallineato rispetto alle mode e alle ideologie anche nel campo dell’arte a lui contemporanea. Al libro, pubblicato da The Chicago University Press, viene dedicata la puntata dei Lunedì di Casa Testori del prossimo 26 aprile. Insieme all’autore ne discuteranno Elena Pontiggia, storica dell’arte, e Tommaso Mozzati, studioso di Pasolini.

La puntata verrà chiusa dalla lettura di un articolo di Testori: questa volta si tratta di un intervento che richiama i temi della polemica di Pasolini, “L’avanguardia nella rete del potere”, pubblicato sul Corriere della Sera nel 1977. La voce come sempre è quella di Federica Fracassi.

La passione fa male: Testori si scopre attore

Ci ha lasciato a 78 anni Maria Grazia Gregori, critica teatrale e storica firma de l’Unità che ha dedicato sempre grande attenzione all’opera di Testori. La ricordiamo con il finale della sua recensione di “Verbò”, portato in scena dallo stesso Testori con Franco Branciaroli al Piccolo Teatro di Milano nel 1989.

di Maria Grazia Gregori

L’Unità, p.19, giovedì 22 giugno 1989

Forse non è possibile staccare dalla religiosità dimostrativa che il termine autosacramental contiene, anche quello di scandalo. Anzi è proprio lo scandalo nella sua accezione punitiva, che sembra aver guidato Giovanni Testori nella scrittura di Verbò nuovo testo che, nell’ambito di “Milano d’estate” viene presentato al Piccolo Teatro. E insieme allo scandalo, alla caratteristica violenza verbale, questo lavoro – non si capisce perché vietato ai minori di diciotto anni – contiene anche un desiderio di autoannullamento, di ricercata esibizione, perfino di disprezzo di sé che si realizza, anche sulla scena, in una degradazione cupamente ricercata.

            Del resto, è solo da questo punto di spiazzamento, di degrado che secondo il Testori di oggi può nascere una forma di religiosità contemporanea. E sono proprio l’autoesibizione, la pulsione erotica fortissima – sudore e sperma, rifiuto e fraternità – di Verbò a colpire, dentro il nodo di due biografie, quella di Paul Verlaine e di Arthur Rimbaud (dalla contrazione del loro due cognomi nasce il titolo di questo testo). Ma insieme a loro, in scena, ci sono anche Giovanni Testori e Franco Branciaroli: e la storia dei due grandi poeti “maledetti” e quelle dello scrittore e dell’attore di oggi, si sovrappongono e si fondono in un’identità che nasce dalla lacerazione.

            La  riscrittura, in chiave fantastica, della rovinosa ed esaltante storia d’amore che unì per qualche tempo il maturo Verlaine e il giovane Rimbaud con grande scandalo dei benpensanti, fino all’epilogo finale scandito dai colpi di pistola, dalla galera, dal lungo errare, di intreccia (potrebbe essere un atto di superbia, ma può anche essere il suggerimento orgoglioso di una filiazione) a due altre biografie umane e artistiche, in qualche modo anch’esse “scandalose” tra frammenti di versi, balenii di immagini, sovrapposizioni di vicende, e si sublima nella parola, anzi più volte citata musique della parola. Testori, dunque, partendo dal breve soggiorno a Milano nel 1875 di Rimbaud, immagina una specie di ultimo atto, di resa dei conti fra i due, nel tentativo di tenere alto, nel suo brillìo sfavillante, la storia di un amore reietto. Una sorta di grande processo, di denudamento psicologico (autosacramental, appunto) tutto centrato sull’attrazione e sulla repulsione.

            Sulla scena poche sedie, un tavolo rovesciato – lo stesso di In exitu –, un grande riflettore a piantana e, per fare piazza pulita di qualsiasi possibile illusione in uno spettacolo che è costruito tutto a togliere secondo una scheletrica semplicità: la sala è illuminata, il vicino può guardare il vicino, spiarne le reazioni e guardare con occhi ben chiari il lungo deputato dell’illusione, il palcoscenico.

            Testori-Verlaine in pantaloni e canottiera come un fotogramma sfuggito a Rocco e i suoi fratelli si confronta, si azzanna, si abbraccia con Branciaroli-Rimbaud (secondo scorci figurativi che riportano alla mente Caravaggio e Bacon) in un fiume di memorie, biografia scandalosa e impudica autobiografia, nella resa dei conti del palcoscenico dove tutto si consuma in un rituale di autoannientamento che si confonde con la confessione.

            Tutto, dunque, ritorna all’eterno cerchio della nascita e della morte – vita, vicende, amori, parole –. E se all’inizio raggomitolato come un feto, Branciaroli, in un’interpretazione di forte tensione, nasce in qualche modo alla parola, al teatro fra lampi di poesia visionaria, è lui, Testori-Verlaine, il conduttore-narratore della storia secondo schemi di quasi straniamento. Ed è ancora la parola spezzata, quasi incomprensibile come una “bava demente” a chiudere questa autorappresentazione di sé che si è voluto vietare, mentre è solo una testimonianza di vita e forse di stile.

I Lunedì di Casa Testori. Ep.22

Puntata 22, lunedì 19 aprile ore 21.15

La puntata numero 22 dei Lunedì di Casa Testori si occuperà del caso che ha suscitato tanto interesse nelle scorse settimane: la scoperta di un’opera perduta di Caravaggio, l’Ecce Homo, venuto alla luce ad un’asta di Madrid. Ne parleremo con Cristina Terzaghi, storica dell’arte, che ha potuto esaminare il quadro dal vero trovando gli elementi che assicurano l’autografia caravaggesca. Sarà con lei Stefano Causa, storico dell’arte al Suor Orsola Benincasa e grande conoscitore del periodo napoletano del Caravaggio. La puntata è l’occasione per esplorare il quadro, anche grazie a riprese fotografiche ravvicinate, scoprire le connessioni con altre opere e collocarlo all’interno della parabola caravaggesca.

La puntata verrà aperta con la lettura di una recensione di Giovanni Testori alla mostra su Caravaggio a Napoli, curata da Mina Gregori, del 1985. La voce come sempre sarà quella di Federica Fracassi. 

COLLASSO ANALITICO

Giulia Bruno e Micol Roubini
A cura di Daniela Persico
Casa Testori
4 Maggio – 5 Giugno 2021

COLLASSO ANALITICO
Daniela Persico

Il varcare la soglia di Casa Testori è intrinsecamente legato alla memoria di una frase che per lungo tempo ha troneggiato nell’atrio d’ingresso: una citazione di Giovanni Testori che non solo lasciava trasparire in maniera evidente quanto l’uomo e l’arte a cui ha dato vita (come scrittore, drammaturgo, artista e critico) fossero legate in maniera indissolubile, ma anche la premonizione che quelle parole del passato interrogassero in modo decisivo il nostro futuro. Sulla parete stava scritto: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere, e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa. Si fanno queste puntate verso l’esterno – che possono anche essere violente, distruttive – ma poi il ritorno a casa dà all’esperienza stessa di quell’uscita un calore indicibile. Perché ritornare non vuol dire affatto dimenticare, non vuol dire scrollarsi di dosso la violenza e la distruzione. Vuol dire solo entrare in un luogo che accoglie, che riceve quel dolore e quella cattiveria, dando loro un senso…”.
Casa Testori è dunque un luogo che porta con sè questa memoria, un luogo di senso, come lo furono un tempo le case di famiglia, anche quando la severità traspariva nelle geometrie planimetriche e la quieta eleganza veniva nascosta sul retro tra le meraviglie feconde di un giardino. Ma al contempo rimanda a un viaggio interiore, a un movimento, una dialettica tra l’io delle mura e quello che vi fa ritorno. In questo iato, ancora conciliabile per Testori (grazie alla centralità di una famiglia e di una fede), sta la sfida dell’artista contemporaneo, disperso in un’Europa che si finge unita e incerto sul luogo in cui riconnettersi, per iniziare a ricordare. 
Collasso analitico, un percorso in fieri e un’indagine a porte aperte più che una mostra, raccoglie il lavoro di due artiste cosmopolite, Giulia Bruno e Micol Roubini, entrambe nate a Milano ma con radici che le hanno portate altrove. Giulia Bruno, da anni collaboratrice stretta di Armin Linke, ha attraversato il globo alla ricerca di un’utopia legata alla sua storia familiare: l’esperanto, un tempo lingua capace di riconnettere diverse nazioni varcando le frontiere, poi lingua della resistenza, che rinasce in paesi non allineati creando nuove comunità in nome di un progetto di universalismo. Micol Roubini parte dall’antica fotografia di una casa e una lista d’oggetti: le testimonianze più care conservate nell’appartamento milanese di un suo nonno, scappato dall’Ucraina in seguito allo sterminio della propria famiglia, prima in Russia, per poi arrivare in Italia. Saranno questi pochi documenti a guidarla attraverso l’Europa, fino all’Ucraina occidentale, in un paese che in cent’anni ha cambiato cinque volte identità nazionale e che ora attraversa una delicata fase di transizione. Ancora una volta, finite le spinte euforiche di nuovi assetti politici, si torna a interrogarsi sulla fine di un’utopia (quella novecentesca), le cui macerie impongono una presa di consapevolezza per leggere il nostro ruolo nel presente. Ci vuole dedizione e analisi, sembrano suggerirci i lavori delle due artiste (tanto diverse nei risultati, quanto simili nelle metodologie di lavoro): bisogna lanciare delle sfide ambiziose e affrontarle con la giusta modestia, bisogna prendersi il tempo di cercare e offrire lo spazio all’altro per raccontarsi, a volte serve inventarsi una nuova lingua, altre volte recuperare una lingua madre da sempre soffocata. Il campo entro cui tutto avviene è quello dell’immagine in movimento, la più forte nel mettere a tema la relazione tra chi filma e chi è filmato, in grado di segnare un viaggio nella scoperta del mondo per imparare a definire (seppur per un attimo precario) se stessi. 

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COLLASSO ANALITICO. ISTRUZIONI PER UNA VISITA
Elena Gervasoni 

Varcare la soglia di Casa Testori, qualsiasi sia l’occasione che ci spinge lì, significa sempre fare ingresso in una casa – quella un tempo abitata da Giovanni Testori e dalla sua famiglia –, prima ancora che in uno spazio espositivo. Ed è proprio sull’atto di entrare nella casa, che si vorrebbe suggerire di portare l’attenzione al visitatore che approfitterà degli ultimi giorni di apertura della mostra Collasso analitico per una visita. Sarà idealmente come ricalcare i passi del padrone di casa, compiuti a centinaia e centinaia nel fare ritorno alla propria abitazione, ricevendo ogni volta un “calore indicibile […] da quel luogo che accoglie” – questa l’espressione con cui Giovanni Testori descriveva il rientro in famiglia, come ricordato dalla curatrice Daniela Persico in apertura di catalogo.
Traguardata la soglia, dunque, si vorrebbe suggerire al visitatore anche un’altra accortezza: quella di trasgredire il corretto ordine di visita della mostra per come indicato nella planimetria presente nel foglio di sala (dove la progressione numerata delle stanze lo vorrebbe iniziare nello studio a destra dell’ingresso e concludere nella sala da pranzo alla sua sinistra).
Se si fida di chi scrive, provi invece a collocarsi da subito a metà del percorso, nella sala n. 6, cioè alla base delle scale: qui è il centro della grande dimora, dove idealmente si saldano le due ali del piano terra, così come i livelli inferiore e superiore della casa (ma anche gli spazi interni delle varie stanze e quelli esterni del giardino). In questo punto, se sosterà qualche secondo, il visitatore avrà percezione istantanea del “collasso analitico” messo in atto dalle due artiste Giulia Bruno e Micol Roubini: avvertirà infatti, non c’è dubbio, la babele di voci e linguaggi che provengono dai protagonisti delle video-installazioni collocate nelle stanze attigue (cantina compresa) e che lì convergono e si mescolano tra loro, abitando lo spazio domestico che li accoglie. Come per sinestesia, i suoni si rifletteranno nelle tavole di rappresentazioni visive dello spettro dei segnali audio, adagiate da Giulia Bruno accanto alla libreria testoriana, proprio alla base delle scale.
Per un attimo, forse, la messe di fonemi per lo più indecifrabili provenienti dai video, alternati all’abbaiare rabbioso di un cane, proietterà il visitatore nella condizione di smarrimento che prova chi, emigrando, perde casa e lingua e vaga nel mondo mendicandone di nuove, nella speranza di trovare almeno una vaga rassomiglianza con l’una e con l’altra delle sue radici identitarie.
Sarà allora chiaro che il tema centrale dell’esposizione è la riflessione sul linguaggio come fattore di esperienza – e non solo di conoscenza – , quel “[…] battere della parola verso la possibilità di esistere, di dire, di essere cosa, non più un’allusione, ma una realtà concreta, reale e totalmente incarnante” (ed è ancora l’eco di Giovanni Testori, che riverbera dalla sala n. 10, la veranda, dove Giulia Bruno presenta l’estratto video di un’intervista allo scrittore sul tema del suo linguaggio teatrale).
Percorrendo poi tutte le stanze che gravitano attorno a questo centro ideale, il visitatore scoprirà di volta in volta come il linguaggio si intrecci, nei lavori delle due artiste, ai temi della memoria, del senso di appartenenza ad una comunità e, dunque, della costruzione di identità personale, sociale e politica: il “linguaggio come casa dell’essere”, per dirla con Martin Heiddeger – con un’espressione sorprendentemente simile a quella scritta su una parete della sala n. 1, lo studio, in cui si legge: “Al di là della tecnica, al di là dell’immagine, si è attraversati da utopie. Possa la lingua essere la nostra casa.”
Sotto questa sorta di invocazione scritta a muro, nello studio appunto, quattro teche raccolgono i materiali personali da cui Giulia Bruno e Micol Roubini – nate entrambe in Italia ma con radici familiari che le hanno spinte in direzione cosmopolita – si sono fatte ispirare per la loro ricerca artistica, (rivelando come comune punto di partenza la figura dei rispettivi nonni): per Giulia Bruno appunti di viaggio su taccuini, fotografie familiari, alcuni libri di Pasolini ed Eco, ma soprattutto i manuali tecnici della Fiat stampati negli anni Sessanta in esperanto – la lingua franca di molti operai attivi nella Torino del Boom economico, tra cui proprio il nonno dell’artista; per Micol Roubini una fotografia datata 1919, che raffigura la casa d’infanzia del nonno materno a Jamna, sul confine tra Ucraina e Polonia, e i fogli di via della dogana polacca e italiana del 1957, anno in cui la famiglia si trasferì dall’Unione Sovietica in Italia.
Da queste premesse si dipana, nel resto delle stanze, l’insieme di lavori delle due artiste (per lo più video-installazioni) metodologicamente affini per l’esigenza condivisa di dare corpo al linguaggio, attraverso l’immagine, eppure diverse nei risultati cui approda il loro lavoro: nel caso di Giulia Bruno un processo analitico di riflessione metalinguistica sulla fenomenologia del linguaggio come tecnologia; per Micol Roubini, invece, un atto poetico che marca la fragilità della memoria e il nomadismo fluido della lingua.
Volendo chiudere con lo stesso gioco di simmetrie tra la casa e le opere con cui si era aperto, si ricorderanno qui solo due altri lavori, uno per ciascun’artista, posti idealmente agli estremi della diagonale N-S della dimora testoriana: nella sala del camino, 23.500 grammi di Micol Roubini è il plico di 1287 fogli di carta velina – materiale povero da imballaggio e per trasporto di oggetti – che poggia su una sottile lastra di ferro, quasi a emulare il ripiano di carico di una pesa; il titolo rimanda alla misura esatta del peso mancante degli oggetti che, tra quelli che il nonno di Roubini portò con sé dalla Polonia in Italia registrandoli nelle diverse dogane con una lista numerata, non arrivarono mai a destinazione. Adagiati sulle pareti della stessa stanza sei display metallici sorreggono altrettanti fogli di carta velina intagliati in modo tale da far emergere in negativo le Glossolalie, cioè le traduzioni (non più biunivoche né corrispondenti) in russo, polacco e italiano dei nomi di alcuni di questi oggetti, il cui significato sbiadisce così nell’ombra che l’intaglio della velina proietta sul muro retrostante.
All’estremo opposto della casa, nella veranda, Giulia Bruno presenta invece l’inesausta ricerca dell’Atlante Linguistico Italiano, una raccolta ordinata e sistematica di carte geografiche italiane, sulle quali sono riprodotte, per ogni località nazionale esplorata (chiamata “Punto”), le corrispondenti traduzioni dialettali di un concetto, di una nozione o di una frase, raccolte dalla viva voce dei parlanti grazie al lavoro avviato in epoca fascista da Ugo Pellis e oggi proseguito dal Professor Matteo Rivoira dell’Università degli Studi di Torino.

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Giulia Bruno

Trovare uno spazio, una forma, un contorno in cui collocarsi e sentirsi “appartenenti a” diventano un momento decisivo in cui la definizione e la non definizione danzano incessantemente insieme.
Il mio posto è da sempre l’immagine.
L’immagine del perduto, l’immagine non trattenuta, l’immagine che nasconde il senso o che lo rincorre, l’immagine che mi ha portato nel mondo e che mi richiama agli interrogativi quotidiani. Origini, senso, lingua, potere, economia, mercato, identità e cultura.
Viviamo in un mondo in cui la separazione semantica confonde così come l’autodefinizione. Artista, biologa, fotografa, filmmaker o semplicemente me.
La tecnologia, i processi, lo spazio città, lo spazio umano, il linguaggio come tecnologia, come paesaggio artificiale o naturale, il confine come infinito o come limite sono da sempre le domande della mia ricerca e dei miei processi. Come a non contenere, ad allargare, ad andare oltre per poi tornare a decostruire.
L’immagine come forma di ridefinizione di un bordo che scivola di continuo alla ricerca di una narrazione che rimane sullo sfondo: il rumore della vita.
Vivo a Berlino da molti anni e in tutto questo tempo la sete di conoscere mi ha portato in tutto il mondo grazie anche alla lunga collaborazione con Armin Linke e Giuseppe Ielasi: foresta nella Amazzonica, in Papua Nuova Guinea, in Indonesia, in Jamaika, in Corea alla ricerca di un processo, della scoperta del meccanismo funzionale delle dinamiche sociali, insaziabile in una sorta di viaggio Ulissiano, forse ora anacronistico.Sono rimasta affascinata dalle dominanze politiche ed economiche e da come questo agisce anche sulla lingua attraverso lo scambio, una lingua franca, un processo particolare o universale, la pubblicità, l’immagine.
Ho amato e seguito l’esperanto questa meravigliosa lingua che si pone come un diritto linguistico di uguaglianza, di trascesa di ogni confine e ho viaggiato per essere in conversazione con i parlanti la Lingua, con il pensiero, con le radici di un sogno e con il reverse nella società e con le implicazioni e le difficolta anche qui di definizione e di contenimento.
In un mondo globale dove internet e il flusso di dati sommerge e nasconde come si difende un diritto? Come si accede ad un’uguaglianza diffusa? Come si diventa cittadini di un mondo? Dove rimane il non scoperto e il non visto?

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Micol Roubini

Lavoro come artista con film, video, installazioni sonore e materiche, che si collocano tra arte e cinema. La mia pratica è strettamente legata all’esigenza di indagare la complessa rete di relazioni e processi che si instaurano tra l’uomo e il territorio che questi abita. Il mutevole equilibrio con cui, attraverso una lingua, una cultura, un sistema economico o delle strutture sociali, prendano via via forma l’idea stessa di spazio, di paesaggio o i confini di uno stato. Il rapporto specifico tra un dato luogo e l’insieme di tracce e frammenti di storie che ne costituiscono la memoria e al tempo stesso i rimossi.
Mi interessano i territori ai margini, considerati tali da un punto di vista percettivo, prima ancora che geografico, in una riflessione che nella mia ricerca prende avvio quasi sempre da una o più rappresentazioni del “reale”: se il punto di partenza è almeno in parte documentario tuttavia l’opera finita non ricalca la realtà, ma è piuttosto il risultato di un lungo processo di mediazione e contaminazione tra diversi ambiti. Questo scarto, che in alcuni casi è lieve in altri è più marcato, mi lascia la possibilità di dar voce attraverso immagini, suoni, o narrazioni più strutturate, anche all’inaspettato, al fantastico, al surreale e sono le specificità di ogni singolo progetto a definire i mezzi con cui questo verrà sviluppato, non viceversa. Sempre mantenendo attiva questa specifica modalità di ricerca su più fronti, negli ultimi anni mi sono focalizzata maggiormente sull’aspetto filmico. Quello che mi ha sempre affascinato e che è una delle sfide maggiori nel cinema, è la potenza cui quello che in fin dei conti non è altro che un processo di sintesi, può arrivare. Si è all’interno di una struttura circoscritta, con delle regole interne di fruizione ed un preciso arco temporale, tuttavia l’esperienza di questa nuova realtà è in grado di riportarci al mondo con una maggiore consapevolezza, di alimentare il nostro spirito critico e, a volte, di provare a dare un senso al nostro agire.

Collasso analitico chiude Pocket Pair, un ciclo di mostre coordinato da Marta Cereda avviato da Casa Testori nel 2018. Il titolo del ciclo riprende un’espressione del gioco del poker che indica la situazione in cui un giocatore ha due carte, di uguale valore, e deve scommettere su di esse. Allo stesso modo, i curatori scommettono su talenti emergenti, due artiste/i dal pari valore, per dar vita a una bipersonale di elevata qualità, allestita al pian terreno di Casa Testori dove sono liberi di incontrarsi, anche all’interno delle singole stanze, di farsi visita, di dialogare da vicino.

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“In Exitu” con Roberto Latini alla Biennale Teatro

“In Exitu” alla Biennale Teatro 2021. Lo spettacolo prodotto dalla Compagnia Lombardi Tiezzi con Roberto Latini protagonista e regista andrà in scena al Teatro Piccolo Arsenale il prossimo 7 luglio.
Ripubblichiamo la recensione di Rodolfo Di Giammarco uscita su Repubblica in occasione della prima a Napoli.

Roberto Latini ha risposto all’invito della compagnia Lombardi/ Tiezzi di incarnare In exitu, schegge della vita ai margini di Gino Riboldi, marchettaro eroinomane in limite di genere, lingua, umanità che col dj queer del precedente Cantico dei Cantici condivide una carnalità tenera, sovversiva, incomprensibile ai più. In proscenio, oltre una rete da tennis, un binario di legno evoca lo scenario di una stazione ferroviaria, non luogo di svendita del corpo e di violenza. La scena, immersa in un bianco opaco, è una distesa di materassi su cui Latini si muove senza sosta: sbanda, trema, cammina, cade nel rincorrere il ritmo sgangherato di una lingua «sgrammaticata che perde i pezzi»; lingua contaminata, lacerata e incompiuta perché metafora di vita, mista di latino, italiano e dialetto lombardo. Tra le mani un microfono che è stampella, spada, siringa amplifica le voci in cui l’attore si moltiplica, letteralmente si consuma. Rantoli, reiterazioni, bestemmie, pause che sono apnee negli incubi, nello strazio di un’epidermide crivellata per riempire un vuoto dell’esistenza: Latini, in preda al testo, si fa dominare e lo domina per restituircelo in tutta la sua potenza lirica e distruttiva. La sua è agonia disarmata, Teatro senza sconti, prova sconcertante di autore in quanto attore. Nella città/ bordello Riboldi è cercatore dionisiaco di bellezza contro la normatività: agnello sacrificale di un malessere collettivo e atavico – ma rimosso in nome della morale – di cui l’attore si assume il dolore, la fatica, la responsabilità con un’onestà nuda. Colano trucco e sudore nella tenuta da tennista in tuta e scarpe da ginnastica: il palco è palestra fisica e dell’anima, campo di battaglia all’ultima ferita tra umori corporali e profonde solitudini. Il match tra la vita e la morte è scandito da interventi sonori di beat elettronici e violini elettrici, teatro aumentato nel microfono, luci che come distese di pittura ci calano in un pasoliniano, acre underground. Latini, mordace sperimentatore, interroga palco e platea fino all’ultimo respiro: nel finale, una palla da tennis a grandezza naturale è il servizio pronto a essere lanciato al di là della rete/ proscenio. Può riceverla solo chi lascia ogni appiglio per perdersi nell’altro da sé. Questo forse è quanto di meglio possa succedere a Teatro.

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Il Caravaggio, genio e ladro

Proponiamo qui di seguito il testo integrale della recensione di Giovanni Testori alla mostra “Caravaggio e il suo tempo” (Museo di Capodimonte, Napoli, 1985).

Napoli – Sacrosantamente gli esimi organizzatori di questa memorabile mostra («Caravaggio e il suo tempo», Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 30 giugno), dove con ogni probabilità per l’ultima volta, è dato veder accostato un numero altissimo d’opere del Maestro, soprattutto quelle che s’usan chiamare «da stanza», han voluto dedicare la loro fatica a Roberto Longhi. La dedica risulta duplice. Essa non si ferma, infatti, alle parole con cui s’apre il Catalogo, nell’edizione italiana ancor meglio edito dall’Electa, ma si muove e vive, come linea prima e definente, nel pensiero critico di chi l’ha voluta, studiata e realizzata; soprattutto in quello di Mina Gregori che, oltre ad essere, con tutto il Comitato Scientifico, responsabile del disegno generale, s’è tenuta per sé il vero e proprio saggio introduttivo e la schedatura dei dipinti del tragico, supremo, atterrito, e, proprio per questo, continuamente risorgente protagonista; dando, in quest’ultimo ufficio, una prova da additare quale esempio, di come si possa tutto riferire di un’opera, tutto rispettare delle altrui opinioni, senza nulla sacrificare delle proprie. Non è piaggeria nostra se, a pochi giorni di distanza da quello che ci strappò, con quanta festosa gioia il lettore riuscirà forse a rammentare, per la mostra cremonese dei Campi, siamo indotti a ripetere qui, ulteriormente rafforzato, l’elogio per questa conoscitrice e «maestra» (detto nell’antico senso e nell’antica nobiltà del termine) della nostra storia artistica, che la maturità ha portato a offrire agli studiosi, ma anche all’onda vasta del pubblico, una così larga e profonda messe di frutti. Del resto, i temi delle due esposizioni risultano strettissimamente legati. È una civiltà, quella di Lombardia, che la Gregori ha inteso mostrare (o rimostrare) al mondo; accompagnando una sottilissima, indomita conoscenza critica a un senso, esso sì, veramente, democratico, di che una mostra ha da essere.

Dicevamo che la dedica longhiana diventa, qui, ripresa della tesi principe del grande critico. Ora quella tesi che, per alcuni anni, parve superata (ma, in effetti, non lo fu mai) dalle alchimie di letture astrattamente, quando non demenzialmente, iconologiche, torna qui ad essere totalmente onorata; e onorata perché il tempo ha mostrato quanto fosse pregnante e verace; e quali mai possibilità contenesse di venir sviluppata. Che è proprio quanto accade in questa mostra; e con tale ricchezza di conferme e d’aperture da farci affermare che, dopo l’irripetibile esposizione milanese del ’51, questa si pone come data fondamentale nello sviluppo degli studi caravaggeschi; anche per gli ardui ingorghi di problemi che propone, e che propone con la chiarezza e la drammatica lampeggiante violenza che il Caravaggio si meritava.

Prima d’addentrarci nelle magne sale di Capodimonte e riferire, almeno per come lo concede una pagina di quotidiano, convien dire che la sfilata dei capolavori risulta, già da sé, stupefacente: da quelli che compongono la sezione dei «precedenti» lombardi e che formano lo stormente albero genealogico del Merisi, a quelli dei bolognesi, dove s’alza a dominar tutti la straordinaria, sbilenca, sanguinolenta immersione «dialettale» d’Annibale Carracci che qui, con la «Macelleria», venuta da Oxford, espone il suo stato reale, prima che si genuflettesse al mito del classicismo; per arrivare, infine, a quelli dei contemporanei e degli immediatissimi seguaci, che di sovente risultarono immediatissimi traditori. Sono meraviglie, poste l’una accanto all’altra, ovvero l’una in opposizione all’altra, ma tutte necessarie, più che a far concerto di capolavori, a far storia; o a far storia con loro, i capolavori; e a dire come, nella fisiologica, carnale perentorietà della sua fatale e fetale coscienza lombarda, Caravaggio avesse occhi, mani, denti, labbra e intestini per tutto; e come, ove gli si mostrasse necessario, tutto rubasse di quanto altri aveva appena fatto o andava, allora, facendo; quasi che i quadri fossero per lui realtà, né più né meno di come lo erano gli uomini, le donne, i fiori, l’erbe, i frutti, i cavalli, i piedi, i ventri, i visi, gli sterni, le spalle e le cosce.
La copia e la ripresa sono azioni proprie ai talenti. Il furto, e non si crede di dire cosa nuova, è azione propria ai geni. Ma, in Caravaggio il furto non fu mai di stile; fu un fisico, erotico e persin losco interesse (ma sì, diciamolo pure, un losco interesse di parte; e come avrebbe potuto essere altrimenti in un uomo come lui?); fu, ecco, una fascinazione totalmente fisica e, insieme, psichica. Rubare a un’opera già fatta fu, per lui, come perder la testa, e non solo la testa, per il ragazzaccio, sconcio e divino, che si mise lì davanti a far da modello per l’«Amore vincitore»: o come addentare, con un sol colpo, la madida polpa di una mela.

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Famelicità

Siamo così entrati «in medias res»; e per direttissima. Ben più che proporre la nostra personale opinione su alcuni nodi attributivi e cronologici, opinione che la Gregori ci ha fatto l’onore di citare nelle schede (ancorché si tratti di pareri espressi, non già in studi specialistici, bensì e proprio da questo semplice giornale), ci preme avvisare di quanto, di rivoluzionario e travolgente, dalla mostra, s’evince; il che corrisponde esattamente a quanto, di rivoluzionario e travolgente, si dové evincere, ai suoi tempi, dalla carriera, brevissima e come fulminante in se stessa, del Merisi e dai modi in cui essa andò svolgendosi, come se dalla famelicità di vita, che inturgidisce di sé gli inizi, fosse stato chiamato a gettare la propria anima e il proprio corpo nella famelicità opposta: quella della morte. In pochi anni, a furia d’essere nella realtà (che conteneva, sia ben chiaro, una pressione sacrale tanto forte e tanto battente, lì, alle tempie, da permettergli d’essere proditoriamente ebbro ed erotico e, insieme, disastrosamente cosciente della propria perversa brama e della propria cupa e conseguente dannazione), il Caravaggio passò da una concorrenza strettissima e spietata, quasi da bocca a bocca, con la vita, a una concorrenza, non meno da bocca a bocca, e non meno spietata col sepolcro.

Ora il risucchio di quest’ultimo allunga le sue infinite, sfarinanti ombre sulal prima ben più di quanto questa non potesse stendere le luci d’alba, troppo densa, possente e carnale, sulla consunzione di quello. O, forse, sì, le stese; ma come strappando se stessa e facendosi laceratissimo lacerto serale; simile a quelli che appaiono all’orizzonte, sui profili stessi del mondo o negli occhi di chi abbiamo amato, prima che la notte ingoi tutto nel suo inesplicabile niente. Lo stile del Caravaggio, se talmente vuol davvero chiamarsi, ricava la sua rapidissima, fulminante suntuarietà, il suo disprezzo per ogni decoro, la sua ellitticità da supremo, tragico «imbianchino» dell’universo, proprio dall’istantaneità, e dall’inevitabilità, con cui tutto, in lui, s’accende, s’incendia e, poi, di colpo, rantola, si blocca lì e tace; in cui tutto si destina, d’ora in ora, di minuto in minuto, ad avvenire e a morire. Proprio perché l’avvenire coincide, in lui, sempre, con l’essere; proprio perché il nulla, nero, allibito e non più benedicibile da niente che sia umano, risulta, per lui, la sola testimonianza possibile del tutto; proprio per questo, l’immersione nella realtà fu, nel Caravaggio, quella che accade a chi, uscito dal grembo materno, delira per tornarvi e trasforma tutto in quel ventre; ventre che alla fine, si configurerà in un rantolo di tragica solitudine là, sulla desolata spiaggia di Porto Ercole.

È questa ventralità del reale, ventralità che la mostra napoletana ci ammonisce altra volta come trovasse la sua metafora espressiva, anzi la sua espressiva consustanzialità, iniziatica nei padri e nei fratelli (e nei fratellastri) di Lombardia, che rende possibile al Caravaggio compiere una sgominante sequela di paragoni coi maggiori esiti, non solo dei suoi contemporanei, ma dei grandi uomini del Rinascimento e finanche dei grandi d’evi più antichi. Paragoni che vivono, non sull’umiltà d’una coscienza impari, bensì sull’impudica, sfrontata certezza d’una coscienza assolutamente paritaria. Per restare al già citato «Amor vincitore», venuto a Napoli da Berlino, la sofferenza del Caravaggio non sta nel dubitare di reggere ai nudi della Sistina o agli strumenti musicali che la «S. Cecilia» di Raffaello si trova deposti ai piedi, gli uni e gli altri così golosamente, così clamorosamente visti, capiti, accolti ma poi, subito, rifiutati, anzi vomitati ed espulsi dal proprio corpo; sta nell’accettare, come fato suo proprio, quella sfrontatezza; e, soprattutto, nell’accettare il vuoto, inane a assoluto, che, subito, dopo l’esecuzione dell’opera, sembra aprirsi davanti a lui; come se ogni volta fosse l’ultima. Questo, finché, a furia di rapine operate sulla realtà, sulla storia e su sé medesimo, la volta sarà finalmente, e per davvero, l’ultima.

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Forma-azione

L’irripetibilità, e l’irrimediabilità, del «vero» caravaggesco, e della connessa cultura, risultano così atrocemente elementari. Non ammettono compiacenze. La coscienza della forma, in Caravaggio, non può stare altrimenti che nel suo realizzarsi; ma nel suo realizzarsi come se volesse distruggersi proprio e in quanto forma d’uno stile ed essere, invece, qual è l’enorme, povera, superba e derelitta realtà dell’universo in cui era stato espulso e in cui doveva pur respirare, vivere, agire e morire. La forma del Caravaggio risulta così azione; ma tale azione risulta, altresì, la sola coscienza possibile che dell’esistenza l’uomo può darsi e può, dunque, in qualche modo formulare. Tutto si passa in una velocità di tempi e di spazi che non lascia margine a niente che non sia il se stesso di quel preciso soggetto; dunque, di quel preciso dipinto. Mi pare che solo questo può permettere d’enucleare una formulazione, non troppo lontana e non troppo impropria, della sua pittura; e stabilire altresì i termini meno impropri per decidere dell’autografia, o meno, di un’opera. È alla luce, e alla tenebra, di questa verità eternamente attimale, o attimalmente eterna, non intuendo la quale ben poco può capirsi di che sia stata la rivoluzione del Merisi, che risulta, ad esempio, lecito dire come il problema relativo alle «Nature morte» dipinte nella bottega del Cavalier D’Arpino (problema magistralmente aperto dallo Zeri) non possa venir indebitamente evitato o, peggio, archiviato come van facendo tanti «estetisti» della critica d’arte, nostrana e non, ovvero che l’edizione veramente autografa del «Ragazzo morso dal ramarro», non sia da vedersi nell’esemplare inglese, qui esposto, bensì in quello, incomprensibilmente più diretto, ingombrante e «idiota» che fa parte della raccolta Longhi; ovvero ancora che, pur tenendo conto dello stato di conservazione e d’una pulitura assai prossima al delitto, la «Conversione della Maddalena» di Detroit, è pur essa copia e non già originale. Ed è sempre lo stesso metro, per dir così, istintual-coscienziale che ci assicura dell’assoluta, abbagliante e, insieme, cieca e come urlante autografia delle opere che la Gregori, da anni, in vari studi, è andata proponendo, conquistandosi una serie di meriti e, quasi, del caravaggismo, dopo le fondamentali restituzioni del Longhi, il primato. Non è luogo, qui, a nominarle, una per una. Basti forse citare, perché risulta la vera e propria rivelazione della mostra, il «Cavadenti», di proprietà delle Gallerie fiorentine, in deposito, ora, a Palazzo Montecitorio, che davvero non sembra sede per lui. Questo scorticante ed arso capo d’opera, in cui Caravaggio riprende e reinventa per tutti i pittori a seguire la «scena di genere», ma bruciandoli poi tutti, in quanto, più che d’un episodio di primitiva odontotecnica, sembra trattarsi d’un atroce, efferato assassinio, d’un turpe finale gesto di braccaggio compiuto da matrigna-la-morte, o la vita, che ora, e per davvero, fan lo stesso, sembra a noi porsi come un vero e proprio «test» per rassicurarci di chi abbia capito che sia stato, e sia tuttodì, il grande fuggiasco di Lombardia e di chi, d’averlo capito, finga; continuando a mettere in uso, per lui, proprio quelle misure formalistiche che lui aveva vissuto per distruggere. Aveva vissuto ed era, poi, così tragicamente morto. Ora, se con uomini come il Caravaggio poco lecito è scherzare, o sbagliarsi, quando si parli di vita, turpe e blasfemo è farlo quando si parli di morte: e del suo dopo.

I Lunedì di Casa Testori. Ep. 21

Enea, Dante e la urban art. È il percorso affascinante che la città di Pomezia ha avviato e che verrà raccontato nella prossima puntata dei Lunedì di Casa Testori. Il progetto si chiama “Sol Indiges. Arte pubblica a Pomezia tra mito e futuro”: attraverso un programma di interventi di Urban Art, nell’intento di riannodare il filo della storia contemporanea di Pomezia con il mito delle origini: Sol Indiges è il nome del santuario dedicato al dio Sole progenitore di tutte le cose, sorto nel luogo dello sbarco di Enea alla foce del Numico nelle campagne limitrofe all’attuale Pomezia ed è anche l’epiteto con cui i romani indicavano il loro eroe fondatore.

Protagonisti del progetto due tra i più importanti street artist italiani: Agostino Iacurci e Ivan Tresoldi. Nella puntata il progetto verrà presentato dal curatore, Marcello Smarrelli con Agostino Iacurci, Simona Morcellini, assessore alla Cultura di Pomezia, e Federica Colaiacomo, archeologa, direttrice scientifica del museo archeologico di Pomezia. I reperti del museo sono stati tra le fonti di ispirazione per il grande lavoro realizzato da Agostino Iacurci, che lui stesso racconterà durante la diretta. 

Al posto della consueta lettura di uno scritto di Testori, la puntata verrà chiusa da Aurelio Picca, scrittore, con un intervento sulla figura di Enea.

La pagina ritrovata della “Gilda”


di Nicolò Rossi

Può capitare, nell’immutabile vita scritta di un libro, che si riaprano alternative. Può capitare che un libro si ricordi, come in sogno, delle possibilità che non ha avuto. Basta che riemerga un foglio da una prima stesura, stralciato dall’autore e mai arrivato in stampa. Lo scopriamo ora, nell’archivio depositato a Casa Testori, e riporta un diverso sviluppo per il racconto della Gilda del Mac Mahon, Sì, ma la Masiero…. Accade così che mentre Dino raccoglie i frantumi delle amate fotografie strappategli dalla cattiveria del Luciano, verso il giardino di via Spagnoletto, arrivi un taxi. E che, dal taxi, scenda proprio lei, la Masiero! Lui la vede, non visto, salire in casa; e immagina che lei, ora, si svesta… La Masiero, nel testo andato in stampa, «non era arrivata». A Dino era rimasta la beffa, e «tutto, per quella sera, fu chiuso». Fino ad oggi.

I Lunedì di Casa Testori. Ep.20

Puntata 20, lunedì 5 aprile ore 21.15

Si chiama Balena Project. Una balena che per Claudia Losi diventa un’idea fissa nel 2004. Da quel momento prende il via un’impresa attorno al corpo itinerante di una balenottera comune, ricostruito in tessuto di lana grigia a grandezza naturale. Un progetto affascinante e poetico, un’entità viva che oggi è diventato un libro d’arte costruito a più mani, The Whale Theory, capitolo conclusivo di questo viaggio. Claudia Losi racconterà questo suo viaggio ai Lunedì di Casa Testori, insieme a Petra Aprile e a Silvia Bottani, che hanno lavorato al progetto.

Aprirà la puntata Federica Fracassi con la lettura di uno dei più belli articoli di Testori, dedicato all’angelo di Lorenzo Lotto nel Polittico di Ponteranica. Un modo per festeggiare il Lunedì dell’Angelo.

Mater Strangosciàs, la Pasqua come un’alba

di Sandro Lombardi

La Maria di Nazareth di Mater Strangosciàs si presentava in scena su una sedia da cucina dichiarando la sua umiltà e scusandosi d’essere “del recitar poco praticata”. Il passaggio tra Erodiàs e Mater Strangosciàs, che avevamo portato in scena in un unico spettacolo, è segnato dalla specularità di due modi diversi d’amare: è la disperazione che si fa speranza, la morte che si fa resurrezione. Certo, nel cuore delle due donne impera un amore così grande e totalizzante da rendere impossibile qualsiasi forma di appagamento. Erodiàs non riesce a compiere il doloroso e impervio passaggio a una diversa visione del sentimento di cui è simbolo la disponibilità di Maria, che tocca una commovente umiltà di eloquio per mezzo di una lingua che si spinge a esprimere perfino complesse concezioni teologiche. 
Quando, verso la fine del suo lamento, Maria invoca l’angelo perché torni a visitarla e a portarle un po’ di calma e consolazione, questi le dice che «dal dolor più desperado… può surgere un senso, o anca insolamente, ‘me vorevi una sensada…». Sta forse qui la verità dei Tre Lai. Come nella “Ricerca” proustiana o nella “Commedia” dantesca, il viaggio in tempi e in luoghi perduti, e il lavorio dedicato ad una definizione psicologica e a una teoria dell’amore, spingono ancor più lontano: alla ricerca, appunto, del senso stesso, nella vita umana, dell’amore e del dolore. Così dopo l’ora «tramontaria e funerizia», barbara e tragica della Cleopatràs, Erodiàs mi parve un dramma notturno e Mater Strangosciàs una “aubade”, quel tempo muto e sospeso d’attesa dell’alba che gli spagnoli chiamano “madrugada”. 

Te penset verament, / o me sul / e me turment, / che sia no tutta ‘na gran bala / ‘na trumbada, / un culp de vent / disèmel su ammò: / una ciavada? / No, / no, / mia mater cara / o forse, sì. / Me stesso / mo’ me dobbio de più ammò / pei verba megliamente, ecco, sentire / mentre che dalla bocca sua / stanno per sortire. / A dila inscì, / o mater / – fa el mio gran figlio / redotto ‘me vedete ad un lenzuolo / sanguinanto de giaciglio – / a dila inscì / la par ‘me insugnada, / ma la vita / – nissuno mei de mi / l’ha forse comprendata – / la vita, sì, / l’è ‘na ciavada, / te vedet ben / ‘me la mia / la s’è tutta inscì increpada; / ciavada, sì, / o mater; / ciavada, sì, / o gent; / ma, propri / cunt del diu et om / la ‘sassinada, / la s’è, eccuta, vultada, / intrega la s’è ella illuminada, / da restà semper, sì, / ciavada, / ma resurrezionada. / Plus la ciavada / intrega de dulur l’è fada / et plus la resurrezziun / l’è tutta innamurada. / E cusa l’è infin / e in poera muneda / ‘sta gran trasfurmaziùn? / Me stessa provo a pitturarlo, / io me e ben de sola / perché l’è quest / che cunt la crapa / del to cusin in man / l’Erodiàssa destruttata dai affan / la speccia de savé… / L’è cume un vìssi / – e fermum se me sbagli – / che el Diu, / lu, propri lu, / l’ha mettù / dedent de la magna creazion; / l’è un vìssi, un vermeno, / un virùs: / quel de vurè durà ‘me lu / in dell’eternità di stel, / di nigur / et anca, eccu, del su, / benché, dopo la scendera e la brina / dei cimiteri giò, in la cantina / el tut el pararès / pussibil no. / El gh’è ‘sto virus, / o cara gent de tutta la platea, / et anca te, Cleopatrassa / suichida d’esser lassa / del potere, / anche in dei bulbi al ghè / de lur, i ciclam, / el gh’è anca in di verz, / in di pes, in di vulp / e in la castegna; / el gh’è anca in di luf, / nei legur su, della Civenna, / e in di ursi di furèst / del gran Sempiun. / L’è ‘me ‘na forza, / ben plus de quella elettriga, / che, quand el mument giust / el riva, / d’un bot da sé e in sé / intrega la se pizza / senza bisogno de meccanica perizia / e tut l’immano nient / urbis et orbis / devien, ecco, ‘me luminaria natalizia. / L’è / – fam truà su, / o me sudari, / el verbum justum / et, come podo, esplicativo… / L’è, eccuta, / la cecità che riva, / el sé de sé a luminare / e splendorare. / L’è un’ansia, / l’è un s-ciuppun, / l’è, eccuta, un magun / dedenter de la palta / cont la de cui / ‘me tanti Adami / el Diu ci ha costruttati / con le mani; / l’è la strada de dulur / e d’agonia / per rivà / ti a cà tua, / mi a cà mia; / l’è la granda del pater / nostalgia; / l’è la superbia, / tutta sburlandada, / la carità in persona / e personada; / l’è tut e el nient: / l’è la carezza / – disemel cunt la zeta / per dar al tutto / el luch d’una squalche teologhia – / l’è la carezza / la plus clara / che quand dent in la cassa / gh’è pu de viv nigotta / la me fa diventà / ammò carna viventa / et, eccuta, pigotta. / Parli di resurreziun, / o me sudari, / o gent, / e de piang / invece de gioir / me vegn in ment…