COLLASSO ANALITICO

Giulia Bruno e Micol Roubini
A cura di Daniela Persico
Casa Testori
4 Maggio – 5 Giugno 2021

COLLASSO ANALITICO
Daniela Persico

Il varcare la soglia di Casa Testori è intrinsecamente legato alla memoria di una frase che per lungo tempo ha troneggiato nell’atrio d’ingresso: una citazione di Giovanni Testori che non solo lasciava trasparire in maniera evidente quanto l’uomo e l’arte a cui ha dato vita (come scrittore, drammaturgo, artista e critico) fossero legate in maniera indissolubile, ma anche la premonizione che quelle parole del passato interrogassero in modo decisivo il nostro futuro. Sulla parete stava scritto: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere, e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa. Si fanno queste puntate verso l’esterno – che possono anche essere violente, distruttive – ma poi il ritorno a casa dà all’esperienza stessa di quell’uscita un calore indicibile. Perché ritornare non vuol dire affatto dimenticare, non vuol dire scrollarsi di dosso la violenza e la distruzione. Vuol dire solo entrare in un luogo che accoglie, che riceve quel dolore e quella cattiveria, dando loro un senso…”.
Casa Testori è dunque un luogo che porta con sè questa memoria, un luogo di senso, come lo furono un tempo le case di famiglia, anche quando la severità traspariva nelle geometrie planimetriche e la quieta eleganza veniva nascosta sul retro tra le meraviglie feconde di un giardino. Ma al contempo rimanda a un viaggio interiore, a un movimento, una dialettica tra l’io delle mura e quello che vi fa ritorno. In questo iato, ancora conciliabile per Testori (grazie alla centralità di una famiglia e di una fede), sta la sfida dell’artista contemporaneo, disperso in un’Europa che si finge unita e incerto sul luogo in cui riconnettersi, per iniziare a ricordare. 
Collasso analitico, un percorso in fieri e un’indagine a porte aperte più che una mostra, raccoglie il lavoro di due artiste cosmopolite, Giulia Bruno e Micol Roubini, entrambe nate a Milano ma con radici che le hanno portate altrove. Giulia Bruno, da anni collaboratrice stretta di Armin Linke, ha attraversato il globo alla ricerca di un’utopia legata alla sua storia familiare: l’esperanto, un tempo lingua capace di riconnettere diverse nazioni varcando le frontiere, poi lingua della resistenza, che rinasce in paesi non allineati creando nuove comunità in nome di un progetto di universalismo. Micol Roubini parte dall’antica fotografia di una casa e una lista d’oggetti: le testimonianze più care conservate nell’appartamento milanese di un suo nonno, scappato dall’Ucraina in seguito allo sterminio della propria famiglia, prima in Russia, per poi arrivare in Italia. Saranno questi pochi documenti a guidarla attraverso l’Europa, fino all’Ucraina occidentale, in un paese che in cent’anni ha cambiato cinque volte identità nazionale e che ora attraversa una delicata fase di transizione. Ancora una volta, finite le spinte euforiche di nuovi assetti politici, si torna a interrogarsi sulla fine di un’utopia (quella novecentesca), le cui macerie impongono una presa di consapevolezza per leggere il nostro ruolo nel presente. Ci vuole dedizione e analisi, sembrano suggerirci i lavori delle due artiste (tanto diverse nei risultati, quanto simili nelle metodologie di lavoro): bisogna lanciare delle sfide ambiziose e affrontarle con la giusta modestia, bisogna prendersi il tempo di cercare e offrire lo spazio all’altro per raccontarsi, a volte serve inventarsi una nuova lingua, altre volte recuperare una lingua madre da sempre soffocata. Il campo entro cui tutto avviene è quello dell’immagine in movimento, la più forte nel mettere a tema la relazione tra chi filma e chi è filmato, in grado di segnare un viaggio nella scoperta del mondo per imparare a definire (seppur per un attimo precario) se stessi. 

Continua a leggere

COLLASSO ANALITICO. ISTRUZIONI PER UNA VISITA
Elena Gervasoni 

Varcare la soglia di Casa Testori, qualsiasi sia l’occasione che ci spinge lì, significa sempre fare ingresso in una casa – quella un tempo abitata da Giovanni Testori e dalla sua famiglia –, prima ancora che in uno spazio espositivo. Ed è proprio sull’atto di entrare nella casa, che si vorrebbe suggerire di portare l’attenzione al visitatore che approfitterà degli ultimi giorni di apertura della mostra Collasso analitico per una visita. Sarà idealmente come ricalcare i passi del padrone di casa, compiuti a centinaia e centinaia nel fare ritorno alla propria abitazione, ricevendo ogni volta un “calore indicibile […] da quel luogo che accoglie” – questa l’espressione con cui Giovanni Testori descriveva il rientro in famiglia, come ricordato dalla curatrice Daniela Persico in apertura di catalogo.
Traguardata la soglia, dunque, si vorrebbe suggerire al visitatore anche un’altra accortezza: quella di trasgredire il corretto ordine di visita della mostra per come indicato nella planimetria presente nel foglio di sala (dove la progressione numerata delle stanze lo vorrebbe iniziare nello studio a destra dell’ingresso e concludere nella sala da pranzo alla sua sinistra).
Se si fida di chi scrive, provi invece a collocarsi da subito a metà del percorso, nella sala n. 6, cioè alla base delle scale: qui è il centro della grande dimora, dove idealmente si saldano le due ali del piano terra, così come i livelli inferiore e superiore della casa (ma anche gli spazi interni delle varie stanze e quelli esterni del giardino). In questo punto, se sosterà qualche secondo, il visitatore avrà percezione istantanea del “collasso analitico” messo in atto dalle due artiste Giulia Bruno e Micol Roubini: avvertirà infatti, non c’è dubbio, la babele di voci e linguaggi che provengono dai protagonisti delle video-installazioni collocate nelle stanze attigue (cantina compresa) e che lì convergono e si mescolano tra loro, abitando lo spazio domestico che li accoglie. Come per sinestesia, i suoni si rifletteranno nelle tavole di rappresentazioni visive dello spettro dei segnali audio, adagiate da Giulia Bruno accanto alla libreria testoriana, proprio alla base delle scale.
Per un attimo, forse, la messe di fonemi per lo più indecifrabili provenienti dai video, alternati all’abbaiare rabbioso di un cane, proietterà il visitatore nella condizione di smarrimento che prova chi, emigrando, perde casa e lingua e vaga nel mondo mendicandone di nuove, nella speranza di trovare almeno una vaga rassomiglianza con l’una e con l’altra delle sue radici identitarie.
Sarà allora chiaro che il tema centrale dell’esposizione è la riflessione sul linguaggio come fattore di esperienza – e non solo di conoscenza – , quel “[…] battere della parola verso la possibilità di esistere, di dire, di essere cosa, non più un’allusione, ma una realtà concreta, reale e totalmente incarnante” (ed è ancora l’eco di Giovanni Testori, che riverbera dalla sala n. 10, la veranda, dove Giulia Bruno presenta l’estratto video di un’intervista allo scrittore sul tema del suo linguaggio teatrale).
Percorrendo poi tutte le stanze che gravitano attorno a questo centro ideale, il visitatore scoprirà di volta in volta come il linguaggio si intrecci, nei lavori delle due artiste, ai temi della memoria, del senso di appartenenza ad una comunità e, dunque, della costruzione di identità personale, sociale e politica: il “linguaggio come casa dell’essere”, per dirla con Martin Heiddeger – con un’espressione sorprendentemente simile a quella scritta su una parete della sala n. 1, lo studio, in cui si legge: “Al di là della tecnica, al di là dell’immagine, si è attraversati da utopie. Possa la lingua essere la nostra casa.”
Sotto questa sorta di invocazione scritta a muro, nello studio appunto, quattro teche raccolgono i materiali personali da cui Giulia Bruno e Micol Roubini – nate entrambe in Italia ma con radici familiari che le hanno spinte in direzione cosmopolita – si sono fatte ispirare per la loro ricerca artistica, (rivelando come comune punto di partenza la figura dei rispettivi nonni): per Giulia Bruno appunti di viaggio su taccuini, fotografie familiari, alcuni libri di Pasolini ed Eco, ma soprattutto i manuali tecnici della Fiat stampati negli anni Sessanta in esperanto – la lingua franca di molti operai attivi nella Torino del Boom economico, tra cui proprio il nonno dell’artista; per Micol Roubini una fotografia datata 1919, che raffigura la casa d’infanzia del nonno materno a Jamna, sul confine tra Ucraina e Polonia, e i fogli di via della dogana polacca e italiana del 1957, anno in cui la famiglia si trasferì dall’Unione Sovietica in Italia.
Da queste premesse si dipana, nel resto delle stanze, l’insieme di lavori delle due artiste (per lo più video-installazioni) metodologicamente affini per l’esigenza condivisa di dare corpo al linguaggio, attraverso l’immagine, eppure diverse nei risultati cui approda il loro lavoro: nel caso di Giulia Bruno un processo analitico di riflessione metalinguistica sulla fenomenologia del linguaggio come tecnologia; per Micol Roubini, invece, un atto poetico che marca la fragilità della memoria e il nomadismo fluido della lingua.
Volendo chiudere con lo stesso gioco di simmetrie tra la casa e le opere con cui si era aperto, si ricorderanno qui solo due altri lavori, uno per ciascun’artista, posti idealmente agli estremi della diagonale N-S della dimora testoriana: nella sala del camino, 23.500 grammi di Micol Roubini è il plico di 1287 fogli di carta velina – materiale povero da imballaggio e per trasporto di oggetti – che poggia su una sottile lastra di ferro, quasi a emulare il ripiano di carico di una pesa; il titolo rimanda alla misura esatta del peso mancante degli oggetti che, tra quelli che il nonno di Roubini portò con sé dalla Polonia in Italia registrandoli nelle diverse dogane con una lista numerata, non arrivarono mai a destinazione. Adagiati sulle pareti della stessa stanza sei display metallici sorreggono altrettanti fogli di carta velina intagliati in modo tale da far emergere in negativo le Glossolalie, cioè le traduzioni (non più biunivoche né corrispondenti) in russo, polacco e italiano dei nomi di alcuni di questi oggetti, il cui significato sbiadisce così nell’ombra che l’intaglio della velina proietta sul muro retrostante.
All’estremo opposto della casa, nella veranda, Giulia Bruno presenta invece l’inesausta ricerca dell’Atlante Linguistico Italiano, una raccolta ordinata e sistematica di carte geografiche italiane, sulle quali sono riprodotte, per ogni località nazionale esplorata (chiamata “Punto”), le corrispondenti traduzioni dialettali di un concetto, di una nozione o di una frase, raccolte dalla viva voce dei parlanti grazie al lavoro avviato in epoca fascista da Ugo Pellis e oggi proseguito dal Professor Matteo Rivoira dell’Università degli Studi di Torino.

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Giulia Bruno

Trovare uno spazio, una forma, un contorno in cui collocarsi e sentirsi “appartenenti a” diventano un momento decisivo in cui la definizione e la non definizione danzano incessantemente insieme.
Il mio posto è da sempre l’immagine.
L’immagine del perduto, l’immagine non trattenuta, l’immagine che nasconde il senso o che lo rincorre, l’immagine che mi ha portato nel mondo e che mi richiama agli interrogativi quotidiani. Origini, senso, lingua, potere, economia, mercato, identità e cultura.
Viviamo in un mondo in cui la separazione semantica confonde così come l’autodefinizione. Artista, biologa, fotografa, filmmaker o semplicemente me.
La tecnologia, i processi, lo spazio città, lo spazio umano, il linguaggio come tecnologia, come paesaggio artificiale o naturale, il confine come infinito o come limite sono da sempre le domande della mia ricerca e dei miei processi. Come a non contenere, ad allargare, ad andare oltre per poi tornare a decostruire.
L’immagine come forma di ridefinizione di un bordo che scivola di continuo alla ricerca di una narrazione che rimane sullo sfondo: il rumore della vita.
Vivo a Berlino da molti anni e in tutto questo tempo la sete di conoscere mi ha portato in tutto il mondo grazie anche alla lunga collaborazione con Armin Linke e Giuseppe Ielasi: foresta nella Amazzonica, in Papua Nuova Guinea, in Indonesia, in Jamaika, in Corea alla ricerca di un processo, della scoperta del meccanismo funzionale delle dinamiche sociali, insaziabile in una sorta di viaggio Ulissiano, forse ora anacronistico.Sono rimasta affascinata dalle dominanze politiche ed economiche e da come questo agisce anche sulla lingua attraverso lo scambio, una lingua franca, un processo particolare o universale, la pubblicità, l’immagine.
Ho amato e seguito l’esperanto questa meravigliosa lingua che si pone come un diritto linguistico di uguaglianza, di trascesa di ogni confine e ho viaggiato per essere in conversazione con i parlanti la Lingua, con il pensiero, con le radici di un sogno e con il reverse nella società e con le implicazioni e le difficolta anche qui di definizione e di contenimento.
In un mondo globale dove internet e il flusso di dati sommerge e nasconde come si difende un diritto? Come si accede ad un’uguaglianza diffusa? Come si diventa cittadini di un mondo? Dove rimane il non scoperto e il non visto?

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Micol Roubini

Lavoro come artista con film, video, installazioni sonore e materiche, che si collocano tra arte e cinema. La mia pratica è strettamente legata all’esigenza di indagare la complessa rete di relazioni e processi che si instaurano tra l’uomo e il territorio che questi abita. Il mutevole equilibrio con cui, attraverso una lingua, una cultura, un sistema economico o delle strutture sociali, prendano via via forma l’idea stessa di spazio, di paesaggio o i confini di uno stato. Il rapporto specifico tra un dato luogo e l’insieme di tracce e frammenti di storie che ne costituiscono la memoria e al tempo stesso i rimossi.
Mi interessano i territori ai margini, considerati tali da un punto di vista percettivo, prima ancora che geografico, in una riflessione che nella mia ricerca prende avvio quasi sempre da una o più rappresentazioni del “reale”: se il punto di partenza è almeno in parte documentario tuttavia l’opera finita non ricalca la realtà, ma è piuttosto il risultato di un lungo processo di mediazione e contaminazione tra diversi ambiti. Questo scarto, che in alcuni casi è lieve in altri è più marcato, mi lascia la possibilità di dar voce attraverso immagini, suoni, o narrazioni più strutturate, anche all’inaspettato, al fantastico, al surreale e sono le specificità di ogni singolo progetto a definire i mezzi con cui questo verrà sviluppato, non viceversa. Sempre mantenendo attiva questa specifica modalità di ricerca su più fronti, negli ultimi anni mi sono focalizzata maggiormente sull’aspetto filmico. Quello che mi ha sempre affascinato e che è una delle sfide maggiori nel cinema, è la potenza cui quello che in fin dei conti non è altro che un processo di sintesi, può arrivare. Si è all’interno di una struttura circoscritta, con delle regole interne di fruizione ed un preciso arco temporale, tuttavia l’esperienza di questa nuova realtà è in grado di riportarci al mondo con una maggiore consapevolezza, di alimentare il nostro spirito critico e, a volte, di provare a dare un senso al nostro agire.

Collasso analitico chiude Pocket Pair, un ciclo di mostre coordinato da Marta Cereda avviato da Casa Testori nel 2018. Il titolo del ciclo riprende un’espressione del gioco del poker che indica la situazione in cui un giocatore ha due carte, di uguale valore, e deve scommettere su di esse. Allo stesso modo, i curatori scommettono su talenti emergenti, due artiste/i dal pari valore, per dar vita a una bipersonale di elevata qualità, allestita al pian terreno di Casa Testori dove sono liberi di incontrarsi, anche all’interno delle singole stanze, di farsi visita, di dialogare da vicino.

Vai al bookshop

Posted on: 16 Aprile 2021, by : Alessandro Frangi