Month: Marzo 2020

Giovanni Pastori, AUTORITRATTO CON GATTO

La grande parete del convento presentava alla città un autoritratto molto diverso da quello dell’anno precedente.  L’autore è un giovane artista e illustratore molto apprezzato in Italia e all’estero, segnalato da Forbes come uno dei giovani under 30 più promettenti. Le sue immagini, apparentemente semplici e giocose, talvolta nascondono, per timidezza, il loro significato. È il caso di questo autoritratto in cui l’artista si è rappresentato come un ragazzo dalla corporatura molto forte, ma impegnato in un atto molto dolce e innocente, quello di prendersi cura di un gattino. Proprio quest’unione tra forza e dolcezza è il senso del lavoro, che vuole sottolineare come la dolcezza sia in realtà una grande forza. E come l’accoglienza del debole sia il vero gesto eroico del nostro tempo. Il volto non è rappresentato, perché l’immagine è sì autobiografica, ma quella che racconta è una storia di forza e dolcezza che chiunque può far propria, magari in un momento preciso della sua vita.

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L’OPERA

Autoritratto con il gatto, 2017, wallpaper

Contexto 2017

Massimo Uberti, TRACCIAR DI LUCE

Si può disegnare con la luce? Massimo Uberti lo fa da anni, grazie alla duttilità dei neon, plasmati con i propri artigiani per creare sistemi perfetti, in cui nulla distragga il nostro occhio dallo scorrere della linea nello spazio. Ma disegnare cosa? L’autore sembra interessato a restituirci, innanzitutto, quello che pensiamo di possedere già: oggetti quotidiani, banali quasi, come una scala o due cavalletti. Eppure, nel ridarcene la forma essenziale, capiamo che anche negli oggetti più consueti c’è qualcosa di straordinario, ed è la poesia della forma. La poesia delle cose che, alleggerite fino all’essenziale, diventano capaci di restituirci qualcosa che travalica la materia stessa. È così che Uberti crea dei microcosmi, delle stanze che sfondano le stanze, in cui una finestra, evocata con poche linee sulla parete, apre la nostra mente a un paesaggio da cercare nel nostro immaginario.

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Contexto 2017

Atelier dell’Errore, QUI ENTRIAMO IN SILENZIO, TUTTO PARLA GIÀ TANTO

L’Atelier dell’Errore è un laboratorio di Arti Visive progettato da Luca Santiago Mora per la Neuropsichiatria Infantile. Una terapia? Sì, ma soprattutto una fucina di giovani talenti che crea opere d’arte, grandi disegni di animali, ma non solo. Chiamati a lavorare su uno spazio così denso e teso come le Carceri di Edolo, la voce di Santiago Mora non ha avuto dubbi: «Qui entriamo in silenzio, tutto parla già tanto, e tutto quel che è detto è scritto. Porte, maniglie, polvere, muri, tutto quello che è normale è diverso, qui. Vien da parlare sottovoce, come in chiesa». Un luogo in cui poter apporre solo un video, un insetto che cerca di liberarsi, e, nella stanza opposta, un altro piccolo animale, poco più di un punto nero. Metafore, certamente. Come quella scala trovata in loco, già perfetta sotto quella lunetta per evocare una fuga desiderata e possibile.

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LE OPERE

Nella cella femminile: Luca Santiago Mora per Atelier dell’Errore, Yogin, video HD, 3’, 2016
Nella cella maschile: Nuru Atelier dell’Errore, Accidia, grafite, cartoncino nero, velluto, 2016

Contexto 2017

Federica Calzi e Laura Ghigliazza, INTERLUDIO

Due giovani fotografe hanno ripreso il filo dell’autoritratto femminile, in una terza variante, dopo il racconto di Giulia Riva e il rapporto materno espresso dalla performance di Daniela Peracchi. Non a caso si era scelto di proporre il loro lavoro in vetrina, esaltando una caratteristica interna alle foto stesse. Sono espressione, infatti, di un vero e proprio filone, che ha molto influenzato la fotografia di moda, e se ne è lasciato influenzare. Le due ragazze si sono fotografate a vicenda e, ad accentuare questo sistema di doppi, è intervenuta la loro somiglianza d’aspetto, che le rende quasi indistinguibili. Colpisce la bellezza formale delle ambientazioni, belle nella loro affascinante decadenza. Sono giardini botanici, vecchie case patrizie e architetture industriali abbandonate, che diventano non tanto uno spazio in cui agire, ma una superficie cui aderire, in un tentativo mimetico, quasi di compenetrazione diremmo, che sembra l’unico rapporto possibile da intrattenere con ciò che amiamo.

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L’OPERA

Interluido, 2017, fotografia su vetrofania

Contexto 2017

Marco Pariani, ONLY BIO THINGS

«Egoismo, routine, comodità, credo religioso, status symbol, usanze tramandate, sono solo alcune delle parole chiave che utilizzo per creare cicli di opere». Marco Pariani è un pittore informale, certamente, ma non astratto. E non solo per la possibilità di rintracciare nei suoi dipinti forme note di oggetti o ambienti, ma perché a emergere prepotente sulla tela è la trama di una vita vissuta, riconoscibile come sua e nostra. Il lavoro che ha presentato è un’installazione complessiva fatta di grandi tele ma anche di tessuti che si arrampicano sulla parete per affrontare il tema della routine al centro oggi della sua ricerca. L’abitudine è un gesto inconsapevole ma non passivo, in cui anneghiamo vizzi e virtù, squallori che forse non dovremmo accettare e bagliori che dovremmo ricominciare a guardare. 

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LE OPERE

Poop on the stairs, 2017, acrilico e vernice spray su tela, 250×200 cm
Senza titolo, 2017, zerbini e materiali vari su tessuto, 306×486 cm 
Urine on the stairs, 2017, acrilico e vernice spray su tela, 250×200 cm

Contexto 2017


Carlo Alberto Rastelli, PET SEMATARY

«Nelle sterminate foreste della Lettonia nascono i miei lavori su tela, in cui astrazione geometrica e figurazione si compenetrano in un gioco di continue stratificazioni, realizzate con stesure piatte di colore acrilico. Dai piccoli teschi di animale dipinti a olio deriva invece il titolo della serie, ispirato all’omonima canzone dei Ramones». 
Rastelli è un giovane pittore estremamente consapevole del suo percorso, capace di narrarsi, di farci entrare nella sua pittura con dovizia di particolari e riferimenti, individuando i suoi maestri, Gustav Klimt a Peter Doig, e facendoci muovere sulla superficie della sua tela con la stessa grazia lenticolare che le ha create. Eppure il non detto è la parte migliore della sua opera, e le domande che ostentano questi volti, sono l’inizio di un viaggio tutto da intraprendere e degno di un film di David Lynch.

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LE OPERE

Pet sematary #6, 2017, olio e acrilico su tela, 100×100 cm
Pet sematary #7, 2017, olio e acrilico su lino, 100×100 cm
Il petroliere, 2017, olio e acrilico su lino, 80×120 cm
We only come out at night, 2014, olio, acrilico, foglia oro e inserto in carta su tela, 120×160 cm

Contexto 2017

Alex Urso, A STUDY ON THE LAST JUDGMENT OF HANS MEMLING

È un polittico composto da 8 collage in cui si fondono due immagini: i dannati del Trittico di Danzica, ossia il Giudizio Universale dipinto da Hans Memling intorno al 1470, e alcune immagini di piante e fiori ritagliate da un’enciclopedia sul mondo vegetale. Il Trittico di Memling era stato dipinto per l’Italia ma, razziato dal corsaro Paula Benecke, è conservato da sempre a Danzica, la città che da qualche anno accoglie l’artista marchigiano che vi ha reso omaggio. Le fiamme sono sostituite da fiori e i diavoli torturatori possono contare su strumenti arborei che hanno perso la loro valenza decorativa e sentimentale. Come spesso accade nel suo lavoro, il collage diventa uno strumento espressivo tridimensionale, accentuando la corporeità dei soggetti. 

L’OPERA

A study on The Last Judgment of Hans Memling, 2016

Contexto 2017


Lara Ilaria Braconi, IMMERSIONI

«I quadri sembrano astratti, ma non lo sono affatto: io parto da quello che vivo, dalla realtà». La giovane pittrice milanese si è esposta al pubblico attraverso due grandi tele, scelte in una produzione recente a rappresentare due facce, cielo e terra, della stessa indagine. Sono immersioni nella natura. L’artista non accetta di stare in superfice e obbliga la pittura ad accompagnarla in un’indagine nella trama della materia naturale, sia essa fatta di foglie o del pulviscolo delle nuvole. «Hanno un sacco di strati questi quadri, un sacco di tempo, come se avessero bisogno di un respiro loro. A volte mi accorgo che sono finiti quando sono lì da un po’. Non ci dipingo più e non so perché, però non ho ancora deciso che è finito: a un certo punto mi accorgo che lo è». È così che il tratto immersivo della pittrice si fa penetrante, violento e suadente insieme. Ilaria non risponde a un’intenzione preconcetta, ma accetta ogni volta di lasciarsi trasportare dallo stesso lavoro di conoscenza intrapreso.

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LE OPERE

A Constable, le nuvole, 2016, olio su tela di yuta e telaio in abete, 170 x 200 cm, collezione privata

Imboscata, 2016, olio su tela di yuta e telaio in abete, 170 x 200 cm

Contexto 2017


Sara Montani, ERBARIO. LE FOGLIE DEL GIARDINO DI LIVIA

Foglie di vite, fico, nespolo, kiwi, melo, pera, gelso, passiflora, vite del Canada, ortensia, glicine, magnolia, edera, felce. Tornano i frutti, e i fiori, attraverso le proprie foglie, per raccontarci una storia delicata ed emblematica insieme. È la storia di Livia, la madre dell’artista, la terza madre d’artista che incontriamo. Ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a trasformare un grande prato, non lontano da Edolo, in un variegato frutteto. Un’impresa che i figli hanno tardato a capire, ma che, grazie alla sensibilità dell’artista, si è trasformata nel più grande dono ricevuto. Negli ultimi mesi, infatti, la malattia ha costretto Livia alla sedia e la figlia Sara, in cerca di un contatto praticabile, l’ha coinvolta nella sua attività. L’ha convinta a lavorare con lei, per trasformare le foglie del suo frutteto in matrici da stampare sulla carta, grazia al torchio. Un lavoro a quattro mani – testimoniato dall’unico foglio appeso su una delle due pareti – che si è evoluto, nella prassi dell’artista, in un ricercato e virtuoso erbario nella parete di fronte. Si colgono così, insieme alle trame vegetali perfettamente riprodotte, le macchie imprevedibili della linfa rilasciata sotto il torchio, «sinonimo, segno concreto e vero, del nutrimento vitale che la mamma ha lasciato in me e nei miei figli».

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L’OPERA

Erbario. Le foglie del giardino di Livia, 2012, stampe originali stampate in monoprint a torchio calcografico, carta Grafia delle Cartiere di Sicilia Foglie di vite – fico – nespolo – kiwi – melo – pera – gelso – passiflora – vite del Canada – ortensia – glicine – magnolia – edera – felce. 30 x 40 cm cad.

 Contexto 2017

Olimpia Zagnoli, SOVRABBONDANO PERE E MELE

Ci salutava, fin dall’imbocco della via, la gioiosa scultura di Olimpia Zagnoli, una delle più amate illustratrici italiane a New York. Un’artista fresca e libera, dal tratto chiaro e limpido, ha stilizzato questi due personaggi fino a farli sembrare due fugaci apparizioni: fantasmini, li ha chiamati qualcuno. Sono spiriti dei boschi, in effetti, o meglio dei frutteti, visto che ergono gioiosi i loro trofei: una mela e una pera, simbolo di una ricchezza concreta che ha sfamato per millenni. È la prima scultura realizzata dall’artista, nata per raccontare uno dei capitoli della storia di Milano di Bonvesin de la Riva, che nel Medioevo ne elenca le meraviglie, le ricchezze appunto, tra le quali i frutti in abbondanza che si potevano trovare in città. A Edolo diventava un simbolo di prosperità e un augurio gioioso per tutti.

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L’OPERA

Sovrabbondano pere e mele, 2015, ferro verniciato a fuoco

Contexto 2017