Untitledfa parte della serie del 2017 Welcome to the Jungle, comprendente 3 collage di dimensioni 40 x 60 cm ciascuno. I lavori mirano a rappresentare il sistema dell’arte come “giungla”, nel quale l’artista è chiamato a districarsi, con particolare attenzione al luogo istituzionale per eccellenza, il museo, quale tempio artistico che simboleggia tutta la fame e il desiderio di successo di un giovane autore, rappresentandone la massima ambizione. Nei tre collage sono rappresentati rispettivamente Guggenheim (New York), National Gallery (Londra) e Maxxi (Roma), immersi in uno scenario naturale. Tutt’intorno sono presenti ritagli di persone estratte da foto raffiguranti il pubblico di un museo. L’idea era quella di riflettere, non senza ironia, sul ruolo dell’istituzione museale, sul suo fascino e sulla sua potenza seduttiva.
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NELLA TERZA STANZA
NELLA SECONDA STANZA
NELLA PRIMA STANZA
TRE STANZE PER UNA GIUNGLA
Giunti al primo piano, la mostra proseguiva nelle cinque stanze della parte destra della casa. Attraversando il corridoio, le tre camere che si aprono a sinistra erano unite da un tema comune: Welcome to the Jungle, declinato dall’artista in altrettante opere, realizzate tra il 2016 e il 2018.
NELLA PRIMA STANZA
Una serie di 15 box, diorami o teatrini magici, creavano una linea continua lungo le pareti. Il visitatore era chiamato a immergersi in questi microcosmi realizzati unicamente con la carta. Ormai non servivano più altri oggetti per mettere in scena questa selva artistica: ce n’era abbastanza tra protagonisti, musei e splendidi cortocircuiti emotivo-celebrali, nati da accostamenti impensabili. Non si trattava solo di un omaggio ai propri maestri, ma di una serie di ex-voto, con i quali Urso chiedeva un aiuto agli artisti che, tra le belve del mondo dell’arte – e della vita – sono riusciti a esprimere la propria poetica, sopravvivendovi. Il filo dei diorami era interrotto su una parete da uno dei quadri più importanti di Giovanni Testori (Crocifissione, 1949), inaspettatamente a suo agio, tra le opere di Urso, non solo perché ne condivide l’affollamento formale e l’antropomorfizzazione della natura, ma soprattutto perché anch’essa esito della metabolizzazione dei propri maestri, da Cézanne a Picasso.
UNA SCALA PER MEMLING
L’opera di Urso era installata in stretto dialogo con la Biblioteca d’Arte di Giovanni Testori, giunta al termine del suo riordino. La grande libreria, posta alla base della scala, raccoglie le monografie degli artisti medioevali e moderni fino al Settecento. L’intervento di Urso fioriva tra i volumi e s’inerpicava lungo la salita al primo piano, rendendo il grande scalone un omaggio al pittore tedesco Hans Memling (1430-1494) e al suo celebre Giudizio Universale, il cosiddetto Trittico di Danzica(1470 circa). Disposti tra i libri, nove diorami restituivano la composizione: dal Cristo giudice – potente tanto da non trattenere la propria forza entro il vetro – alle anime salvate, purganti e dannate. In questi teatrini magici (Stations of the Cross, 2016) le immagini del Trittico acquisivano la terza dimensione grazie ad elementi apparentemente estranei, che li riportavano a una temperie domestica. Nella serie lungo le scale (A study on The Last Judgment of Hans Memling, 2015/2016) la natura si faceva matrigna e, sostituendosi alle fiamme in una funzione tutt’altro che decorativa, non rallentava i tormenti dei dannati ma partecipava alle pene soggettive.
STANZA 6 – NEL “GIARDINO D’INVERNO”
La stanza dipinta da Massimo Kaufmann nel 2014 – coinvolgendo diversi amici artisti a partecipare all’impresa – accoglie l’opera simbolo della mostra. Come due facce della stessa medaglia, i piccoli dipinti, posti al centro in un’intelaiatura lignea, raccontano due episodi analoghi e opposti insieme, tra storia e finzione. L’opera di Samorì prende spunto da una celebre foto che immortala due “Monuments men” nel momento del recupero di un Autoritratto di Rembrandt, occultato dai Nazisti. Fato racconta, invece, un ritrovamento nel segno del fake, e del grottesco: la grande testa è uno pseudo reperto romano emerso su una spiaggia americana, e proveniente dai vicini Studios di Hollywood, dove era stato creato per un colossal storico pochi anni prima.
LE OPERE
Nicola Samorì, Salt, 2013, olio su tavola, AmC Collezione Coppola, Vicenza
Matteo Fato, Senza titolo, 2013, olio su lino, cassa da trasporto in multistrato, Collezione privata
Mauro Maffezzoni e Matilde – i dialoghi della quarantena
Matilde fa la terza media e l’anno prossimo farà il liceo artistico. Siamo chiusi in casa ormai da un mese. Non possiamo né andare nel mio studio a prendere del materiale nemmeno andare in un colorificio perché sono tutti chiusi. Così abbiamo deciso di usare un album che mia moglie ha regalato a Matilde poco prima della quarantena e usare tutti i pastelli e le matite trovate in casa. Ci mettiamo in piedi al tavolo con sopra il foglio e, l’uno davanti all’altra, disegniamo alternandoci come in un botta e risposta. Ora facciamo così quotidianamente. Il titolo della serie è “I dialoghi della quarantena”
Mauro e Matilde Maffezzoni
Mauro Mafezzoni (Rovereto 1960). Vive e lavora a Milano e Cremona
Attraversando Piazza Arbasino

“La «fortuna topografica» dell’Ingegnere pare invero scadente. Un cosiddetto «Largo» a Milano su via Paolo Sarpi, altra Chinatown. E a Roma, nel più profondo Ardeatino, partendosi da una «piazza E. Montale» (da non confondere con una via Montale all’estremo NordEst, accanto a via R. Pampanini, via G. Pasquali, via M. Del Monaco), un desolato cul-de-sac fra i tanti: Pratolini, Fenoglio, Da Verona, ma anche Lorca, Kafka, Joyce, Proust. Ecco perché su radio-taxi si sentono specificazioni per un incrocio Pavese-Vittorini. Gli altri non fanno «civico». (Ma quanti vecchi amici sono diventati strade a cul-de-sac, secondo le Pagine Gialle, mannaggia)”.
È un passaggio memorabile del ricordo dedicato a Carlo Emilio Gadda, l’Ingegnere in blu, firmato, con la consueta pungente e malinconica ironia, da Alberto Arbasino, lo straordinario scrittore scomparso questa settimana a 90 anni.
Se lo ricordiamo qui è perché Alberto Arbasino fu molto legato a Giovanni Testori e lo era stato innanzitutto proprio nel nome di Gadda. Nel 1960, a sei anni da Il dio di Roserio e a ciclo de “I Segreti di Milano” pressoché concluso, un Arbasino in cerca d’ideali compagni di strada, sulle pagine del «Verri» coniava per sé, Testori e Pier Paolo Pasolini, la celebre definizione di “nipotini dell’Ingegnere”, per sottolineare il loro comune debito verso il plurilinguismo di Gadda. Del resto, anche Pasolini aveva dato alle stampe le storie della sua periferia, quella romana, ed erano usciti in quegli anni Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959).
Un mondo, quello del neorealismo, che in pochi anni stette molto stretto a tutti e tre e che, a Testori, era andato in frantumi con l’esperienza de L’Arialda, uno scandalo, ma soprattutto una liberazione per lo scrittore di Novate. Del resto, dopo Le piccole vacanze (1957) e il primo L’anonimo lombardo (1959), per Arbasino, nel 1963, arrivò il tempo di Fratelli d’Italia. Proprio in quell’anno, forse non a caso, spetta a lui registrare quel momento fondamentale di passaggio per Testori: “Mutamenti d’interessi, ripensamenti profondi, ragioni biografiche e i soprassalti d’una fioritura produttiva ricchissima ne fratturano da un paio d’anni la carriera letteraria così significativa e operosa”, scrive Arbasino nell’attacco della sua bellissima intervista a Testori che potete leggere in versione integrale sul sito dell’Associazione.
Del resto, l’amicizia tra i due fu una di quelle che durarono una vita, magari a distanza, sulla direttrice Milano-Roma, fino agli ultimi anni. E non solo in quelli topici in cui Testori lo accompagnava a colazione da Luchino Visconti e sedevano insieme (ufficialmente dal 1962), al tavolo della redazione di «Paragone Letteratura», diretta da Roberto Longhi e governata da Anna Banti. A testimoniarlo – è un ritrovamento proprio di pochi giorni prima di questa chiusura forzata – è una lettera di Alberto Arbasino, conservata nell’Archivio dell’Associazione al primo piano di Casa Testori. È l’ottobre del 1991, Testori è in piena lotta con il male dell’ultima battaglia contro la malattia, ma in cantiere ci sono ancora drammi teatrali e, sulle pagine del «Corriere della Sera», i suoi articoli escono a spron battuto. Tra un intervento dedicato ad Alberto Burri e uno a Keith Haring, s’incastona questa paginetta semplice, poche righe su un fondo carta da zucchero, parole limpide e asciutte, come si addice all’amicizia che l’età ha reso tersa ed essenziale.
A Giovanni Testori la città di Milano ha dedicato un grande giardino pubblico in una delle sue periferie della città, in fondo a Via Mac Mahon, a pochi passi dal Ponte della Ghisolfa, incastonato tra i quartieri di Villa Pizzone e della Bovisa. Niente cul-de-sac, insomma. Quando potremo uscire di casa, e tornare a passeggiare per le vie di Roma, ci auguriamo di poter attraversare, riconoscenti, piazza Alberto Arbasino e, se ci sarà una panchina, ne approfitteremo per riaprire uno dei due “Meridiani” con dedica che acquistammo qualche anno fa, alla presentazione con autore, nel foyer del Teatro Franco Parenti.
Davide Dall’Ombra

LA STANZA SULLA FERROVIA
L’ultimo ambiente del percorso al piano terra propone il confronto tra due opere di impatto molto dirompente. Entrando il visitatore si trova di fronte, infatti, due grandi ceramiche di Bertozzi & Casoni. Giampaolo Bertozzi e Stefano Del Monte Casoni dal 1980 lavorano in società; realizzano sculture spiazzanti in cui la ceramica viene usata per rappresentazioni che ne violentano la natura di materiale delicato e aggraziato. Con “Composizione scomposizione” è un insieme di tubi, raccordi, ruote, rubinetti che suggeriscono l’idea di una funzionalità palesemente non funzionante. È anche una rappresentazione delle regole che si sono accumulate al punto di consolidarsi come coacervi intricati, senza più un capo né una coda. La corruzione nelle opere di Bertozzi & Casoni ha speso preso la forma di cibo che viene “corrotto” dai processi di ossidazione. In questa serie (il ciclo completo di “Composizione scomposizione” è costituito da sette pannelli) invece la metafora è più espressamente rivolta al caos che si scatena in un’organizzazione sociale nel momento in cui le regole vengono alterate. Al centro di entrambe è posto uno scrigno dall’interno dorato, perché non c’è situazione intricata, degradata o opprimente che non possa avere un punto di fuga.
Il nesso con il video di Filippo Berta nella stessa stanza è stringente ed immediato. “Homo homini lupus” è un’opera del 2011 ed è stata presentata per la prima volta al Madre di Napoli. Berta prende alla lettera la celebre espressione di Plauto che divenne concetto base della filosofia di Thomas Hobbes. In uno scenario lunare da fine della Storia, un branco di lupi si accapiglia con ferocia attorno a una bandiera italiana. Il pezzo di tessuto viene addentato e strappato con violenza, ridotto impietosamente a brandelli. Il video può essere letto come a metafora brutale di un consesso sociale in cui prevale la logica della prepotenza e che quindi calpesta anche quello che dovrebbe essere un simbolo collettivo, come la bandiera nazionale. La corruzione è una forza negativa che distrugge le relazioni. Porta aperta alla violenza, anche se subdola e non esplicita e a suo modo “sincera” come quella di questi lupi che si disputano la bandiera.
LA STANZA SUL GIARDINO
Due fotografi che propongono un identico dispositivo espositivo: coppie di foto in evidente dialettica tra di loro, ma in non così evidente relazione. Una celebre foto di Letizia Battaglia di un delitto di mafia, “I due Cristi” del 1982, va in rotta di collisione con un’altra immagine che documenta la beata indifferenza dell’alta società della città che festeggia il Capodanno 1985 a Villa Airoldi, a Palermo. Sangue e cristalli, buio e scintilli, tetro silenzio e fragori di allegria: e se fossero immagini di una stessa pellicola? Giovanni Hänninen propone una identica dialettica a Milano. Il baracchino dei panini che sbuca dalla nebbia è quello di via Celoria, di proprietà di Loreno Tetti. È stato denominato il paninaro anti-’ndrangheta. Tetti, infatti, è stato l’unico a non tirarsi indietro nel processo contro il racket dei venditori ambulanti controllato dalla famiglia Flachi. Ma poco tempo dopo la sua testimonianza il furgoncino, il 19 luglio 2012, è stato dato alle fiamme. Dalla piccola economia alla grande: davanti al Palazzo della Borsa c’è la scultura di Maurizio Cattelan. Provocatoria, ma interrogante: è davvero fuori luogo? È stata messa nel pieno della grande crisi che ha messo in ginocchio l’Italia. Una crisi fatta esplodere da meccanismi corrotti della finanza. «Il boss contemporaneo – scrivono Hänninen e Alberto Amoretti, che ha realizzato l’inchiesta alla base del reportage fotografico – è lontano dal cliché del mafioso rozzo, è un colletto bianco che ha studiato e s’intende di economia, di finanza e di tecnologia».
GIORGIA SEVERI
La ricerca di Giorgia Severi è rivolta all’ambiente e alle modalità con cui esso interagisce con l’uomo dal punto di vista geologico, biologico, culturale ed emotivo. In particolare la sua opera indaga la condizione di precarietà e fragilità del paesaggio nonché i repentini cambiamenti in atto a causa della devastante presenza antropica, che ha conformato in base alle proprie esigenze ogni angolo della terra. About the creation (Rocca Pendice, parete Messner) è un “frottage” di una parete montuosa realizzato a carbone direttamente sulla superficie di un arazzo, presso i Colli Euganei, un luogo particolarmente esposto ai fenomeni di erosione a causa dei cambiamenti climatici. L’opera è un’impronta di una piccola area della montagna, un calco che ne evoca silenziosamente la presenza, la smisurata età e la mastodontica estensione, che paiono enormi rispetto alla presenza di un singolo uomo, come l’osservatore, che con essa si confronti. Ma è anche un dispositivo tecnico che registra in forma bidimensionale uno stato transitorio del paesaggio, una forma precaria e transitoria che sarà poi destinata a cambiare, alterarsi, erodersi o dissolversi: esattamente come un’immagine fotografica l’opera testimonia un momento passato che non potrà più presentarsi con le stesse caratteristiche. L’arazzo risulta così un campionamento di un preciso momento che restituisce non solo la suggestione di qualcosa che c’era, ma metaforicamente mostra ciò che si vuole proteggere dall’avanzare del tempo e dalla rovinosa azione degli uomini.
About the creation (Rocca Pendice, parete Messner), 2019, carbone su tela di cotone, ossidi, 200 x 290 cm, courtesy l’artista