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COLLASSO ANALITICO

Giulia Bruno e Micol Roubini
A cura di Daniela Persico
Casa Testori
4 Maggio – 5 Giugno 2021

COLLASSO ANALITICO
Daniela Persico

Il varcare la soglia di Casa Testori è intrinsecamente legato alla memoria di una frase che per lungo tempo ha troneggiato nell’atrio d’ingresso: una citazione di Giovanni Testori che non solo lasciava trasparire in maniera evidente quanto l’uomo e l’arte a cui ha dato vita (come scrittore, drammaturgo, artista e critico) fossero legate in maniera indissolubile, ma anche la premonizione che quelle parole del passato interrogassero in modo decisivo il nostro futuro. Sulla parete stava scritto: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere, e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa. Si fanno queste puntate verso l’esterno – che possono anche essere violente, distruttive – ma poi il ritorno a casa dà all’esperienza stessa di quell’uscita un calore indicibile. Perché ritornare non vuol dire affatto dimenticare, non vuol dire scrollarsi di dosso la violenza e la distruzione. Vuol dire solo entrare in un luogo che accoglie, che riceve quel dolore e quella cattiveria, dando loro un senso…”.
Casa Testori è dunque un luogo che porta con sè questa memoria, un luogo di senso, come lo furono un tempo le case di famiglia, anche quando la severità traspariva nelle geometrie planimetriche e la quieta eleganza veniva nascosta sul retro tra le meraviglie feconde di un giardino. Ma al contempo rimanda a un viaggio interiore, a un movimento, una dialettica tra l’io delle mura e quello che vi fa ritorno. In questo iato, ancora conciliabile per Testori (grazie alla centralità di una famiglia e di una fede), sta la sfida dell’artista contemporaneo, disperso in un’Europa che si finge unita e incerto sul luogo in cui riconnettersi, per iniziare a ricordare. 
Collasso analitico, un percorso in fieri e un’indagine a porte aperte più che una mostra, raccoglie il lavoro di due artiste cosmopolite, Giulia Bruno e Micol Roubini, entrambe nate a Milano ma con radici che le hanno portate altrove. Giulia Bruno, da anni collaboratrice stretta di Armin Linke, ha attraversato il globo alla ricerca di un’utopia legata alla sua storia familiare: l’esperanto, un tempo lingua capace di riconnettere diverse nazioni varcando le frontiere, poi lingua della resistenza, che rinasce in paesi non allineati creando nuove comunità in nome di un progetto di universalismo. Micol Roubini parte dall’antica fotografia di una casa e una lista d’oggetti: le testimonianze più care conservate nell’appartamento milanese di un suo nonno, scappato dall’Ucraina in seguito allo sterminio della propria famiglia, prima in Russia, per poi arrivare in Italia. Saranno questi pochi documenti a guidarla attraverso l’Europa, fino all’Ucraina occidentale, in un paese che in cent’anni ha cambiato cinque volte identità nazionale e che ora attraversa una delicata fase di transizione. Ancora una volta, finite le spinte euforiche di nuovi assetti politici, si torna a interrogarsi sulla fine di un’utopia (quella novecentesca), le cui macerie impongono una presa di consapevolezza per leggere il nostro ruolo nel presente. Ci vuole dedizione e analisi, sembrano suggerirci i lavori delle due artiste (tanto diverse nei risultati, quanto simili nelle metodologie di lavoro): bisogna lanciare delle sfide ambiziose e affrontarle con la giusta modestia, bisogna prendersi il tempo di cercare e offrire lo spazio all’altro per raccontarsi, a volte serve inventarsi una nuova lingua, altre volte recuperare una lingua madre da sempre soffocata. Il campo entro cui tutto avviene è quello dell’immagine in movimento, la più forte nel mettere a tema la relazione tra chi filma e chi è filmato, in grado di segnare un viaggio nella scoperta del mondo per imparare a definire (seppur per un attimo precario) se stessi. 

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COLLASSO ANALITICO. ISTRUZIONI PER UNA VISITA
Elena Gervasoni 

Varcare la soglia di Casa Testori, qualsiasi sia l’occasione che ci spinge lì, significa sempre fare ingresso in una casa – quella un tempo abitata da Giovanni Testori e dalla sua famiglia –, prima ancora che in uno spazio espositivo. Ed è proprio sull’atto di entrare nella casa, che si vorrebbe suggerire di portare l’attenzione al visitatore che approfitterà degli ultimi giorni di apertura della mostra Collasso analitico per una visita. Sarà idealmente come ricalcare i passi del padrone di casa, compiuti a centinaia e centinaia nel fare ritorno alla propria abitazione, ricevendo ogni volta un “calore indicibile […] da quel luogo che accoglie” – questa l’espressione con cui Giovanni Testori descriveva il rientro in famiglia, come ricordato dalla curatrice Daniela Persico in apertura di catalogo.
Traguardata la soglia, dunque, si vorrebbe suggerire al visitatore anche un’altra accortezza: quella di trasgredire il corretto ordine di visita della mostra per come indicato nella planimetria presente nel foglio di sala (dove la progressione numerata delle stanze lo vorrebbe iniziare nello studio a destra dell’ingresso e concludere nella sala da pranzo alla sua sinistra).
Se si fida di chi scrive, provi invece a collocarsi da subito a metà del percorso, nella sala n. 6, cioè alla base delle scale: qui è il centro della grande dimora, dove idealmente si saldano le due ali del piano terra, così come i livelli inferiore e superiore della casa (ma anche gli spazi interni delle varie stanze e quelli esterni del giardino). In questo punto, se sosterà qualche secondo, il visitatore avrà percezione istantanea del “collasso analitico” messo in atto dalle due artiste Giulia Bruno e Micol Roubini: avvertirà infatti, non c’è dubbio, la babele di voci e linguaggi che provengono dai protagonisti delle video-installazioni collocate nelle stanze attigue (cantina compresa) e che lì convergono e si mescolano tra loro, abitando lo spazio domestico che li accoglie. Come per sinestesia, i suoni si rifletteranno nelle tavole di rappresentazioni visive dello spettro dei segnali audio, adagiate da Giulia Bruno accanto alla libreria testoriana, proprio alla base delle scale.
Per un attimo, forse, la messe di fonemi per lo più indecifrabili provenienti dai video, alternati all’abbaiare rabbioso di un cane, proietterà il visitatore nella condizione di smarrimento che prova chi, emigrando, perde casa e lingua e vaga nel mondo mendicandone di nuove, nella speranza di trovare almeno una vaga rassomiglianza con l’una e con l’altra delle sue radici identitarie.
Sarà allora chiaro che il tema centrale dell’esposizione è la riflessione sul linguaggio come fattore di esperienza – e non solo di conoscenza – , quel “[…] battere della parola verso la possibilità di esistere, di dire, di essere cosa, non più un’allusione, ma una realtà concreta, reale e totalmente incarnante” (ed è ancora l’eco di Giovanni Testori, che riverbera dalla sala n. 10, la veranda, dove Giulia Bruno presenta l’estratto video di un’intervista allo scrittore sul tema del suo linguaggio teatrale).
Percorrendo poi tutte le stanze che gravitano attorno a questo centro ideale, il visitatore scoprirà di volta in volta come il linguaggio si intrecci, nei lavori delle due artiste, ai temi della memoria, del senso di appartenenza ad una comunità e, dunque, della costruzione di identità personale, sociale e politica: il “linguaggio come casa dell’essere”, per dirla con Martin Heiddeger – con un’espressione sorprendentemente simile a quella scritta su una parete della sala n. 1, lo studio, in cui si legge: “Al di là della tecnica, al di là dell’immagine, si è attraversati da utopie. Possa la lingua essere la nostra casa.”
Sotto questa sorta di invocazione scritta a muro, nello studio appunto, quattro teche raccolgono i materiali personali da cui Giulia Bruno e Micol Roubini – nate entrambe in Italia ma con radici familiari che le hanno spinte in direzione cosmopolita – si sono fatte ispirare per la loro ricerca artistica, (rivelando come comune punto di partenza la figura dei rispettivi nonni): per Giulia Bruno appunti di viaggio su taccuini, fotografie familiari, alcuni libri di Pasolini ed Eco, ma soprattutto i manuali tecnici della Fiat stampati negli anni Sessanta in esperanto – la lingua franca di molti operai attivi nella Torino del Boom economico, tra cui proprio il nonno dell’artista; per Micol Roubini una fotografia datata 1919, che raffigura la casa d’infanzia del nonno materno a Jamna, sul confine tra Ucraina e Polonia, e i fogli di via della dogana polacca e italiana del 1957, anno in cui la famiglia si trasferì dall’Unione Sovietica in Italia.
Da queste premesse si dipana, nel resto delle stanze, l’insieme di lavori delle due artiste (per lo più video-installazioni) metodologicamente affini per l’esigenza condivisa di dare corpo al linguaggio, attraverso l’immagine, eppure diverse nei risultati cui approda il loro lavoro: nel caso di Giulia Bruno un processo analitico di riflessione metalinguistica sulla fenomenologia del linguaggio come tecnologia; per Micol Roubini, invece, un atto poetico che marca la fragilità della memoria e il nomadismo fluido della lingua.
Volendo chiudere con lo stesso gioco di simmetrie tra la casa e le opere con cui si era aperto, si ricorderanno qui solo due altri lavori, uno per ciascun’artista, posti idealmente agli estremi della diagonale N-S della dimora testoriana: nella sala del camino, 23.500 grammi di Micol Roubini è il plico di 1287 fogli di carta velina – materiale povero da imballaggio e per trasporto di oggetti – che poggia su una sottile lastra di ferro, quasi a emulare il ripiano di carico di una pesa; il titolo rimanda alla misura esatta del peso mancante degli oggetti che, tra quelli che il nonno di Roubini portò con sé dalla Polonia in Italia registrandoli nelle diverse dogane con una lista numerata, non arrivarono mai a destinazione. Adagiati sulle pareti della stessa stanza sei display metallici sorreggono altrettanti fogli di carta velina intagliati in modo tale da far emergere in negativo le Glossolalie, cioè le traduzioni (non più biunivoche né corrispondenti) in russo, polacco e italiano dei nomi di alcuni di questi oggetti, il cui significato sbiadisce così nell’ombra che l’intaglio della velina proietta sul muro retrostante.
All’estremo opposto della casa, nella veranda, Giulia Bruno presenta invece l’inesausta ricerca dell’Atlante Linguistico Italiano, una raccolta ordinata e sistematica di carte geografiche italiane, sulle quali sono riprodotte, per ogni località nazionale esplorata (chiamata “Punto”), le corrispondenti traduzioni dialettali di un concetto, di una nozione o di una frase, raccolte dalla viva voce dei parlanti grazie al lavoro avviato in epoca fascista da Ugo Pellis e oggi proseguito dal Professor Matteo Rivoira dell’Università degli Studi di Torino.

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Giulia Bruno

Trovare uno spazio, una forma, un contorno in cui collocarsi e sentirsi “appartenenti a” diventano un momento decisivo in cui la definizione e la non definizione danzano incessantemente insieme.
Il mio posto è da sempre l’immagine.
L’immagine del perduto, l’immagine non trattenuta, l’immagine che nasconde il senso o che lo rincorre, l’immagine che mi ha portato nel mondo e che mi richiama agli interrogativi quotidiani. Origini, senso, lingua, potere, economia, mercato, identità e cultura.
Viviamo in un mondo in cui la separazione semantica confonde così come l’autodefinizione. Artista, biologa, fotografa, filmmaker o semplicemente me.
La tecnologia, i processi, lo spazio città, lo spazio umano, il linguaggio come tecnologia, come paesaggio artificiale o naturale, il confine come infinito o come limite sono da sempre le domande della mia ricerca e dei miei processi. Come a non contenere, ad allargare, ad andare oltre per poi tornare a decostruire.
L’immagine come forma di ridefinizione di un bordo che scivola di continuo alla ricerca di una narrazione che rimane sullo sfondo: il rumore della vita.
Vivo a Berlino da molti anni e in tutto questo tempo la sete di conoscere mi ha portato in tutto il mondo grazie anche alla lunga collaborazione con Armin Linke e Giuseppe Ielasi: foresta nella Amazzonica, in Papua Nuova Guinea, in Indonesia, in Jamaika, in Corea alla ricerca di un processo, della scoperta del meccanismo funzionale delle dinamiche sociali, insaziabile in una sorta di viaggio Ulissiano, forse ora anacronistico.Sono rimasta affascinata dalle dominanze politiche ed economiche e da come questo agisce anche sulla lingua attraverso lo scambio, una lingua franca, un processo particolare o universale, la pubblicità, l’immagine.
Ho amato e seguito l’esperanto questa meravigliosa lingua che si pone come un diritto linguistico di uguaglianza, di trascesa di ogni confine e ho viaggiato per essere in conversazione con i parlanti la Lingua, con il pensiero, con le radici di un sogno e con il reverse nella società e con le implicazioni e le difficolta anche qui di definizione e di contenimento.
In un mondo globale dove internet e il flusso di dati sommerge e nasconde come si difende un diritto? Come si accede ad un’uguaglianza diffusa? Come si diventa cittadini di un mondo? Dove rimane il non scoperto e il non visto?

LE ARTISTE SI RACCONTANO
Micol Roubini

Lavoro come artista con film, video, installazioni sonore e materiche, che si collocano tra arte e cinema. La mia pratica è strettamente legata all’esigenza di indagare la complessa rete di relazioni e processi che si instaurano tra l’uomo e il territorio che questi abita. Il mutevole equilibrio con cui, attraverso una lingua, una cultura, un sistema economico o delle strutture sociali, prendano via via forma l’idea stessa di spazio, di paesaggio o i confini di uno stato. Il rapporto specifico tra un dato luogo e l’insieme di tracce e frammenti di storie che ne costituiscono la memoria e al tempo stesso i rimossi.
Mi interessano i territori ai margini, considerati tali da un punto di vista percettivo, prima ancora che geografico, in una riflessione che nella mia ricerca prende avvio quasi sempre da una o più rappresentazioni del “reale”: se il punto di partenza è almeno in parte documentario tuttavia l’opera finita non ricalca la realtà, ma è piuttosto il risultato di un lungo processo di mediazione e contaminazione tra diversi ambiti. Questo scarto, che in alcuni casi è lieve in altri è più marcato, mi lascia la possibilità di dar voce attraverso immagini, suoni, o narrazioni più strutturate, anche all’inaspettato, al fantastico, al surreale e sono le specificità di ogni singolo progetto a definire i mezzi con cui questo verrà sviluppato, non viceversa. Sempre mantenendo attiva questa specifica modalità di ricerca su più fronti, negli ultimi anni mi sono focalizzata maggiormente sull’aspetto filmico. Quello che mi ha sempre affascinato e che è una delle sfide maggiori nel cinema, è la potenza cui quello che in fin dei conti non è altro che un processo di sintesi, può arrivare. Si è all’interno di una struttura circoscritta, con delle regole interne di fruizione ed un preciso arco temporale, tuttavia l’esperienza di questa nuova realtà è in grado di riportarci al mondo con una maggiore consapevolezza, di alimentare il nostro spirito critico e, a volte, di provare a dare un senso al nostro agire.

Collasso analitico chiude Pocket Pair, un ciclo di mostre coordinato da Marta Cereda avviato da Casa Testori nel 2018. Il titolo del ciclo riprende un’espressione del gioco del poker che indica la situazione in cui un giocatore ha due carte, di uguale valore, e deve scommettere su di esse. Allo stesso modo, i curatori scommettono su talenti emergenti, due artiste/i dal pari valore, per dar vita a una bipersonale di elevata qualità, allestita al pian terreno di Casa Testori dove sono liberi di incontrarsi, anche all’interno delle singole stanze, di farsi visita, di dialogare da vicino.

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“In Exitu” con Roberto Latini alla Biennale Teatro

“In Exitu” alla Biennale Teatro 2021. Lo spettacolo prodotto dalla Compagnia Lombardi Tiezzi con Roberto Latini protagonista e regista andrà in scena al Teatro Piccolo Arsenale il prossimo 7 luglio.
Ripubblichiamo la recensione di Rodolfo Di Giammarco uscita su Repubblica in occasione della prima a Napoli.

Roberto Latini ha risposto all’invito della compagnia Lombardi/ Tiezzi di incarnare In exitu, schegge della vita ai margini di Gino Riboldi, marchettaro eroinomane in limite di genere, lingua, umanità che col dj queer del precedente Cantico dei Cantici condivide una carnalità tenera, sovversiva, incomprensibile ai più. In proscenio, oltre una rete da tennis, un binario di legno evoca lo scenario di una stazione ferroviaria, non luogo di svendita del corpo e di violenza. La scena, immersa in un bianco opaco, è una distesa di materassi su cui Latini si muove senza sosta: sbanda, trema, cammina, cade nel rincorrere il ritmo sgangherato di una lingua «sgrammaticata che perde i pezzi»; lingua contaminata, lacerata e incompiuta perché metafora di vita, mista di latino, italiano e dialetto lombardo. Tra le mani un microfono che è stampella, spada, siringa amplifica le voci in cui l’attore si moltiplica, letteralmente si consuma. Rantoli, reiterazioni, bestemmie, pause che sono apnee negli incubi, nello strazio di un’epidermide crivellata per riempire un vuoto dell’esistenza: Latini, in preda al testo, si fa dominare e lo domina per restituircelo in tutta la sua potenza lirica e distruttiva. La sua è agonia disarmata, Teatro senza sconti, prova sconcertante di autore in quanto attore. Nella città/ bordello Riboldi è cercatore dionisiaco di bellezza contro la normatività: agnello sacrificale di un malessere collettivo e atavico – ma rimosso in nome della morale – di cui l’attore si assume il dolore, la fatica, la responsabilità con un’onestà nuda. Colano trucco e sudore nella tenuta da tennista in tuta e scarpe da ginnastica: il palco è palestra fisica e dell’anima, campo di battaglia all’ultima ferita tra umori corporali e profonde solitudini. Il match tra la vita e la morte è scandito da interventi sonori di beat elettronici e violini elettrici, teatro aumentato nel microfono, luci che come distese di pittura ci calano in un pasoliniano, acre underground. Latini, mordace sperimentatore, interroga palco e platea fino all’ultimo respiro: nel finale, una palla da tennis a grandezza naturale è il servizio pronto a essere lanciato al di là della rete/ proscenio. Può riceverla solo chi lascia ogni appiglio per perdersi nell’altro da sé. Questo forse è quanto di meglio possa succedere a Teatro.

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Il Caravaggio, genio e ladro

Proponiamo qui di seguito il testo integrale della recensione di Giovanni Testori alla mostra “Caravaggio e il suo tempo” (Museo di Capodimonte, Napoli, 1985).

Napoli – Sacrosantamente gli esimi organizzatori di questa memorabile mostra («Caravaggio e il suo tempo», Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 30 giugno), dove con ogni probabilità per l’ultima volta, è dato veder accostato un numero altissimo d’opere del Maestro, soprattutto quelle che s’usan chiamare «da stanza», han voluto dedicare la loro fatica a Roberto Longhi. La dedica risulta duplice. Essa non si ferma, infatti, alle parole con cui s’apre il Catalogo, nell’edizione italiana ancor meglio edito dall’Electa, ma si muove e vive, come linea prima e definente, nel pensiero critico di chi l’ha voluta, studiata e realizzata; soprattutto in quello di Mina Gregori che, oltre ad essere, con tutto il Comitato Scientifico, responsabile del disegno generale, s’è tenuta per sé il vero e proprio saggio introduttivo e la schedatura dei dipinti del tragico, supremo, atterrito, e, proprio per questo, continuamente risorgente protagonista; dando, in quest’ultimo ufficio, una prova da additare quale esempio, di come si possa tutto riferire di un’opera, tutto rispettare delle altrui opinioni, senza nulla sacrificare delle proprie. Non è piaggeria nostra se, a pochi giorni di distanza da quello che ci strappò, con quanta festosa gioia il lettore riuscirà forse a rammentare, per la mostra cremonese dei Campi, siamo indotti a ripetere qui, ulteriormente rafforzato, l’elogio per questa conoscitrice e «maestra» (detto nell’antico senso e nell’antica nobiltà del termine) della nostra storia artistica, che la maturità ha portato a offrire agli studiosi, ma anche all’onda vasta del pubblico, una così larga e profonda messe di frutti. Del resto, i temi delle due esposizioni risultano strettissimamente legati. È una civiltà, quella di Lombardia, che la Gregori ha inteso mostrare (o rimostrare) al mondo; accompagnando una sottilissima, indomita conoscenza critica a un senso, esso sì, veramente, democratico, di che una mostra ha da essere.

Dicevamo che la dedica longhiana diventa, qui, ripresa della tesi principe del grande critico. Ora quella tesi che, per alcuni anni, parve superata (ma, in effetti, non lo fu mai) dalle alchimie di letture astrattamente, quando non demenzialmente, iconologiche, torna qui ad essere totalmente onorata; e onorata perché il tempo ha mostrato quanto fosse pregnante e verace; e quali mai possibilità contenesse di venir sviluppata. Che è proprio quanto accade in questa mostra; e con tale ricchezza di conferme e d’aperture da farci affermare che, dopo l’irripetibile esposizione milanese del ’51, questa si pone come data fondamentale nello sviluppo degli studi caravaggeschi; anche per gli ardui ingorghi di problemi che propone, e che propone con la chiarezza e la drammatica lampeggiante violenza che il Caravaggio si meritava.

Prima d’addentrarci nelle magne sale di Capodimonte e riferire, almeno per come lo concede una pagina di quotidiano, convien dire che la sfilata dei capolavori risulta, già da sé, stupefacente: da quelli che compongono la sezione dei «precedenti» lombardi e che formano lo stormente albero genealogico del Merisi, a quelli dei bolognesi, dove s’alza a dominar tutti la straordinaria, sbilenca, sanguinolenta immersione «dialettale» d’Annibale Carracci che qui, con la «Macelleria», venuta da Oxford, espone il suo stato reale, prima che si genuflettesse al mito del classicismo; per arrivare, infine, a quelli dei contemporanei e degli immediatissimi seguaci, che di sovente risultarono immediatissimi traditori. Sono meraviglie, poste l’una accanto all’altra, ovvero l’una in opposizione all’altra, ma tutte necessarie, più che a far concerto di capolavori, a far storia; o a far storia con loro, i capolavori; e a dire come, nella fisiologica, carnale perentorietà della sua fatale e fetale coscienza lombarda, Caravaggio avesse occhi, mani, denti, labbra e intestini per tutto; e come, ove gli si mostrasse necessario, tutto rubasse di quanto altri aveva appena fatto o andava, allora, facendo; quasi che i quadri fossero per lui realtà, né più né meno di come lo erano gli uomini, le donne, i fiori, l’erbe, i frutti, i cavalli, i piedi, i ventri, i visi, gli sterni, le spalle e le cosce.
La copia e la ripresa sono azioni proprie ai talenti. Il furto, e non si crede di dire cosa nuova, è azione propria ai geni. Ma, in Caravaggio il furto non fu mai di stile; fu un fisico, erotico e persin losco interesse (ma sì, diciamolo pure, un losco interesse di parte; e come avrebbe potuto essere altrimenti in un uomo come lui?); fu, ecco, una fascinazione totalmente fisica e, insieme, psichica. Rubare a un’opera già fatta fu, per lui, come perder la testa, e non solo la testa, per il ragazzaccio, sconcio e divino, che si mise lì davanti a far da modello per l’«Amore vincitore»: o come addentare, con un sol colpo, la madida polpa di una mela.

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Famelicità

Siamo così entrati «in medias res»; e per direttissima. Ben più che proporre la nostra personale opinione su alcuni nodi attributivi e cronologici, opinione che la Gregori ci ha fatto l’onore di citare nelle schede (ancorché si tratti di pareri espressi, non già in studi specialistici, bensì e proprio da questo semplice giornale), ci preme avvisare di quanto, di rivoluzionario e travolgente, dalla mostra, s’evince; il che corrisponde esattamente a quanto, di rivoluzionario e travolgente, si dové evincere, ai suoi tempi, dalla carriera, brevissima e come fulminante in se stessa, del Merisi e dai modi in cui essa andò svolgendosi, come se dalla famelicità di vita, che inturgidisce di sé gli inizi, fosse stato chiamato a gettare la propria anima e il proprio corpo nella famelicità opposta: quella della morte. In pochi anni, a furia d’essere nella realtà (che conteneva, sia ben chiaro, una pressione sacrale tanto forte e tanto battente, lì, alle tempie, da permettergli d’essere proditoriamente ebbro ed erotico e, insieme, disastrosamente cosciente della propria perversa brama e della propria cupa e conseguente dannazione), il Caravaggio passò da una concorrenza strettissima e spietata, quasi da bocca a bocca, con la vita, a una concorrenza, non meno da bocca a bocca, e non meno spietata col sepolcro.

Ora il risucchio di quest’ultimo allunga le sue infinite, sfarinanti ombre sulal prima ben più di quanto questa non potesse stendere le luci d’alba, troppo densa, possente e carnale, sulla consunzione di quello. O, forse, sì, le stese; ma come strappando se stessa e facendosi laceratissimo lacerto serale; simile a quelli che appaiono all’orizzonte, sui profili stessi del mondo o negli occhi di chi abbiamo amato, prima che la notte ingoi tutto nel suo inesplicabile niente. Lo stile del Caravaggio, se talmente vuol davvero chiamarsi, ricava la sua rapidissima, fulminante suntuarietà, il suo disprezzo per ogni decoro, la sua ellitticità da supremo, tragico «imbianchino» dell’universo, proprio dall’istantaneità, e dall’inevitabilità, con cui tutto, in lui, s’accende, s’incendia e, poi, di colpo, rantola, si blocca lì e tace; in cui tutto si destina, d’ora in ora, di minuto in minuto, ad avvenire e a morire. Proprio perché l’avvenire coincide, in lui, sempre, con l’essere; proprio perché il nulla, nero, allibito e non più benedicibile da niente che sia umano, risulta, per lui, la sola testimonianza possibile del tutto; proprio per questo, l’immersione nella realtà fu, nel Caravaggio, quella che accade a chi, uscito dal grembo materno, delira per tornarvi e trasforma tutto in quel ventre; ventre che alla fine, si configurerà in un rantolo di tragica solitudine là, sulla desolata spiaggia di Porto Ercole.

È questa ventralità del reale, ventralità che la mostra napoletana ci ammonisce altra volta come trovasse la sua metafora espressiva, anzi la sua espressiva consustanzialità, iniziatica nei padri e nei fratelli (e nei fratellastri) di Lombardia, che rende possibile al Caravaggio compiere una sgominante sequela di paragoni coi maggiori esiti, non solo dei suoi contemporanei, ma dei grandi uomini del Rinascimento e finanche dei grandi d’evi più antichi. Paragoni che vivono, non sull’umiltà d’una coscienza impari, bensì sull’impudica, sfrontata certezza d’una coscienza assolutamente paritaria. Per restare al già citato «Amor vincitore», venuto a Napoli da Berlino, la sofferenza del Caravaggio non sta nel dubitare di reggere ai nudi della Sistina o agli strumenti musicali che la «S. Cecilia» di Raffaello si trova deposti ai piedi, gli uni e gli altri così golosamente, così clamorosamente visti, capiti, accolti ma poi, subito, rifiutati, anzi vomitati ed espulsi dal proprio corpo; sta nell’accettare, come fato suo proprio, quella sfrontatezza; e, soprattutto, nell’accettare il vuoto, inane a assoluto, che, subito, dopo l’esecuzione dell’opera, sembra aprirsi davanti a lui; come se ogni volta fosse l’ultima. Questo, finché, a furia di rapine operate sulla realtà, sulla storia e su sé medesimo, la volta sarà finalmente, e per davvero, l’ultima.

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Forma-azione

L’irripetibilità, e l’irrimediabilità, del «vero» caravaggesco, e della connessa cultura, risultano così atrocemente elementari. Non ammettono compiacenze. La coscienza della forma, in Caravaggio, non può stare altrimenti che nel suo realizzarsi; ma nel suo realizzarsi come se volesse distruggersi proprio e in quanto forma d’uno stile ed essere, invece, qual è l’enorme, povera, superba e derelitta realtà dell’universo in cui era stato espulso e in cui doveva pur respirare, vivere, agire e morire. La forma del Caravaggio risulta così azione; ma tale azione risulta, altresì, la sola coscienza possibile che dell’esistenza l’uomo può darsi e può, dunque, in qualche modo formulare. Tutto si passa in una velocità di tempi e di spazi che non lascia margine a niente che non sia il se stesso di quel preciso soggetto; dunque, di quel preciso dipinto. Mi pare che solo questo può permettere d’enucleare una formulazione, non troppo lontana e non troppo impropria, della sua pittura; e stabilire altresì i termini meno impropri per decidere dell’autografia, o meno, di un’opera. È alla luce, e alla tenebra, di questa verità eternamente attimale, o attimalmente eterna, non intuendo la quale ben poco può capirsi di che sia stata la rivoluzione del Merisi, che risulta, ad esempio, lecito dire come il problema relativo alle «Nature morte» dipinte nella bottega del Cavalier D’Arpino (problema magistralmente aperto dallo Zeri) non possa venir indebitamente evitato o, peggio, archiviato come van facendo tanti «estetisti» della critica d’arte, nostrana e non, ovvero che l’edizione veramente autografa del «Ragazzo morso dal ramarro», non sia da vedersi nell’esemplare inglese, qui esposto, bensì in quello, incomprensibilmente più diretto, ingombrante e «idiota» che fa parte della raccolta Longhi; ovvero ancora che, pur tenendo conto dello stato di conservazione e d’una pulitura assai prossima al delitto, la «Conversione della Maddalena» di Detroit, è pur essa copia e non già originale. Ed è sempre lo stesso metro, per dir così, istintual-coscienziale che ci assicura dell’assoluta, abbagliante e, insieme, cieca e come urlante autografia delle opere che la Gregori, da anni, in vari studi, è andata proponendo, conquistandosi una serie di meriti e, quasi, del caravaggismo, dopo le fondamentali restituzioni del Longhi, il primato. Non è luogo, qui, a nominarle, una per una. Basti forse citare, perché risulta la vera e propria rivelazione della mostra, il «Cavadenti», di proprietà delle Gallerie fiorentine, in deposito, ora, a Palazzo Montecitorio, che davvero non sembra sede per lui. Questo scorticante ed arso capo d’opera, in cui Caravaggio riprende e reinventa per tutti i pittori a seguire la «scena di genere», ma bruciandoli poi tutti, in quanto, più che d’un episodio di primitiva odontotecnica, sembra trattarsi d’un atroce, efferato assassinio, d’un turpe finale gesto di braccaggio compiuto da matrigna-la-morte, o la vita, che ora, e per davvero, fan lo stesso, sembra a noi porsi come un vero e proprio «test» per rassicurarci di chi abbia capito che sia stato, e sia tuttodì, il grande fuggiasco di Lombardia e di chi, d’averlo capito, finga; continuando a mettere in uso, per lui, proprio quelle misure formalistiche che lui aveva vissuto per distruggere. Aveva vissuto ed era, poi, così tragicamente morto. Ora, se con uomini come il Caravaggio poco lecito è scherzare, o sbagliarsi, quando si parli di vita, turpe e blasfemo è farlo quando si parli di morte: e del suo dopo.

La pagina ritrovata della “Gilda”


di Nicolò Rossi

Può capitare, nell’immutabile vita scritta di un libro, che si riaprano alternative. Può capitare che un libro si ricordi, come in sogno, delle possibilità che non ha avuto. Basta che riemerga un foglio da una prima stesura, stralciato dall’autore e mai arrivato in stampa. Lo scopriamo ora, nell’archivio depositato a Casa Testori, e riporta un diverso sviluppo per il racconto della Gilda del Mac Mahon, Sì, ma la Masiero…. Accade così che mentre Dino raccoglie i frantumi delle amate fotografie strappategli dalla cattiveria del Luciano, verso il giardino di via Spagnoletto, arrivi un taxi. E che, dal taxi, scenda proprio lei, la Masiero! Lui la vede, non visto, salire in casa; e immagina che lei, ora, si svesta… La Masiero, nel testo andato in stampa, «non era arrivata». A Dino era rimasta la beffa, e «tutto, per quella sera, fu chiuso». Fino ad oggi.

Mater Strangosciàs, la Pasqua come un’alba

di Sandro Lombardi

La Maria di Nazareth di Mater Strangosciàs si presentava in scena su una sedia da cucina dichiarando la sua umiltà e scusandosi d’essere “del recitar poco praticata”. Il passaggio tra Erodiàs e Mater Strangosciàs, che avevamo portato in scena in un unico spettacolo, è segnato dalla specularità di due modi diversi d’amare: è la disperazione che si fa speranza, la morte che si fa resurrezione. Certo, nel cuore delle due donne impera un amore così grande e totalizzante da rendere impossibile qualsiasi forma di appagamento. Erodiàs non riesce a compiere il doloroso e impervio passaggio a una diversa visione del sentimento di cui è simbolo la disponibilità di Maria, che tocca una commovente umiltà di eloquio per mezzo di una lingua che si spinge a esprimere perfino complesse concezioni teologiche. 
Quando, verso la fine del suo lamento, Maria invoca l’angelo perché torni a visitarla e a portarle un po’ di calma e consolazione, questi le dice che «dal dolor più desperado… può surgere un senso, o anca insolamente, ‘me vorevi una sensada…». Sta forse qui la verità dei Tre Lai. Come nella “Ricerca” proustiana o nella “Commedia” dantesca, il viaggio in tempi e in luoghi perduti, e il lavorio dedicato ad una definizione psicologica e a una teoria dell’amore, spingono ancor più lontano: alla ricerca, appunto, del senso stesso, nella vita umana, dell’amore e del dolore. Così dopo l’ora «tramontaria e funerizia», barbara e tragica della Cleopatràs, Erodiàs mi parve un dramma notturno e Mater Strangosciàs una “aubade”, quel tempo muto e sospeso d’attesa dell’alba che gli spagnoli chiamano “madrugada”. 

Te penset verament, / o me sul / e me turment, / che sia no tutta ‘na gran bala / ‘na trumbada, / un culp de vent / disèmel su ammò: / una ciavada? / No, / no, / mia mater cara / o forse, sì. / Me stesso / mo’ me dobbio de più ammò / pei verba megliamente, ecco, sentire / mentre che dalla bocca sua / stanno per sortire. / A dila inscì, / o mater / – fa el mio gran figlio / redotto ‘me vedete ad un lenzuolo / sanguinanto de giaciglio – / a dila inscì / la par ‘me insugnada, / ma la vita / – nissuno mei de mi / l’ha forse comprendata – / la vita, sì, / l’è ‘na ciavada, / te vedet ben / ‘me la mia / la s’è tutta inscì increpada; / ciavada, sì, / o mater; / ciavada, sì, / o gent; / ma, propri / cunt del diu et om / la ‘sassinada, / la s’è, eccuta, vultada, / intrega la s’è ella illuminada, / da restà semper, sì, / ciavada, / ma resurrezionada. / Plus la ciavada / intrega de dulur l’è fada / et plus la resurrezziun / l’è tutta innamurada. / E cusa l’è infin / e in poera muneda / ‘sta gran trasfurmaziùn? / Me stessa provo a pitturarlo, / io me e ben de sola / perché l’è quest / che cunt la crapa / del to cusin in man / l’Erodiàssa destruttata dai affan / la speccia de savé… / L’è cume un vìssi / – e fermum se me sbagli – / che el Diu, / lu, propri lu, / l’ha mettù / dedent de la magna creazion; / l’è un vìssi, un vermeno, / un virùs: / quel de vurè durà ‘me lu / in dell’eternità di stel, / di nigur / et anca, eccu, del su, / benché, dopo la scendera e la brina / dei cimiteri giò, in la cantina / el tut el pararès / pussibil no. / El gh’è ‘sto virus, / o cara gent de tutta la platea, / et anca te, Cleopatrassa / suichida d’esser lassa / del potere, / anche in dei bulbi al ghè / de lur, i ciclam, / el gh’è anca in di verz, / in di pes, in di vulp / e in la castegna; / el gh’è anca in di luf, / nei legur su, della Civenna, / e in di ursi di furèst / del gran Sempiun. / L’è ‘me ‘na forza, / ben plus de quella elettriga, / che, quand el mument giust / el riva, / d’un bot da sé e in sé / intrega la se pizza / senza bisogno de meccanica perizia / e tut l’immano nient / urbis et orbis / devien, ecco, ‘me luminaria natalizia. / L’è / – fam truà su, / o me sudari, / el verbum justum / et, come podo, esplicativo… / L’è, eccuta, / la cecità che riva, / el sé de sé a luminare / e splendorare. / L’è un’ansia, / l’è un s-ciuppun, / l’è, eccuta, un magun / dedenter de la palta / cont la de cui / ‘me tanti Adami / el Diu ci ha costruttati / con le mani; / l’è la strada de dulur / e d’agonia / per rivà / ti a cà tua, / mi a cà mia; / l’è la granda del pater / nostalgia; / l’è la superbia, / tutta sburlandada, / la carità in persona / e personada; / l’è tut e el nient: / l’è la carezza / – disemel cunt la zeta / per dar al tutto / el luch d’una squalche teologhia – / l’è la carezza / la plus clara / che quand dent in la cassa / gh’è pu de viv nigotta / la me fa diventà / ammò carna viventa / et, eccuta, pigotta. / Parli di resurreziun, / o me sudari, / o gent, / e de piang / invece de gioir / me vegn in ment…

Lunedì di Casa Testori. Ep.19

Puntata 19, lunedì 29 marzo ore 21.15

È il dono il tema della puntata dei Lunedì di Casa Testori del prossimo 29 marzo. “Il Dono. Sulla vita e sulla morte” è il titolo della mostra organizzata da The Blank Contemporary Art e Comune di Bergamo al Palazzo della Ragione della città lombarda. Sette artisti, invitati dal curatore Stefano Raimondi, indagano il tema del dono attraverso opere che in certi casi si trasformano in doni di cui gli spettatori possono appropriarsi (naturalmente quando la mostra riaprirà i battenti). Il dono poi è messo in relazione alle due grandi polarità che hanno segnato la vita nostra e di una città come Bergamo in particolare: la vita e la morte. Insieme a Stefano Raimondi saranno in diretta tre degli artisti: Matilde CassaniAndrea Mastrovito e Namsal Siedlecki.

A seguire, sempre in tema di dono, Giulia Restifo racconterà il crowfunding lanciato dalla Casa degli Artisti di Milano, un’importante realtà con cui Casa Testori ha recentemente collaborato, per superare il momento di difficoltà determinato dalla pandemia.

La puntata si aprirà come di consueto con la lettura di una pagina di Testori con la voce di Federica Fracassi: sarà una pagina dedicata a Giacomo Ceruti, grande artista lombardo straordinariamente consonante con il tema della puntata.

Iaia Forte: «Erodiade, che visionaria»

Di Andrea Bisicchia

Nel 2006, Iaia Forte portò in scena, con la sua regia, “Erodiade”, la cui interpretazione fu ritenuta una grande prova d’attrice, grazie alla sua fisicità prorompente e alla sua potente naturalità espressiva, messa al servizio di una Erodiade molto carnale, quasi da divinità mitica. Abbiamo chiesto all’attrice, come avvenne il suo innamoramento per Testori. «Il mio primo rapporto avvenne in occasione della messinscena dell’”Ambleto”, compagnia Tiezzi-Lombardi, con cui si diede il via ad una diversa maniera di accostarsi allo scrivano di Novate. Io interpretavo due personaggi, quello di Gertrude e di Lofelia,  di matrice lombarda». 

Prosegue Iaia Forte: «Confesso che, all’inizio, credetti di trovarmi a disagio con la materia, tanto che andai a “ lezione” da Franco Loi perché ritenevo quel tipo di dialetto reinventato, non organico al mio. Non molto tempo dopo, ne capii la musicalità e, come musicista, avendo studiato violino, scoprii una lingua il cui ritmo aveva la capacità di coinvolgere l’attore, aldilà della sua provenienza regionale. Ricordo che il pubblico e la critica apprezzarono la mia Lofelia vestita da sposa mentre danzava prima di morire».

Oltre Gertrude e Lofelia, ha interpretato la monaca di Monza nei “ Promessi sposi alla prova”,  sempre con Lombardi-Tiezzi, oltre che Erodiade, con la sua regia, che Testori aveva costruito con una forte carica erotica.
«In Testori, l’eros non va inteso come seduzione, ma come pura carnalità. Le sue, sono donne disperate, ma vitali, tanto che mi hanno fatto pensare a Filumena Marturano di Eduardo che, proprio per la sua virilità, potrebbe essere accomunata a entrambe. Gertrude è più complessa, perché divisa tra la difficoltà  del suo ruolo e la tormentata relazione col capocomico. Erodiade è una regina barbara, con un erotismo esplicito, dalla dimensione psichico-visionaria».

In fondo si tratta di una donna non accettata, ferita nell’orgoglio e, pertanto, gelosa, benchè Giovanni non avesse scelto di amare un’altra donna, ma di amare Cristo.
«Tutto vero, c’è da dire, però, che l’nnamoramento carnale di Erodiade va inteso anche come ricerca di assoluto, l’amore per Giovanni le ha fatto scoprire il desiderio di dare un senso alla propia vita, fino a volerla trascendere. Decidendo di farlo uccidere, lei ha espresso un suo sistema di pensiero. Personalmente amo Erodiade proprio per la sua  visionarietà e amo Testori perché chiede all’attore un investimento assoluto che gli permette di entrare in una dimensione catartica».

Ha in mente di riprenderlo?
«Sicuramente lo rifarò questa estate a Roma, all’aperto, ai Giardini della Filarmonica, ma il mio vero sogno è poterlo portare al Franco Parenti che ritengo la sede ideale, perché lì è nato il Testori rivoluzionario, quello che sapeva coniugare, non solo l’alto e il basso della lingua, ma anche l’alto e il basso dei sentimenti e delle passioni».

(intervista pubblicata su Il Giornale, 29 marzo)

Il sogno canta su una corda sola

Performance di Andrea Bianconi
per l’inaugurazione di
‘CASA DELLE ARTI – SPAZIO ALDA MERINI’

Il 21 marzo è la Giornata Mondiale della Poesia e sempre il 21 marzo è il giorno di un’altra ricorrenza importante: il compleanno della poetessa Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931) che quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. In virtù della felice ‘coincidenza’ nel primo giorno di primavera, si è scelto di dare avvio alla nuova gestione della Casa delle Arti – Spazio Alda Merini da parte dell’Associazione ‘Piccola Ape Furibonda’, ATS composta da Cetec, Ebano, Errante e Promise. 

Per celebrare questa occasione speciale, domenica 21 marzo 2021 alle 10.30 sulla pagina Facebook e Instagram di Spazio Alda Merini sarà trasmesso il video della performance “Il sogno canta su una corda sola” di Andrea Bianconi, realizzata dall’artista su invito del Cetec e su progetto di Casa Testori, con la collaborazione artistica di Donatella Massimilla

(Le riprese della performance sono state girate prima dell’entrata in vigore del Decreto-Legge 13 marzo 2021, n. 30)

Lungo un percorso simbolico sui Navigli di Milano, che va dal “Ponte Alda Merini” a via Magolfa 32 – sede della Casa delle Arti – Spazio Alda Merini21 diverse voci di donne – artiste, attrici, ex detenute, cittadine – hanno dato vita a una performance libera e “on the road”, declamando i versi della poesia creata da Andrea Bianconi attraverso 90 titoli di 90 poesie di Alda Merini scelte da Bianconi per celebrare i 90 della poetessa. 

Le parole si sono propagate nello spazio grazie alla ‘corda’ di un lunghissimo telefono senza fili, un’opera site specific ideata da Andrea Bianconi, che ha dato vita a un passaparola di versi unendo donne con vissuti e storie differenti. A raccogliere la corda, davanti alla porta della ‘Casa delle Arti – Spazio Alda Merini’, accompagnati dalla fisarmonica del musicista Gianpietro Marazza,Donatella Massimilla, Gilberta Crispino e Andrea Bianconi che, su una grande tela bianca disposta sul muro della Casa delle Arti, ha realizzato un’opera scrivendo a mano i 90 titoli di poesie di Alda Merini, opera poi donata dall’artista alla ‘Piccola Ape Furibonda’ per la Casa Museo di Alda Merini

«Donne per ridare voce e memoria non solo alla Poetessa, ma anche a tutte le persone amate, perdute e mai dimenticate, voci che aiutano a ritrovare se stesse. Nostalgie e desideri, versi poetici come semi di rinascita, ora più che mai, in cui avvertiamo la forte mancanza di teatro, arte, cultura e bellezza», dichiara Donatella Massimilla.

«Casa Testori ha accolto con grande interesse l’invito arrivato dal Cetec: grazie alla performance di Andrea Bianconi, artista con il quale abbiamo lavorato per tante iniziative di arte pubblica, si uniscono così due personaggi che hanno lasciato un profondo segno poetico sulla città in cui hanno vissuto, Alda Merini e Giovanni Testori», sottolinea Giuseppe Frangi, Vicepresidente Casa Testori.

L’arte della «bambina Merini», come amava chiamarla Pier Paolo Pasolini, muove i primi passi sul ponte a lei dedicato con le artiste del Cetec Elena Pilan, Mariangela Ginetti insieme ad altre attrici della compagnia di San Vittore e ad artiste vicine alla poetica del Cetec (da Claudia Casolaro a Ivna La Mart ed Elisa Munforte), a chi ha già interpretato pezzi di vita e poesie della Merini come Rossella Rapisardo fino a cittadine di differenti età e cultura. 

«Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta».

“IL SOGNO CANTA SU UNA CORDA SOLA” 
Performance per un telefono senza fili 
Andrea Bianconi – performer
Donatella Massimilla – collaborazione artistica
In collaborazione con Cetec e Casa Testori

Con la partecipazione di: Livia Abbatescianni, Giulia Angiolieri, Paola Brusa, Claudia Casolaro, Francesca Castelli, Gilberta Crispino, Elena D’Agnolo, Rossella De Pietri, Piera Durante, Noa Gabbai, Daniela Giaconi, Mariangela Ginetti, Linda Grittini, Ivna La Mart, Elisa Munforte, Anna Nicoli, Matilde Oggioni, Elena Pilan, Rossella Rapisarda, Karin Rossi, Greta Tommesani.

Data: 21 marzo ore 10.30 in streaming sulle pagine Facebook e Instagram di Spazio Alda Merini
@spazioaldamerini

Marzo 1993. Per Bacon l’ultimo articolo di Testori

Sono numerose le sorprese che riserva l’inventariazione dell’archivio depositato presso Casa Testori. Decine di inediti, centinaia di elaborazioni finora sconosciute di testi celebri, carte capitali per comprendere l’esperienza artistica e umana di Giovanni Testori…
Tra i documenti che davvero danno il «magone», sono comparsi tre fogli manoscritti. Redatti in stilografica blu, solcati da tante frecce che innestano al testo le aggiunte dislocate tra i fogli, vergati nella tipica, orrenda grafia testoriana. Sono le ultime pagine scritte e pubblicate da Giovanni Testori: il destino volle che, nove giorni dopo, la mattina di un 16 marzo come oggi, chiudesse gli occhi per sempre…
È un articolo. Uscì sul «Corriere della Sera» del 7 marzo 1993: 
Gli assalti del destino, la recensione alla mostra di Francis Bacon a Lugano, che riproponiamo qui di seguito. Sono pensieri dominati da un sentimento di serenità, quasi composto. Al tratto, l’attacco tradisce un brivido, per ricomporsi nel volgere della riga: «La grande novità di questa bellissima rassegna, la prima realizzata dopo la morte dell’artista»… Al fondo del testo c’è solo la sigla, GT. Il consueto sigillo al testo finito qui si disarticola e scioglie, si fa simile a una stella, come potrebbe disegnarla un bambino. Quella stella sfilacciata sembra un sigillo sulla sua vita. 
Della vita e dell’arte di Testori rimane tanto, nell’archivio di Casa Testori. Un garbuglio che, dagli anni della giovinezza, conduce a questi fogli estremi. Dove finalmente regna, «quietata», la pace. A tanti percorsi, a tante scoperte apre (e aprirà) lo studio di queste carte.

Gli assalti del destino
Corriere della Sera, 7 marzo 1993

La grande novità di questa bellissima rassegna, la prima realizzata dopo la morte dell’artista, ci coglie proprio lì, ad apertura. Contrariamente a come ci si era abituati, non è con un povero lacerto umano, né con una bocca ferita o spalancata in un urlo o in un vomito di sangue, e neppure con uno dei celeberrimi intrichi di siringhe, che essa si apre; bensì con un gruppo di 4 dipinti duramente decorativi e decoranti; uno dei quali si presenta addirittura con la forma e la pratica utilità di un paravento da salotto (1929-1930). La situazione figurativa di queste opere non risulta in nulla amabile, giocata com’è su un anonimo internazionalismo cubista che rivolga sguardi molto prodighi a figure come Ozanfant. 
Così, sostiamo davanti a queste opere per cercare di comprendere la ragione critica della loro presenza; quando, di colpo, nel dipinto successivo (1933), l’estraneità decorante viene spezzata appunto perché vengono spezzati gli elementi stessi che la sostenevano; infatti dalle strutture di quest’opera, prende a uscire una forma verdastra, metà vegetale e metà animale. Ed ecco, ogni quiete della bella villa lacustre si rompe. 
Il pittore, insomma, ha finalmente schiacciato il gran pedale della propria poesia di disperazione, di gloria e di morte. Tuttavia proprio così facendo la fredda e fin ostile struttura delle opere precedenti rimane come un punto che pare destinato a farsi insieme elemento di struttura portante e nello stesso momento elemento e luogo d’orgasmo, di sadismo e di tortura; quasi fosse il pilastro, o i pilastri, cui legare e slegare di continuo le povere figure umane, gettandole l’una contro l’altra, ora facendole rimbalzare come in un abbruttito gioco erotico, ora in uno sconcio gioco di rimbalzi. 
In tal modo, pian piano, noi vedremo quegli elementi astratti delle opere iniziali diventare sedie, lettini ospedalieri, divani, porte, water, bidè, lavabi, frammenti di scale; diventare l’armamentario sacro e dissacranti di quell’immane operazione sulla vita e sulla chirurgia esistenziale in cui andrà via via crescendo, come in un inno lamentoso, la poesia ottenebrata e, insieme, lucidissima di Bacon. 
Tutto sembra chiarirsi, a furia di assalti senza pace e, lì per lì, senza destino; ma noi non riusciremo mai a comprendere come lui, il grande Bacon, riesca a mescolare, attivamente, l’inferno a una sorta di regno di antichi imperi, di antiche porpore e di antiche glorie. 
M’è già accaduto di scrivere più volte, ma pochi anni e, ora, quell’immane atto di distacco e di allontanamento che è la morte, sono stati sufficienti per trasformare “il genio che non sapeva dipingere” (distinzione, questa, cui Bacon stesso per non poco tempo ebbe a soggiacere) in uno dei più prestigiosi maestri della bellezza planante del secolo; e sia pur d’una bellezza tesa sempre sui limiti della febbre e della perdizione. 
L’arruffato e raggomitolato copista dei Papi, che amava mostrarsi incerto e quasi umiliato nel realizzare dentro i suoi spazi subito memorabili la figura umana, mentiva? Certo giocava la carta non di chi non sapesse come la sua luce e il suo inferno battessero più dalla parte delle glorie enfatizzate della Sistina o dei fiori, delle rose e dei glicini di Monet, di quanto non fossero in qualunque modo legati all’iconografia dell’Espressionismo. 
La seconda sorpresa dunque di questa mostra o, meglio, la totale riconferma ci è data dalla serenità, quasi dalla suprema atarassia cui, rivedendo il percorso del maestro, rivedendolo crescere su di sé, non più come un luogo di follia, bensì come un luogo di meditazione, ancorché terribile e rabbrividente, la grandezza del pittore inglese sembra destinarsi a farsi vieppiù esclamativa e solenne. 
Qua e là, anzi, essa arriva a una sorta di ultimativa tenerezza; di rapina umana che non ci saremmo mai attesi. Quanti dipinti del nostro secolo possono ambire a dare un’immagine così fatale e totale della giovinezza come quelli che compongono il trittico dedicato a John Edwards? 
Ricordo come se fosse accaduto ieri; nelle sale vuote del Tate di Londra dove di lì a poco si sarebbe aperta l’esposizione del 1985, il bellissimo giovane ritrattato, che tra l’altro fu l’ultimo amico del maestro, se ne stava lì di lato alle opere, con quel leggero impaccio che deve provare chi sente d’essere catturato dalle voci dell’eterno. Bacon lo guardava e sembrava, più che felice, quietato; una sorta di cosciente sorriso che aveva finalmente fatto cadere a pezzi il grifagno becco da corvo disperato di sempre. Fu l’ultima volta che lo vidi e gli parlai. 
Oggi, riguardando, a Lugano, quell’opera risento lo stesso struggimento d’una freddezza primaria che volle sembrare di morte, di strage e di tortura ed era, forse, fin dall’inizio un modo per perdersi nella salvezza e per salvarsi dalla perdizione. Un genio, solo un genio può portarci a queste soglie per mostrarci che, pur nell’immensità delle domande tragiche, si vuole estrema la leggerezza di lui, l’amore. Che sull’urlo o dall’urlo di Oreste può discendere anche la dolcezza, che so, d’un Lucien Létinois: “Il patinait merveilleusement”. 

Casa Testori online. Un ciclo su Edward Hopper

Hopper, un artista per questo nostro tempo

Da sabato 3 aprile tutti gli incontri saranno visibili sulla pagina YouTube di Casa Testori

Edward Hopper è uno degli artisti più amati e popolari del 900. Non solo, è l’artista in cui tutti ci siamo riconosciuti in questo lungo anno di pandemia: «Siamo tutti dentro un quadro di Hopper», aveva titolato un grande giornale americano. Le immagini di Hopper parlano a tutti senza bisogno di intermediazioni. Le sue sono opere cariche di infinite suggestioni, che stimolano chiunque le osservi a riflettere e a cercare chiavi di lettura a volte anche molto personali. Ma Hopper non è affatto un pittore “rifugio”, con il quale consolarsi. Hopper è un artista che accende moltissimi stimoli e che “mette al lavoro” chi lo guarda in profondità. È proprio questo l’obiettivo del percorso che Museo Diocesano e Casa Testori intraprendono a partire da martedì 9 marzo, con il sostegno di GiGroup invitando interlocutori non specialisti ad approfondire lo sguardo su alcuni capolavori dell’artista americano.

Questi gli appuntamenti
9 marzo, Luigino Bruni (economista, docente di Etica e cultura d’impresa alla Lumsa)
“Summertime” (1943): La donna sulla soglia, come una nuova Sarah

16 marzo, Andrea Dall’Asta (direttore del Centro San Fedele di Milano
“Camera sul mare” (1951): L’attimo che precede la rivelazione

23 marzo, Silvano Petrosino (filosofo, docente di Teoria delle comunicazioni in Univesrità Cattolica)
“Western Motel” (1957): Silenziosi, ma non affatto muti

30 marzo, Alessandro Zaccuri (scrittore, giornalista, inviato per le pagine cultura di Avvenire)
“Mattino a Cape Cod” (1950): Uno sguardo a ponte tra due mondi

Entra nella riunione in Zoom: ID riunione: 830 6149 9764 / Passcode: 126441
https://us02web.zoom.us/j/83061499764?pwd=aGJHNXhCQTR4WlZaK1V3RWk2b2kwZz09

Tutti gli incontri sono GRATUITI / Non è necessaria prenotazione Gli incontri si svolgono il martedì / Orario: ore 18.30 / Durata: 60 min. E’ previsto l’utilizzo della piattaforma ZOOM. Verrà pubblicato il link di accesso all’incontro sul sito www.chiostrisanteustorgio.it e inviato tramite la newsletter del Museo Diocesano. 

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