Author: Alessandro Frangi

LAURA PUGNO

L’opera di Laura Pugno mira a sottrarsi o a capovolgere le aspettative dello spettatore, a metterlo in difficoltà o in una condizione di incertezza interpretativa rispetto all’opera. È ciò che accade anche in Mis-love, in cui l’artista ribalta l’idea della pianta domestica da appartamento, emblema della cura della casa. Le piante, infatti, rappresentano uno stereotipo positivo ricorrente nelle riviste di arredamento, nel cinema e nelle campagne pubblicitarie. Ma insieme le piante testimoniano l’amore verso il verde che recentemente sta guadagnando grande attenzione, forse anche per i drammatici problemi ambientali che caratterizzano il nostro tempo. Nella sua installazione – costituita da una decina di elementi – Pugno cambia così radicalmente la modalità con cui le piante si presentano allo spettatore, riempiendo gli spazi tra i rami e tra le foglie con della schiuma poliuretanica: sono concrezioni inattese e brutali, che violano il supposto “status” naturale del vegetale (in realtà prodotte industrialmente con un grande impatto ecologico), rendendolo all’improvviso inorganico, inquietante e mostruoso. Eppure quella condizione, alla quale rapidamente la pianta reagirà sviluppando percorsi di crescita e di sopravvivenza alternativa, parla disperatamente di noi uomini che ci dibattiamo in una condizione contraddittoria, tra desiderio di natura dichiarato in ogni situazione e opposizione ideologica a molti dei fenomeni che la natura stessa implica, come la vecchiaia, la malattia, la morte, il rispetto del tempo dei processi. Mis-love mostra così apertamente la nostra ambiguità, la nostra incapacità di tenere un comportamento coerente coi presupposti stessi che dichiariamo. Mostra il nostro limite e la nostra ambiguità, nel vedere e nel giudicare.

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Mis-love, 2019, piante, schiuma poliuretanica, installazione site specific, courtesy l’artista e Galleria Alberto Peola, Torino

ISABELLA PERS

La ricerca degli ultimi anni di Isabella Pers nasce da un confronto diretto con cittadini e attivisti politici che vivono lungo le coste e nelle piccole isole dell’Oceano Indiano e del Pacifico, la cui vita è messa a rischio dal progressivo ma inarrestabile innalzamento del livello del mare. I suoi dipinti testimoniano gli effetti drammatici del cambiamento climatico nelle vite delle persone, che hanno vissuto la transizione dalla condizione di paradiso naturale a quella del disastro a cui, come singoli cittadini di questo mondo, pare difficile opporsi, se non mettendo in discussione il nostro stile di vita e ripensando un contenimento dell’impiego delle risorse fossili. I recenti disegni della serie The Aba ricalcano invece le schermate di alcuni dei siti di informazione o di viaggi che propongono tour in luoghi che nei prossimi anni sono destinati a scomparire, tra i quali anche Venezia, per l’innalzamento della marea. Risultano a ben vedere un invito lugubre, un mesto invito a godersi la bellezza quando ormai si è sull’orlo di un abisso. Il video Present racconta di un’azione realizzata dall’artista insieme ad immigrati scappati da paesi in guerra o vittime di dittature. È un cammino verso la cima di una collina sul Carso, presso una delle trincee della Prima Guerra Mondiale, in cui i segni a terra scavati paiono le cicatrici di un corpo martoriato, che simbolicamente rappresentano gli inutili e troppo rassicuranti confini tracciati dagli uomini. L’azione diventa così la storia di un incontro tra mondi e culture diverse, ma anche un auspicio alla solidarietà e alla comprensione oltre i limiti tracciati dalla diffidenza.

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Flood at Ierutarem ae boou Teaoraereke Village, Kiribati, Claire, 2019, olio su tela, 100 x 120 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
Flood at Ierutarem ae boou Teaoraereke Village, Kiribati, Claire (2), 2019, olio su tela, 100 x 120 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
The Aba (serie) 2019, grafite e acquerello su carta, ciascuno 24 x 32 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
Present, 2018, video, suono, colore, 9’26’’, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta

BEATRICE MEONI

La pittura di Beatrice Meoni è caratterizzata dall’uso di colori pastosi e densi, e da una figurazione scarna ed essenziale che si concentra su episodi minimali, ombre, baluginii di luce, qualche particolare o su dettagli anatomici. Il suo segno è particolarmente incisivo, le pennellate sono essenziali ma sapide, la “palette” cromatica è contenuta con verdi, terre e ocre che ritornano frequentemente nelle sue opere. I soggetti ricorrenti dell’artista fanno riferimento all’universo domestico e al corpo, ma sono resi con un registro assorto e quieto, con un placido silenzio tipico della natura morta. La quiete e la stasi delle immagini sono interrotte appena da un corpo smembrato che cambia improvvisamente la propria postura per cadere nel vuoto, o da un vaso che si palesa, con tratti asciutti, sulla superficie morbida e opaca di un velluto. Un vago senso di sospensione abita i suoi lavori, che sovente mettono l’osservatore in una condizione di intimità contemplativa, di complicità erotica, nella quale lo sguardo è assorbito totalmente dentro il campo visivo dell’opera. È una dinamica in cui l’opera agisce attirando l’attenzione dell’osservatore, ma come se essa stessa, contemporaneamente, avvertisse una sorta di pudicizia nel mostrarsi; è una paura che le fa trattenere il fiato, quando gli occhi di chi guarda si posano, interrogandola, su di lei. Ma è anche un gioco in cui l’osservatore sente la curiosità e la sorpresa di un accadimento inatteso, lontano da ogni prevedibile possibilità. È un riferimento a un altrove immaginato in cui chi guarda si può perdere nella contemplazione.

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Caduta, 2019, olio su tavola, 33 x 25 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Caduta, 2019, olio su tavola, 80 x 60 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Walking (1), 2019, olio su tavola, 120 x 80, cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Brocca, 2017, olio su velluto, 145 x 145 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana

ELENA MAZZI, SARA TIRELLI

A fragmented world indaga le interconnessioni fisiche, chimiche e geologiche tra i tanti attori che sono parte di un sistema di relazioni complesso e articolato. In un lungo piano-sequenza il video mostra un podista che corre sulle pendici dell’Etna, rese in un rigoroso bianco e nero. L’uomo si muove rapidamente in un ambiente scosceso e lunare, tra faglie aperte, massi enormi, mari di lava, avvallamenti e salti di dislivello. Non ha un’apparente destinazione e il suo corpo sembra l’unico segno di vita rispetto all’apparente immobilità dell’ambiente del vulcano, scarno, spoglio e inospitale. L’opera è ispirata alle Teoria delle fratture studiata, a partire dagli anni Ottanta, dal fisico Bruno Giorgini, in cui lo studioso analizza le modalità di comportamento e di reazione delle variabili in campo in presenza di fenomeni di rottura. Alla frattura segue una situazione imprevedibile e di caos, di variabili che impazziscono per una somma di interazioni complesse mai prima sperimentate. È una condizione che si presenta nei fenomeni naturali, geologici e fisici, ma che si registra anche nell’economia e nella finanza. L’opera di Elena Mazzi e Sara Tirelli allude inoltre a ciò che accade quando a fratturarsi sono gli equilibri umani, quando si prendono cioè in considerazione le variabili individuali, sociali e politiche. Rispetto a tale prospettiva il podista risulta correre sul bordo di un burrone, lasciando l’osservatore in costante apprensione. Il rischio che egli affronta è il medesimo che noi stessi come uomini, inconsapevolmente, corriamo.

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A Fragmented World, 2016, video HD, bianco e nero, suono, 5’18”, courtesy le artiste e Ex Elettrofonica, Roma

LALLA LUSSU

La ricerca di Lalla Lussu è rivolta ad indagare le potenzialità del colore di generare l’inatteso, di determinare ritmi, forme, geometrie, strutture e spazi che prima non esistevano. La pratica dell’artista, di natura processuale, è basata sull’applicazione in maniera libera del colore direttamente sui supporti, quali essenzialmente tessuti in juta e in lino grezzi, che vengono che poi lavorati, plissettati a distanza uniforme per renderli mossi, cadenzati e tridimensionali. Tale modalità scultorea, in opposizione alla consueta bidimensionalità dell’immagine pittorica, è ulteriormente rafforzata dall’installazione delle opere non su di una parete, bensì liberamente nel mezzo della stanza, a partire dal soffitto. Lussu capovolge in questo modo la logica dell’opera come stasi contemplativa da guardare su di un piano frontale rispetto all’occhio dell’osservatore e ne attiva invece le potenzialità interattive. Il fruitore infatti si muove, deve zigzagare tra gli elementi, come muovendosi in un bosco, toccando con il corpo le superfici o scansando il tessuto delicatamente con le mani. La sua è una foresta immaginaria, abitata da alberi colorati, dei quali la tela restituisce magicamente la superficie, la rugosità, le increspature e il profumo della corteccia. Lo spettatore è invitato a coglierne i dettagli camminandoci in mezzo, muovendosi liberamente come un esploratore che si inoltra tra gli alberi e si perde tra i vividi colori della foresta tropicale.

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Cortecce, 2017-18, pigmenti naturali su lino, dimensione variabile, courtesy l’artista e Marina Bastianello Gallery, Mestre Venezia

SILVIA GIAMBRONE

L’opera di Silvia Giambrone, di natura prettamente politica, evidenzia e denuncia le modalità dell’assoggettamento femminile attraverso l’impiego di modelli culturali che riguardano il corpo, il comportamento atteso e la manipolazione dell’immaginario. In particolare Il danno mostra un corpo femminile standard in babydoll – quindi tipicamente considerato in una condizione di piacevolezza, carica erotica e seduzione nei confronti dell’uomo – che è stato però deformato da un elemento geometrico estraneo, collocato sull’inguine, e da un’estrusione sull’addome, appena sopra all’ombelico. Tale presenze (che richiamano rispettivamente gli assorbenti igienici e le protesi che si applicano sui seni per modellarli e renderli più voluminosi) spingono l’osservatore a vedere il corpo di quella donna (che è senza volto, e quindi senza una propria identità) come qualcosa di estraneo alla logica del desiderio, ironicamente come ad un “danno” rispetto alle aspettative stereotipe. È la dimostrazione di come un piccolo particolare possa determinare la vita delle persone, condizionarne le forme, i pensieri, il tempo, le libertà, mentre ogni deviazione sia percepita come validante e menomante rispetto tale logica di dominio. Le foto di Baby dull sono la documentazione di una performance realizzata dall’artista in un motel in cui l’artista ha installato delle ciglia finte di metallo, ancorandole al muro con delle catene. L’opera, permanentemente installata nella stanza della struttura, è un invito a un gioco intimo di cambio di prospettiva, di genere e di identità.

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Il danno, 2018, resina, tessuto, 89 x 37 x 30 cm, courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma
Baby dull, 2018, stampa su carta fine art, ciascuna 30.5 x 40.5 cm, courtesy l’artista e Galleria Marcolini, Forlì

ELISABETTA DI SOPRA

Pietas nasce dalla volontà di Elisabetta Di Sopra di riscrivere il mito di Medea raccontato da Euripide in una forma più reale, in cui le vicende perdono l’aura e la rigidità imposta dal mito per essere umanizzate e attualizzate ai nostri tempi. Nell’opera dell’artista Medea non è più la madre che si macchia del delitto dei figli che lei stessa, col proprio grembo, ha generato, ma è una vittima della violenza del nostro presente. Spaesata e frastornata dal dolore, piange i figli dei quali ignora il destino, e di cui disperatamente ricerca una traccia, un segno minimo che possa indicarne la presenza in vita. Su una spiaggia desolata (da cui si vedono, anacronisticamente, la presenza di navi di grandi dimensioni che solcano il mare) Medea ormai vecchia e non più lucida, scava e trattiene con sé una scarpa, una maglietta, dei pantaloni, che il mare restituisce, emblemi di un’assenza che non può più essere ricolmata. La sua figura conserva echi pasoliniani nei vestiti, nelle movenze, nella trattenuta e quasi ieratica disperazione, per la quale non sembra esistere una pace. Pietas è una riflessione sul dramma dell’immigrazione contemporanea, sulle madri che ignorano il destino dei propri figli e sulla speranza negata di un futuro migliore, contro cui si infrangono tante vite che devono solcare mari, scavalcare muri, oltrepassare montagne e linee di confine. L’anziana madre viene così punita dal destino doppiamente, con il lutto e con un’amara e infinita solitudine.

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Pietas (La madrepatria piange i suoi figli morti in terra straniera), 2018, video, colore, suono, 4’52’’, courtesy l’artista
Pietas, 2018, stampa su carta fine art, ciascuna 72 x 41 cm, courtesy l’artista

LINDA CARRARA

Per Linda Carrara la superficie è il luogo della genesi dell’evento pittorico. La superficie è il soggetto, marmo o roccia, come avviene nelle due opere scelte per la mostra. La superficie è anche quella della carta e della tela che assumono la loro identità visiva, attraverso un processo di mimesi. È un’esperienza che si fonda su illustri precedenti. Per esempio nei suoi False Carrara marble l’artista si riaggancia ad una tradizione antica, quella dei finti marmi dipinti da Giotto o Beato Angelico in zone apparentemente periferiche dei loro cicli di affreschi. I marmi sono stati spesso visti come elementi dal valore solo decorativo, in realtà la loro neutralità nasconde segreti e potenti rimandi. La grande opera composita disposta sul muro di fondo della stanza è il risultato di un esercizio di mimesi a cui l’artista si è disposta, e grazie al quale la superficie pittorica trova vita ed energia evocativa nella semplice adesione visiva ad un’altra superficie, quella del marmo di Carrara. Nella composizione, solenne nel suo palesarsi come un grande polittico, accade uno sconfinamento percettivo: la pietra, con le sue venature, sembra farsi cielo solcato da vento, quasi una nuova grande finestra aperta nell’ambiente. Ma la superficie è al centro dell’altro recente lavoro di Carrara: sono “frottage” realizzati posizionando le tele sulla roccia, ai bordi dell’Adda. Sono le rocce che Leonardo avrebbe guardato per le sue Vergini delle rocce dipinte a Milano. Anche in questo caso il rosso intenso usato per i “frottage” richiama un’ipotesi di mutazione: l’elemento minerale evoca, in forma misteriosa, un evento carnale.

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False Carrara marble, 2017, pigmento compresso e acrilico su carta, cornice, venti elementi, 54 x 74 cm, courtesy Galleria Boccanera, Trento 
Frottage Madonna delle rocce, 2019, olio su tela, polittico, sei elementi, 31 x 22 cm, courtesy l’artista

NAZZARENA POLI MARAMOTTI

Non qui Nebbia sono due delle opere realizzate da Nazzarena Poli Maramotti nel corso di una residenza per artisti a Dale i Sunnfjord in Norvegia nel 2019, e il luogo ha influenzato molto la sua pittura. Le giornate interminabili seguite da notti brevi e chiare dell’estate scandinava spingono – o quasi obbligano – a una visione costante di una natura maestosa e pervasiva, ossessivamente costellata di laghi, fiordi, stagni, cascate e pioggia. L’artista ha una lunga consuetudine con le luci del Nord, per via della sua permanenza di molti anni a Norimberga, ed è probabilmente tale familiarità ad aver liberato la sua pittura dalla necessità di una definizione precisa delle forme, dandole quella caratteristica fluida e quella natura “atmosferica” che riconosciamo in queste due opere, di dimensioni molto diverse, esposte a Casa Testori. In Non qui si assiste quasi ad una lotta, tra l’onnipresenza umida che pervade la tela e quello sfondamento dell’azzurro, che ricorda Tiepolo, che si impone con grande intensità. È una lotta che in realtà per Poli Maramotti diventa pretesto per fare del campo pittorico il vero soggetto del suo quadro, dove poter esercitare tutte le potenzialità della pittura stessa, in un’articolazione di contrasti e di continue fratture stilistiche. In Nebbia la stesura più pacificata, quasi di una luce omogenea e ovattata, smargina nella parte superiore in una sottile fascia di pittura tormentata: come un piccolo dramma tutto interno all’evento pittorico, che affonda in questo modo ogni possibile lettura naturalistica dell’opera.

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Non qui, 2019, olio su tela, 160 x 120 cm, courtesy A+B Gallery, Brescia
Nebbia, 2019, olio su tela, 40 x 30 cm, courtesy A+B Gallery, Brescia

 

MICHELA POMARO

L’opera Camille è un omaggio dell’artista alla prima moglie di Claude Monet, Camille Doncieux, morta giovane a trentadue anni nel 1879. Michela Pomaro immagina che nell’intimità di quella loro breve relazione Camille sia stata la prima testimone del polverizzarsi cosmico del colore che avrebbe contrassegnato la lunga, straordinaria vicenda di Monet. È a partire da questa suggestione che ha immaginato il lavoro realizzato appositamente per la mostra. Dentro sei parallelepipedi di plexiglass progettati con linee molto rigorose, quasi oggetti di design, sono state collocate delle luci a led, chiamate ciascuna a realizzare uno spartito visivo differente. Le scatole che compongono l’installazione sono state armonizzate tra di loro, così da dar luogo ad un concerto cromatico in continua mutazione. Il colore si genera da una fonte inattingibile e fluisce nello spazio ridisegnandolo. Come avvenuto in tante esperienze contemporanee Michela Pomaro sfonda i confini specifici della pittura, per proiettarsi in una dimensione che resta comunque saldamente pittorica. Nel lavoro dell’artista gioca anche un altro fattore, che consiste nella dialettica tra la certezza formale dei contenitori e il processo alchemico che accade all’interno, inconoscibile e misterioso. La solidità razionale delle scatole, che rimanda concettualmente alla squadratura della tela, rende più acuta, per contrasto la dimensione di transitorietà e mutevolezza del colore.

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Camille, 2019, plexiglass opal white, plexiglass black, forex e illuminazione a led, sei elementi, ciascuno 40 x 40 x 16 cm, courtesy l’artista

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