Libere Tutte

RENATA BOERO

Le opere di Renata Boero presentate in Libere tutte fanno parte della serie dei Cromogrammi. Sono esposte nella veranda, nell’ambiente visivamente connesso al giardino, con il quale stabiliscono un dialogo stretto e intensamente poetico con il contesto. Le tele non sono dipinte, ma sono esito di collaudati processi grazie ai quali i colori rilasciati da alcune selezionate erbe vengono fatti colare sulle tele stesse che l’artista ha disegnato e ripiegato, ritmando la superficie. Il colore cola e inciampa nella trama dando vita a concrezioni materiche sempre diverse, generando così delle continue trasformazioni della superficie. L’impatto con il sole e con l’aria nella fase di asciugatura completa il processo, lasciando che sulla superficie agiscano anche gli agenti atmosferici. Il risultato sono opere nelle quali la natura entra in gioco non come tema di rappresentazione, ma come fattore controllato che agisce nel farsi stesso dell’opera. Anche il tempo in questo processo riveste un ruolo, quale, ad esempio, nel progressivo consolidarsi delle pieghe, che conferisce una dimensione fisica e scultorea dell’opera. L’allestimento nella veranda di Casa Testori ha esaltato anche un’altra caratteristica di questi lavori di Renata Boero: la dimensione architettonica data dalla loro verticalità. È una tensione verticale nella quale entra in gioco il pensiero dell’artista, che associa a questi totem naturali un’imprevista energia ascensionale: identità formali compiute che si sono conquistate una loro autonomia spaziale.

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Telero, 2015, colore naturale su tela portuale, 90 x 290 cm, courtesy l’artista
Ctonio, 2015, colore naturale su tela portuale, 50 x 150 cm, courtesy l’artista
Ctonio, 2015, colore naturale su tela portuale, 50 x 150 cm, courtesy l’artista
Progetto bianco, 2015, colore naturale su tela portuale, 90 x 90 cm, courtesy l’artista

MARTA SPAGNOLI

Il segno è al centro della ricerca di Marta Spagnoli. È un segno che non scaturisce da ipotesi predeterminate ed è liberato da ogni necessità di significare. Il segno è l’entità primigenia, che indica innanzitutto il vivere della pittura sulla superficie a cui è destinata. Non è un caso che, come accade nell’opera di grandi dimensioni presentata a Casa Testori, il segno prenda un aspetto filamentoso di organismo naturale che abita la tela in modo attivo, come una scrittura in continua mutazione. Il segno per Marta Spagnoli assume infatti valore pittorico nel momento in cui si libera dalle intenzionalità e dalle emotività, accettando di ridursi a traccia, a indizio, semplice esito di un “fare” che a volte può semplicemente coincidere con l’azione del pennello. È una condizione in cui non ci sono gerarchie, né sequenze che possano restituire una logica a quei segni: la pittura diventa così un campo aperto in cui avviene una riemersione di forme, sempre in bilico tra arcaico e presente, tra dimensione fisica e dimensione mitica. Il segno, per quanto scarico di contenuti, non retrocede mai nell’astrazione. La superficie, come ben riscontrabile in Untitled, diventa così luogo di grande densità pittorica, un campo dove vengono a raccogliersi energie molteplici ed elementari. La tela diventa spazio abitato da queste sequenze, che non sono semplici restituzioni in scrittura del reale, ma particelle pregnanti dalle quali attendersi nuovi e continui processi di significazione.

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Untitled 2019, acrilico ed olio su tela, 150 x 200 cm, courtesy l’artista

IVA LULASHI

Il punto di partenza della pittura di Iva Lulashi è frequentemente un “frame” video. L’artista, dopo aver compiuto una ricerca nel web con alcune delle parole che ama indagare, sceglie un’immagine che ritiene adatta a innescare un processo pittorico. Il “frame” funziona da spiraglio sulla realtà e proprio per la sua indeterminatezza e anche la sua ambiguità lascia spazio aperto all’agire della pittura. È un metodo a cui l’artista si attiene con molta coerenza e che sta alla radice dell’opera Sweet flagrum, realizzata appositamente per Libere tutte. È un olio di dimensioni nettamente più grandi rispetto alla consueta produzione di Lulashi, documentata dagli altri due quadri esposti. Il corpo di donna inghiottito da una natura dall’apparenza vorace è una prova di alta qualità e intensità pittorica, con quelle stesure a macchia che restituiscono una tensione drammatica che è intrinseca al processo tecnico. L’opera vive così di una doppia spinta contrastante. Da una parte mantiene un senso di lontananza, fisica e temporale, restituito dal tono ovattato della pittura; dall’altra esprime una dimensione di imminenza, di urgenza che è propria delle situazioni indagate. Anche la figura femminile di Sweet flagrum è sottoposta a questa duplice tensione che la sospinge nel groviglio vegetale del contesto (il “dolce flagello” a cui fa riferimento il titolo dell’opera) e contemporaneamente la fa rimbalzare sulla superficie della tela. Lo spazio liberato dall’indeterminatezza del “frame” diventa in questo modo un campo in cui la pittura può operare, ampliando oltre misura lo spettro dell’ambiguità.

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Sweet Flagrum 2019, olio su tela, 90 x 120 cm, courtesy l’artista e Prometeo Gallery, Milano 
Sposta il sole 2019, olio su tela, 30 x 30 cm, courtesy l’artista e Prometeo Gallery, Milano
Il ridicolo addio 2019, olio su tela, 40 x 50 cm, courtesy l’artista e Prometeo Gallery, Milano

DEBORA HIRSCH

I lavori presentati in mostra da Debora Hirsch sono complementari e spiazzanti nella relazione tra di loro. La prima operaIconography of silence è costituita da due video, confezionati come un dittico. L’artista affronta il tema drammatico degli abusi sulle donne, scegliendo un linguaggio scabro che nulla concede alla retorica e alla spettacolarizzazione. Nel primo video frammenti di immagini di violenze riprese da telecamere ambientali emergono dal fondo dello schermo per pochi istanti concitati e poi lasciare spazio allo sconcerto e al silenzio. Nel secondo, invece, poco alla volta assistiamo al comporsi di una sequenza di frasi reali che hanno accompagnato gli episodi di violenza, in caratteri di color rosso. Il flusso delle parole alla fine stabilisce una “texture” che trafigge lo sguardo. La violenza trova così una sua voce che risulta ancora più impattante nell’assenza del suono che contraddistingue l’opera. La superficie a specchio dei due schermi completa il senso dell’opera: chi guarda ritrova la propria immagine catturata dai video come a certificare l’impossibilità di chiamarsi fuori. Di fronte la grande tela della serie Firmamento funziona da compensazione, con lo stile arioso e immaginifico della composizione. Hirsch infatti dispiega sulla superficie della tela, con molta libertà, elementi derivati da una sensibilità visiva latina. L’aspetto è volutamente neutro e decorativo. La sensazione, per colui che guarda, è che quel viluppo di forme abbiano una funzione taumaturgica, che bilancia il male sigillato dentro le scatole nere dei video.

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Iconography of Silence (images), 2019, ipad, cornice, specchio, 32 x 39 cm, courtesy l’artista
Iconography of Silence (sentences), 2019, ipad, cornice, specchio, 32 x 39 cm courtesy l’artista
Firmamento, 2019, olio su tela, 110 x 186 cm, courtesy l’artista

LUCIA VERONESI

Era lì da sempre nasce durante un periodo di residenza di Lucia Veronesi in Norvegia. L’opera, che è formata da rocce e da materiali di risulta provenienti da lavorazioni industriali, è costituita da elementi raccolti in numerose camminate, delle quali sono traccia e memoria, una sorta di casuale campionamento. Nell’installazione – il cui titolo ha un sapore vagamente esistenziale riferito forse anche alla condizione di abbandono dei materiali raccolti – l’artista associa elementi leggeri, come i tessuti, con parti scultoree più massive, realizzate invece in roccia e gesso. Era lì da sempre appare così costituita da forme eterogenee, da scarti (cioè gli elementi meno nobili) del paesaggio e del ciclo produttivo, tessuti sfibrati e strappati. A questi Veronesi dà nuova vita, risemantizzandoli come elementi costitutivi di un nuovo paesaggio, ipotetico, mentale e proiettivo, ma non per questo meno suggestivo e gravido emozionalmente. Coesistono così nell’opera componenti naturali e materiale antropico, istanze di tipo organico e i segni nascosti del nostro mondo industriale, entrambi parti di un’orografia complessa che procede per suggestione, per frammenti, per paratassi, per addizione di elementi successivi. L’opera, riallestita e rimodellata sulla planimetria della stanza di Casa Testori, dialoga con il ritaglio di paesaggio che si vede dalla finestra, in un continuo rimando di frammenti materiali, cromatici e geometrici.

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Era lì da sempre, 2019, tessuto, gesso, acrilico e rocce, installazione ambientale, courtesy l’artista

ESTHER STOCKER

La pratica artistica di Esther Stocker è rivolta alla natura percettiva dell’immagine e dello spazio, che vengono indagati sia con la pittura che con opere e installazioni di natura tridimensionale. I suoi lavori, asciutti e razionali, analizzano l’ambiguità ottica sottesa alle matrici geometriche, alle ripetizioni delle medesime forme e alle sovrapposizioni di più trame. Stocker crea infatti – con strumenti semplici e minimali come la linea, il poligono e l’impiego del semplice bianco e nero – delle strutture visive in cui gli elementi spingono l’occhio in una condizione di difficoltà di lettura o di possibile ambiguità spaziale. L’incertezza, il conflitto tra più ipotesi interpretative, tra forme bidimensionali e visione prospettica, mettono lo spettatore in una condizione di spiazzamento e di ludico piacere; ma anche di ansia di comprensione a cui risulta difficile sottrarsi se non deviando lo sguardo altrove, chiudendo gli occhi o, quando è possibile, toccando con le mani. I lavori di Stocker mostrano così i limiti strumentali insiti nelle consuete modalità visive con cui siamo abituati a guardare il mondo, costringendoci a ridiscuterne la pregnanza e la reale efficacia. Inoltre le sue opere testimoniano le possibilità dell’immagine, e più in generale dell’arte, di costruire mondi che non ci sono e di creare spazi indeterminati, astratti. Luoghi nei quali l’occhio e l’osservatore possono smarrire le coordinate che ci aggrappano all’ordinario e perdersi.

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Untitled, 2017, acrilico su tela, 100 x 100 cm, courtesy l’artista e Galerie Alberta Pane, Parigi e Venezia
Untitled, 2017, acrilico su tela, 140 x 160 cm, courtesy l’artista e Galerie Alberta Pane, Parigi e Venezia

CHRIS ROCCHEGIANI

La pratica artistica di Chris Rocchegiani è caratterizzata dalla presenza simultanea di più stili e più soluzioni esecutive, che riferiscono a differenti modalità pittoriche. Nelle sue tele si riconoscono infatti sezioni di diversa natura: parti gestuali e informali, caratterizzate dalla predominanza del segno e dell’azione; aree aniconiche di puro colore, improntate agli aspetti lirici; episodi riconducibili figurativi sintetici e frugali, in cui gli elementi sulla tela paiono brandelli di realtà ricostruiti grazie a un’azione essenzialmente mnemonica. L’opera dell’artista è così basata su un linguaggio plurimo, discontinuo e metamorfico, che si differenzia linguisticamente dalla forma più consueta di pittura, che avviene in senso identitario monolitico. Per Rocchegiani la pittura è infatti esercizio di libertà intima, un’indagine tormentata che, oltre l’affondo e la corsa verso una direzione chiara e programmata, ammette anarchicamente anche l’arretramento, il riesame, la dissipazione, lo sviluppo poliedrico, la contraddizione, lo zig-zag. In questo modo le sue tele sono campi di possibilità, incertezze sorpassate ma che potrebbero ripresentarsi ancora, colore che c’è ma che potrebbe condurre a un ripensamento. Sulla superficie sono così tanti quadri a stratificarsi – reali e potenziali – che vivono insieme in uno stato di continua tensione. Chi guarda deve così fare esercizio di ricomposizione e di ricucitura per cogliere le parole degli elementi mentre, sulla tela, si parlano sottovoce.

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L’angelo sterminatore, 2019, olio su tela, 90 x 120 cm, courtesy l’artista
L’angelo sterminatore, 2019, olio su tela, 90 x 120 cm, courtesy l’artista
Composizione da camera, 2019, olio su tela, 50 x 40 cm, courtesy l’artista

LAURA PUGNO

L’opera di Laura Pugno mira a sottrarsi o a capovolgere le aspettative dello spettatore, a metterlo in difficoltà o in una condizione di incertezza interpretativa rispetto all’opera. È ciò che accade anche in Mis-love, in cui l’artista ribalta l’idea della pianta domestica da appartamento, emblema della cura della casa. Le piante, infatti, rappresentano uno stereotipo positivo ricorrente nelle riviste di arredamento, nel cinema e nelle campagne pubblicitarie. Ma insieme le piante testimoniano l’amore verso il verde che recentemente sta guadagnando grande attenzione, forse anche per i drammatici problemi ambientali che caratterizzano il nostro tempo. Nella sua installazione – costituita da una decina di elementi – Pugno cambia così radicalmente la modalità con cui le piante si presentano allo spettatore, riempiendo gli spazi tra i rami e tra le foglie con della schiuma poliuretanica: sono concrezioni inattese e brutali, che violano il supposto “status” naturale del vegetale (in realtà prodotte industrialmente con un grande impatto ecologico), rendendolo all’improvviso inorganico, inquietante e mostruoso. Eppure quella condizione, alla quale rapidamente la pianta reagirà sviluppando percorsi di crescita e di sopravvivenza alternativa, parla disperatamente di noi uomini che ci dibattiamo in una condizione contraddittoria, tra desiderio di natura dichiarato in ogni situazione e opposizione ideologica a molti dei fenomeni che la natura stessa implica, come la vecchiaia, la malattia, la morte, il rispetto del tempo dei processi. Mis-love mostra così apertamente la nostra ambiguità, la nostra incapacità di tenere un comportamento coerente coi presupposti stessi che dichiariamo. Mostra il nostro limite e la nostra ambiguità, nel vedere e nel giudicare.

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Mis-love, 2019, piante, schiuma poliuretanica, installazione site specific, courtesy l’artista e Galleria Alberto Peola, Torino

ISABELLA PERS

La ricerca degli ultimi anni di Isabella Pers nasce da un confronto diretto con cittadini e attivisti politici che vivono lungo le coste e nelle piccole isole dell’Oceano Indiano e del Pacifico, la cui vita è messa a rischio dal progressivo ma inarrestabile innalzamento del livello del mare. I suoi dipinti testimoniano gli effetti drammatici del cambiamento climatico nelle vite delle persone, che hanno vissuto la transizione dalla condizione di paradiso naturale a quella del disastro a cui, come singoli cittadini di questo mondo, pare difficile opporsi, se non mettendo in discussione il nostro stile di vita e ripensando un contenimento dell’impiego delle risorse fossili. I recenti disegni della serie The Aba ricalcano invece le schermate di alcuni dei siti di informazione o di viaggi che propongono tour in luoghi che nei prossimi anni sono destinati a scomparire, tra i quali anche Venezia, per l’innalzamento della marea. Risultano a ben vedere un invito lugubre, un mesto invito a godersi la bellezza quando ormai si è sull’orlo di un abisso. Il video Present racconta di un’azione realizzata dall’artista insieme ad immigrati scappati da paesi in guerra o vittime di dittature. È un cammino verso la cima di una collina sul Carso, presso una delle trincee della Prima Guerra Mondiale, in cui i segni a terra scavati paiono le cicatrici di un corpo martoriato, che simbolicamente rappresentano gli inutili e troppo rassicuranti confini tracciati dagli uomini. L’azione diventa così la storia di un incontro tra mondi e culture diverse, ma anche un auspicio alla solidarietà e alla comprensione oltre i limiti tracciati dalla diffidenza.

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Flood at Ierutarem ae boou Teaoraereke Village, Kiribati, Claire, 2019, olio su tela, 100 x 120 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
Flood at Ierutarem ae boou Teaoraereke Village, Kiribati, Claire (2), 2019, olio su tela, 100 x 120 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
The Aba (serie) 2019, grafite e acquerello su carta, ciascuno 24 x 32 cm, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta
Present, 2018, video, suono, colore, 9’26’’, courtesy l’artista e aA29 Project Room, Milano e Caserta

BEATRICE MEONI

La pittura di Beatrice Meoni è caratterizzata dall’uso di colori pastosi e densi, e da una figurazione scarna ed essenziale che si concentra su episodi minimali, ombre, baluginii di luce, qualche particolare o su dettagli anatomici. Il suo segno è particolarmente incisivo, le pennellate sono essenziali ma sapide, la “palette” cromatica è contenuta con verdi, terre e ocre che ritornano frequentemente nelle sue opere. I soggetti ricorrenti dell’artista fanno riferimento all’universo domestico e al corpo, ma sono resi con un registro assorto e quieto, con un placido silenzio tipico della natura morta. La quiete e la stasi delle immagini sono interrotte appena da un corpo smembrato che cambia improvvisamente la propria postura per cadere nel vuoto, o da un vaso che si palesa, con tratti asciutti, sulla superficie morbida e opaca di un velluto. Un vago senso di sospensione abita i suoi lavori, che sovente mettono l’osservatore in una condizione di intimità contemplativa, di complicità erotica, nella quale lo sguardo è assorbito totalmente dentro il campo visivo dell’opera. È una dinamica in cui l’opera agisce attirando l’attenzione dell’osservatore, ma come se essa stessa, contemporaneamente, avvertisse una sorta di pudicizia nel mostrarsi; è una paura che le fa trattenere il fiato, quando gli occhi di chi guarda si posano, interrogandola, su di lei. Ma è anche un gioco in cui l’osservatore sente la curiosità e la sorpresa di un accadimento inatteso, lontano da ogni prevedibile possibilità. È un riferimento a un altrove immaginato in cui chi guarda si può perdere nella contemplazione.

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Caduta, 2019, olio su tavola, 33 x 25 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Caduta, 2019, olio su tavola, 80 x 60 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Walking (1), 2019, olio su tavola, 120 x 80, cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana
Brocca, 2017, olio su velluto, 145 x 145 cm, courtesy l’artista e Cardelli & Fontana, Sarzana