Libere Tutte

ELENA MAZZI, SARA TIRELLI

A fragmented world indaga le interconnessioni fisiche, chimiche e geologiche tra i tanti attori che sono parte di un sistema di relazioni complesso e articolato. In un lungo piano-sequenza il video mostra un podista che corre sulle pendici dell’Etna, rese in un rigoroso bianco e nero. L’uomo si muove rapidamente in un ambiente scosceso e lunare, tra faglie aperte, massi enormi, mari di lava, avvallamenti e salti di dislivello. Non ha un’apparente destinazione e il suo corpo sembra l’unico segno di vita rispetto all’apparente immobilità dell’ambiente del vulcano, scarno, spoglio e inospitale. L’opera è ispirata alle Teoria delle fratture studiata, a partire dagli anni Ottanta, dal fisico Bruno Giorgini, in cui lo studioso analizza le modalità di comportamento e di reazione delle variabili in campo in presenza di fenomeni di rottura. Alla frattura segue una situazione imprevedibile e di caos, di variabili che impazziscono per una somma di interazioni complesse mai prima sperimentate. È una condizione che si presenta nei fenomeni naturali, geologici e fisici, ma che si registra anche nell’economia e nella finanza. L’opera di Elena Mazzi e Sara Tirelli allude inoltre a ciò che accade quando a fratturarsi sono gli equilibri umani, quando si prendono cioè in considerazione le variabili individuali, sociali e politiche. Rispetto a tale prospettiva il podista risulta correre sul bordo di un burrone, lasciando l’osservatore in costante apprensione. Il rischio che egli affronta è il medesimo che noi stessi come uomini, inconsapevolmente, corriamo.

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A Fragmented World, 2016, video HD, bianco e nero, suono, 5’18”, courtesy le artiste e Ex Elettrofonica, Roma

LALLA LUSSU

La ricerca di Lalla Lussu è rivolta ad indagare le potenzialità del colore di generare l’inatteso, di determinare ritmi, forme, geometrie, strutture e spazi che prima non esistevano. La pratica dell’artista, di natura processuale, è basata sull’applicazione in maniera libera del colore direttamente sui supporti, quali essenzialmente tessuti in juta e in lino grezzi, che vengono che poi lavorati, plissettati a distanza uniforme per renderli mossi, cadenzati e tridimensionali. Tale modalità scultorea, in opposizione alla consueta bidimensionalità dell’immagine pittorica, è ulteriormente rafforzata dall’installazione delle opere non su di una parete, bensì liberamente nel mezzo della stanza, a partire dal soffitto. Lussu capovolge in questo modo la logica dell’opera come stasi contemplativa da guardare su di un piano frontale rispetto all’occhio dell’osservatore e ne attiva invece le potenzialità interattive. Il fruitore infatti si muove, deve zigzagare tra gli elementi, come muovendosi in un bosco, toccando con il corpo le superfici o scansando il tessuto delicatamente con le mani. La sua è una foresta immaginaria, abitata da alberi colorati, dei quali la tela restituisce magicamente la superficie, la rugosità, le increspature e il profumo della corteccia. Lo spettatore è invitato a coglierne i dettagli camminandoci in mezzo, muovendosi liberamente come un esploratore che si inoltra tra gli alberi e si perde tra i vividi colori della foresta tropicale.

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Cortecce, 2017-18, pigmenti naturali su lino, dimensione variabile, courtesy l’artista e Marina Bastianello Gallery, Mestre Venezia

SILVIA GIAMBRONE

L’opera di Silvia Giambrone, di natura prettamente politica, evidenzia e denuncia le modalità dell’assoggettamento femminile attraverso l’impiego di modelli culturali che riguardano il corpo, il comportamento atteso e la manipolazione dell’immaginario. In particolare Il danno mostra un corpo femminile standard in babydoll – quindi tipicamente considerato in una condizione di piacevolezza, carica erotica e seduzione nei confronti dell’uomo – che è stato però deformato da un elemento geometrico estraneo, collocato sull’inguine, e da un’estrusione sull’addome, appena sopra all’ombelico. Tale presenze (che richiamano rispettivamente gli assorbenti igienici e le protesi che si applicano sui seni per modellarli e renderli più voluminosi) spingono l’osservatore a vedere il corpo di quella donna (che è senza volto, e quindi senza una propria identità) come qualcosa di estraneo alla logica del desiderio, ironicamente come ad un “danno” rispetto alle aspettative stereotipe. È la dimostrazione di come un piccolo particolare possa determinare la vita delle persone, condizionarne le forme, i pensieri, il tempo, le libertà, mentre ogni deviazione sia percepita come validante e menomante rispetto tale logica di dominio. Le foto di Baby dull sono la documentazione di una performance realizzata dall’artista in un motel in cui l’artista ha installato delle ciglia finte di metallo, ancorandole al muro con delle catene. L’opera, permanentemente installata nella stanza della struttura, è un invito a un gioco intimo di cambio di prospettiva, di genere e di identità.

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Il danno, 2018, resina, tessuto, 89 x 37 x 30 cm, courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma
Baby dull, 2018, stampa su carta fine art, ciascuna 30.5 x 40.5 cm, courtesy l’artista e Galleria Marcolini, Forlì

ELISABETTA DI SOPRA

Pietas nasce dalla volontà di Elisabetta Di Sopra di riscrivere il mito di Medea raccontato da Euripide in una forma più reale, in cui le vicende perdono l’aura e la rigidità imposta dal mito per essere umanizzate e attualizzate ai nostri tempi. Nell’opera dell’artista Medea non è più la madre che si macchia del delitto dei figli che lei stessa, col proprio grembo, ha generato, ma è una vittima della violenza del nostro presente. Spaesata e frastornata dal dolore, piange i figli dei quali ignora il destino, e di cui disperatamente ricerca una traccia, un segno minimo che possa indicarne la presenza in vita. Su una spiaggia desolata (da cui si vedono, anacronisticamente, la presenza di navi di grandi dimensioni che solcano il mare) Medea ormai vecchia e non più lucida, scava e trattiene con sé una scarpa, una maglietta, dei pantaloni, che il mare restituisce, emblemi di un’assenza che non può più essere ricolmata. La sua figura conserva echi pasoliniani nei vestiti, nelle movenze, nella trattenuta e quasi ieratica disperazione, per la quale non sembra esistere una pace. Pietas è una riflessione sul dramma dell’immigrazione contemporanea, sulle madri che ignorano il destino dei propri figli e sulla speranza negata di un futuro migliore, contro cui si infrangono tante vite che devono solcare mari, scavalcare muri, oltrepassare montagne e linee di confine. L’anziana madre viene così punita dal destino doppiamente, con il lutto e con un’amara e infinita solitudine.

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Pietas (La madrepatria piange i suoi figli morti in terra straniera), 2018, video, colore, suono, 4’52’’, courtesy l’artista
Pietas, 2018, stampa su carta fine art, ciascuna 72 x 41 cm, courtesy l’artista

LINDA CARRARA

Per Linda Carrara la superficie è il luogo della genesi dell’evento pittorico. La superficie è il soggetto, marmo o roccia, come avviene nelle due opere scelte per la mostra. La superficie è anche quella della carta e della tela che assumono la loro identità visiva, attraverso un processo di mimesi. È un’esperienza che si fonda su illustri precedenti. Per esempio nei suoi False Carrara marble l’artista si riaggancia ad una tradizione antica, quella dei finti marmi dipinti da Giotto o Beato Angelico in zone apparentemente periferiche dei loro cicli di affreschi. I marmi sono stati spesso visti come elementi dal valore solo decorativo, in realtà la loro neutralità nasconde segreti e potenti rimandi. La grande opera composita disposta sul muro di fondo della stanza è il risultato di un esercizio di mimesi a cui l’artista si è disposta, e grazie al quale la superficie pittorica trova vita ed energia evocativa nella semplice adesione visiva ad un’altra superficie, quella del marmo di Carrara. Nella composizione, solenne nel suo palesarsi come un grande polittico, accade uno sconfinamento percettivo: la pietra, con le sue venature, sembra farsi cielo solcato da vento, quasi una nuova grande finestra aperta nell’ambiente. Ma la superficie è al centro dell’altro recente lavoro di Carrara: sono “frottage” realizzati posizionando le tele sulla roccia, ai bordi dell’Adda. Sono le rocce che Leonardo avrebbe guardato per le sue Vergini delle rocce dipinte a Milano. Anche in questo caso il rosso intenso usato per i “frottage” richiama un’ipotesi di mutazione: l’elemento minerale evoca, in forma misteriosa, un evento carnale.

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False Carrara marble, 2017, pigmento compresso e acrilico su carta, cornice, venti elementi, 54 x 74 cm, courtesy Galleria Boccanera, Trento 
Frottage Madonna delle rocce, 2019, olio su tela, polittico, sei elementi, 31 x 22 cm, courtesy l’artista

NAZZARENA POLI MARAMOTTI

Non qui Nebbia sono due delle opere realizzate da Nazzarena Poli Maramotti nel corso di una residenza per artisti a Dale i Sunnfjord in Norvegia nel 2019, e il luogo ha influenzato molto la sua pittura. Le giornate interminabili seguite da notti brevi e chiare dell’estate scandinava spingono – o quasi obbligano – a una visione costante di una natura maestosa e pervasiva, ossessivamente costellata di laghi, fiordi, stagni, cascate e pioggia. L’artista ha una lunga consuetudine con le luci del Nord, per via della sua permanenza di molti anni a Norimberga, ed è probabilmente tale familiarità ad aver liberato la sua pittura dalla necessità di una definizione precisa delle forme, dandole quella caratteristica fluida e quella natura “atmosferica” che riconosciamo in queste due opere, di dimensioni molto diverse, esposte a Casa Testori. In Non qui si assiste quasi ad una lotta, tra l’onnipresenza umida che pervade la tela e quello sfondamento dell’azzurro, che ricorda Tiepolo, che si impone con grande intensità. È una lotta che in realtà per Poli Maramotti diventa pretesto per fare del campo pittorico il vero soggetto del suo quadro, dove poter esercitare tutte le potenzialità della pittura stessa, in un’articolazione di contrasti e di continue fratture stilistiche. In Nebbia la stesura più pacificata, quasi di una luce omogenea e ovattata, smargina nella parte superiore in una sottile fascia di pittura tormentata: come un piccolo dramma tutto interno all’evento pittorico, che affonda in questo modo ogni possibile lettura naturalistica dell’opera.

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Non qui, 2019, olio su tela, 160 x 120 cm, courtesy A+B Gallery, Brescia
Nebbia, 2019, olio su tela, 40 x 30 cm, courtesy A+B Gallery, Brescia

 

MICHELA POMARO

L’opera Camille è un omaggio dell’artista alla prima moglie di Claude Monet, Camille Doncieux, morta giovane a trentadue anni nel 1879. Michela Pomaro immagina che nell’intimità di quella loro breve relazione Camille sia stata la prima testimone del polverizzarsi cosmico del colore che avrebbe contrassegnato la lunga, straordinaria vicenda di Monet. È a partire da questa suggestione che ha immaginato il lavoro realizzato appositamente per la mostra. Dentro sei parallelepipedi di plexiglass progettati con linee molto rigorose, quasi oggetti di design, sono state collocate delle luci a led, chiamate ciascuna a realizzare uno spartito visivo differente. Le scatole che compongono l’installazione sono state armonizzate tra di loro, così da dar luogo ad un concerto cromatico in continua mutazione. Il colore si genera da una fonte inattingibile e fluisce nello spazio ridisegnandolo. Come avvenuto in tante esperienze contemporanee Michela Pomaro sfonda i confini specifici della pittura, per proiettarsi in una dimensione che resta comunque saldamente pittorica. Nel lavoro dell’artista gioca anche un altro fattore, che consiste nella dialettica tra la certezza formale dei contenitori e il processo alchemico che accade all’interno, inconoscibile e misterioso. La solidità razionale delle scatole, che rimanda concettualmente alla squadratura della tela, rende più acuta, per contrasto la dimensione di transitorietà e mutevolezza del colore.

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Camille, 2019, plexiglass opal white, plexiglass black, forex e illuminazione a led, sei elementi, ciascuno 40 x 40 x 16 cm, courtesy l’artista

SERENA VESTRUCCI

Nell’opera di Serena Vestrucci l’esperienza quotidiana fornisce molto spesso la materia prima dell’esperienza artistica. Materia prima nel senso più concreto del termine: se nel ciclo Trucchi le sue tele era dipinte con gli ombretti, rubando la tecnica alla quotidianità, in questi nuovi lavori presentati in mostra sono il lenzuolo e la federa del suo letto a fare le veci della tela. Come lei stessa ha spiegato, “ogni notte lego la biro ad una diversa parte del mio corpo e lascio che questo tracci liberamente il segno del suo movimento incontrollato e incondizionato dalla mente attiva”. Il tema di queste due opere è quindi ciò che il corpo dell’artista fa durante il sonno: il risultato sono tracciati leggeri, indecifrabili nei loro sviluppi, che raccontano con grande delicatezza e pudore il substrato della coscienza. Tali tracciati sono come sismografi di un’azione artistica involontaria: e l’involontarietà, rigorosamente rispettata dall’artista nel processo, diventa fattore estetico, con la grazia complessiva che regola l’insieme sia dei segni che del supporto. In un suo recente libretto Giorgio Agamben, commentando l’opera Allegoria della pittura di Artemisia Gentileschi, ha ricordato come per Aristotele il dormire fosse “il possesso della conoscenza in potenza”, mentre lo stato di veglia coincide con “la conoscenza in atto”. La potenza, spiega Agamben, non è “quella generica che in un bambino può diventare questo o quello”, ma è la potenza “che compete a chi ha acquisito l’arte e il sapere corrispondente”. Possiamo quindi immaginare che con La dimensione del sonno Serena Vestrucci abbia lasciato al suo stato di “potenza” libero e infinito spazio.

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La dimensione del sonno, 2019, lenzuolo, dieci giorni, 224 x 260 cm, courtesy l’artista
La dimensione del sonno, 2019, federa, 80 x 50 cm, courtesy l’artista

Libere Tutte – la gallery completa

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Sabato 15 febbraio alle 16 alla presenza dei curatori e dell’art director che lo ha progettato (studio CR. RO. MO.), verrà presentato il Catalogo della mostra, quasi un libro d’arte… Sarà anche l’occasione per un ricordo di Lalla Lussu, l’artista che ci ha lasciati il 25 gennaio scorso.

Renata Boero, Linda Carrara, Elisabetta Di Sopra, Silvia Giambrone, Debora Hirsch, Iva Lulashi, Lalla Lussu, Elena Mazzi, Beatrice Meoni, Maria Morganti, Isabella Pers, Nazzarena Poli Maramotti, Michela Pomaro, Laura Pugno, Chris Rocchegiani, Giorgia Severi, Marta Spagnoli, Esther Stocker, Sara Tirelli, Lucia Veronesi, Serena Vestrucci

fotografie: ©Michele Alberto Sereni

Libere tutte
a cura di Daniele Capra e Giuseppe Frangi
Casa Testori, Novate Milanese
Vernissage sabato 23 novembre ore 17
Dal 26 novembre 2019 al 16 febbraio 2020

Casa Testori è lieta di presentare Libere tutte, progetto espositivo a cura di Daniele Capra e Giuseppe Frangi. In mostra 21 tra le artiste più significative attive nel nostro paese, presenti con oltre una sessantina di opere – che spaziano dalla pittura alla scultura, dal video all’installazione. La mostra, ospitata nelle stanze della casa che fu la dimora di Giovanni Testori, prosegue idealmente i passi del progetto Graffiare il presente, che lo scorso anno ha fatto il punto della situazione sulla ricerca pittorica condotta in Italia.

Libere tutte parte dall’idea di cogliere il lavoro condotto dalle artiste, archiviando momentaneamente le questioni di genere, cercando invece di documentare l’importanza e la forza travolgente della ricerca condotta dalle artiste in Italia, paese per troppi aspetti ancora legato a rigidi schematismi e a una condizione di asimmetria maschile/femminile nei rapporti sociali ed economici. Il titolo della mostra, ispirato ad uno dei motti di rivolta della contestazione degli anni Settanta, spiega il desiderio di parlare di arte e di capire perché le artiste oggi stanno dimostrando di avere una marcia in più. Libere Tutte è una mostra interrogativa, aperta nei temi e nei media impiegati, anarchica e senza facili risposte, che avrebbe potuto simmetricamente intitolarsi Liberi Tutti.

Il progetto, infatti, vuole esplorare la complessità dello sguardo che le artiste hanno introdotto nell’orizzonte della produzione artistica, rendendosi capaci di scartamenti coraggiosi rispetto alle tendenze più di moda. Con il loro agire hanno allargato lo spettro della sensibilità artistica, dando prova anche di una importante vocazione sperimentale. Trova così conferma quella situazione che per prima Lea Vergine aveva lucidamente intuito, sottolineando come le opere delle artiste siano «emblemi audaci di un’articolata condizione umana, realizzati con quella non pietas che butta a mare il concetto di normalità». 

Libere Tutte non è una mostra da otto marzo del contemporaneo, ma un progetto che vuole scattare una fotografia rispetto al fenomeno della presenza delle artiste nel sistema dell’arte del nostro paese che si sta imponendo per vitalità, intensità e forza. Il progetto mira a fornire alcuni degli esempi più significativi, in un arco generazionale molto ampio, della ricerca condotta rispetto a tutte le forme espressive e ai più differenti contenuti. 

Libere Tutte è ospitata nelle venti stanze disponibili di Casa Testori, parte delle quali occupate da libri della grande Biblioteca d’arte appartenuta a Giovanni Testori.

La mostra è corredata da un catalogo, progettato da CH RO MO.

Sponsor della mostra Natixis.

Dal 26 novembre 2019 al 16 febbraio 2020
Casa Testori, Largo Angelo Testori 13
20026 Novate Milanese (Mi)

Martedi  – Venerdi: 10.00 – 13.00 | 14.00 – 18.00
Sabato e II Domenica del mese: 14.30 – 19.30

www.casatestori.it
info@casatestori.it
t. 02.36589697