Month: Gennaio 2011

Andrea Mastrovito, SETTE GIORNI

Stanza 21

L’opera che presenterò a Giorni Felici è un immediato rimando al titolo della mostra. Entrando in casa, ho avvertito una sensazione familiare. “Familiare” sia nell’accezione freudiana di opposto e, al contempo, sinonimo di “perturbante” (heimlich, ovvero “familiare” in tedesco, ha un secondo significato più letterale ovvero “tenuto in casa, nascosto”), sia nel suo significato più comune, di qualcosa vi già conosciuto, vissuto, come di un passato, recente e magari, appunto, sereno, “felice”. Il contrasto fra queste due sensazioni, simili ed opposte, mi ha condotto a concepire questo lavoro, Sette Giorni. “Sette Giorni” sono una settimana, l’emblema del ciclo della vita e della natura che inizia e finisce e ricomincia ininterrottamente, nascendo dalle proprie ceneri ogni volta. “Sette Giorni” è anche la frase che Samara Morgan, nel The Ring di Gore Verbinski, pronuncia sussurrando al telefono preannunciando la fine per sua mano. Anche lì si tratta di ciclo, di “anello”, appunto. E così ecco nascere questi sette collage neri. Quadri neri che fasciano la stanza portando ognuno il nome di uno dei giorni della settimana e dove i ricordi, i volti sereni del passato e del presente, scavati nel bianco della carta sottostante, si lasciano avvolgere e carezzare dal nero del futuro e dell’oblio.
Andrea Mastrovito

Una ricerca rivolta alla meraviglia, in realtà un’antenna inquieta sul mondo e il nostro bagaglio culturale, diluita secondo modalità e materiali fragili votati allo stupore percettivo. Sensibilità verso il contingente, il dato cartaceo e la luce quali strumenti ineffabili per evidenziare una pratica sempre concettuale: l’apposizione di lacerti colorati, la perizia certosina di assemblare frammenti che si svelano parti di un tutto nel piano compositivo d’insieme, in cui ogni dettaglio ricostruisce deontologicamente e fisicamente una nuova realtà, immaginifica ma non per questo meno vera. L’artista varca la soglia del dato bidimensionale, servendosene. L’esito è pittorico ma per suggestione e non certo per l’impiego di tela e pennello: vi è interesse alla parte procedurale, all’attivazione di una forma e alla costruzione della stessa secondo una logica semplice ma non facile, infantile nel rimando gioioso e bricoleur. L’Homo Ludens quale possibile risposta propedeutica alle nostre fratture esistenziali? Una prospettiva a volo d’uccello quella di Mastrovito, in moto perpetuo fra estrema perizia artigianale e l’attualizzazione di problematiche urgenti, sempre condotta secondo modalità lievi. Come afferma Derrida, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori-quadro. […] Il tratto vi si attrae e si ritrae da sé, vi si attrae e vi fa a meno, da se stesso. Si situa.”
Andrea Bruciati

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo nel 1978. Ora vive tra Bergamo e New York. Ha esposto la prima volta nel 2003 al The Flath di Milano. Ha tenuto tre mostre personali presso la Analix Forever di Ginevra nel 2005, nel 2007 e nel 2009. Nel 2006 e nel 2008 ha esposto alla Galleria 1000eventi e Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, nel 2007 al Palais des Exposition di Bruxelles, nel 2008 alla Jerome Ladiray Gallery di Roue, al Dior Centre di Parigi e all’Italian Academy della Columbia University. La Foley Gallery di New York ha ospitato nel 2008 Black Bag – American Philosophy of Composition e nel 2009 Love is a four-letter word. Nello stesso anno ha tenuto le mostre Enciclopedia dei fiori da giardino all’ Assab One – Ex GEA di Milano, La Bonne Nouvelle al Centre d’Art Contemporain di Lacoux, e Climat Poetique all’Hotel de Ville di Ginevra. Ha partecipato alla II Biennale di Praga nel 2005 e alla 15a Quadriennale di Roma nel 2008. Nel 2005 ha esposto nella mostra Beauty is not difficult presso la Fondazione Stelline di Milano e trasferita poi a Berlino. Nel 2009 si è tenuta Italian Artists New York all’Istituto Italiano di Cultura di New York e, nello stesso spazio, ha realizzato nel 2010 l’istallazione Velocità  d’automobile + fiori. Il 5 giugno 2010 ha allestito The Island of Dr. Mastrovito in una stanza del Governor’s Island di New York.

Yi Zhou, SPAZIO DI CONFINE

Stanza 2

I suoi lavori esplorano le radici dell’iperrealismo e del neo-realismo: da una parte trae forme visibili e tangibili dai sogni e dall’immaginazione, dall’altra prende alcuni aspetti surreali dalla natura stessa. Le sue opere rappresentano una complessa sintesi di immaginazione, letteratura, mitologia, filosofia e nuova tecnologia, impregnate di cultura cinese e mediterranea. Video, istallazioni, disegni, tutti i suoi lavori introducono la magia inquietante dei caratteri virtuali in paesaggi soprannaturali così come la realtà effimera della vita, dell’amore e della morte, attraverso il linguaggio simbolico dell’inconscio. Yi Zhou presenta una visione della vita che trascende da tempo e spazio, con ironia e leggerezza.
Carlotta Testori

Il mio lavoro è nato nell’epoca virtuale. Trascorriamo gran parte del nostro tempo al computer, al cellulare o davanti ad uno schermo. Sempre meno in relazione con il reale, con il fisico. Le mie opere sono situate in un punto in movimento nel tempo e nello spazio, dove passato e futuro si mescolano nel presente. Come creature, strutture con una vita parallela, dove tutto e niente è possibile senza il tempo, in uno spazio di confine e senza vincoli. Luoghi, paesaggi, scene, e creature che rappresento potrebbero apparire familiari a un primo sguardo. Ma immediatamente ci si domanda se queste cose sono già esistite o semplicemente generate al computer. Se si basano su riferimenti precedenti o puramente generati dall’immaginazione; se il lavoro potrebbe venire da tempi antichi o da futuristici mondi esterni, creazioni di un vertiginoso, inaspettato e inesperto sentimento. E alcuni pezzi scultorei ci fanno fuggire dal presente virtuale. Ma sono pochi, così noi continuiamo a vivere in un mondo nel quale troppa realtà, troppe cose fisiche potrebbero risvegliarci dal sogno del presente virtuale.
Yi Zhou

Yi Zhou è nata in Cina e ha vissuto a Roma dall’età di 10 anni. Ha studiato tra Londra e Parigi, si è diplomata in Scienze Politiche e ora vive tra Parigi e Shanghai. Nel 2002 ha tenuto la sua prima mostra personale Y Game al Noirmont Prospect di Parigi. Nel 2004 ha realizzato la performance Mountaintank al Deitch Projects di New York. Nel 2005 le sue opere sono state esposte alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi e nel 2006 ha realizzato il progetto Three Cantos, Prefiguration: Inferno, Purgatorio, Paradiso a Palazzo Vecchio di Firenze, con una performance in Piazza della Signoria. Nel 2007 ha tenuto la mostra Il passato è remoto anzi sarà sempre presente. Una scultura, un video, un anello alla Galleria Nicola Ricci di Petrasanta e nello stesso anno ha presentato il video Avatar al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Nel 2008 ha realizzato la mostra My Heart Laid Bare alla Ooi Botos Gallery di Hong Kong e Hear, Earth, Heart alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi. Nello stesso anno il video Paradise è stato selezionato per la competizione ufficiale al Sundance film Festival. Nel 2009 le sue opere sono state esposte a Basel Art Fair, a Basel Miami Art Fair e al SuZhou Trou Color Museum of Contemporary Art.

Davide Nido, CROMATOLOGIA CONCENTRICA

Stanza 22

Finalmente siamo a giugno. Con l’estate tutto appare splendente. I miei occhi sono lenti d’ingrandimento; luce, colori, fiori, profumi, cose, persone, amici, mi fanno stare bene. Questo progetto raccoglie tutte queste emozioni in una “semina e costellazione” di colore. Evviva!
Davide Nido

Nessun compiacimento, nessuna concessione all’abilità, nessuna rilassatezza. I nodi non sono quelli raffinatissimi e numerosi della seta, i toni non sono carezzevoli e selezionati, ma il risultato è efficace. E il lavoro di Nido è proprio all’insegna dell’efficacia. La questione da cui muove è semplice e definitiva: dato un numero esiguo di elementi, che consentono un calcolo combinatorio limitato, ottenere risultati che contrastino i successi dell’immagine digitale, tecnologica, pubblicitaria, splatter. Ancora: a partire dal minimo, in termini di materia prima, raggiungere il massimo, nel senso di impatto estetico ed emotivo. È una questione definitiva perché, dalla soluzione o meno, dipende il senso stesso dell’arte nell’epoca della riproducibilità e simulazione tecnica di ogni cosa, perfino della vita. L’opera di Nido è una speranza. Anche perché dipinge senza dipingere. Davide Nido spicca nel panorama contemporaneo per il suo isolamento, per l’unicità della ricerca. A voler catalogare il suo lavoro, si deve procedere necessariamente per esclusioni. Non è astrattismo classico […]perché l’interesse per il colore è secondario e conseguente rispetto a quello per la materia, perché il “corpo” dell’opera è troppo presente per lasciar spazio a un discorso sulla monocromia, sulla campitura, sulla sfumatura; non è informale […] perché non c’è mai il compiacimento della gestualità, e la costruzione è seriale e ordinata invece che libera e irruenta, anche quando sceglie di agire velocemente e sotto l’influsso della casualità; non è optical, dato che l’artista non vuole confondere le percezioni ma concentrarsi sulla texture dell’opera, e usa i fili intrecciati e le sbavature per inchiodare l’immagine al supporto, e non per creare un movimento perenne; non è nuova figurazione perché non prova la curiosità  per il corpo, e preferisce procedere nascondendo e cancellando la figura piuttosto che cercandola. L’artista usa sempre lo stesso elemento, la colla a caldo, sparata sulle tavole o sulle tele dalle apposite pistole termiche, per ripensare le conquiste formali della ricerca contemporanea, per sperimentare se siano compatibili o meno con l’utilizzo di una materia diversa, alternativa, industriale, futuribile. Non lo fa scientificamente, non si tratta di un’indagine propositiva e indirizzata. Agisce d’istinto, dove vede possibilità di movimento, spinto dal desiderio d’esplorazione, dalla voglia di sfidare un limite. Anzi, due: quello dello strumento, la colla, mai prima considerata medium espressivo, e quello della pittura. Perché Nido, paradossalmente, è un pittore, e di quelli più conservatori. Non usa l’olio, l’acrilico o la tempera, se non per i fondi, ma le sue ossessioni sono quelle di chi dipinge: conquistare spazio, simulare un volume, creare uno spessore, interpretare un colore, condensare un racconto in un’immagine, in un flash.
Maurizio Sciaccaluga

Davide Nido (Milano, 1966 – 2014). Nel 1993 ha tenuto la sua prima personale alla Galleria Eos di Milano. Nel 1994 ha esposto alla Mellauer Werkstatt Gallerie di Vienna, nel 1995 e nel 1998 a Genova: alla Galleria Leopardi V Idea e alla Galleria Andrea Ciani. Nel 2001 gli sono state dedicate tre mostre personali: Sognareallo Spazio Obraz di Milano, Folle in una notte di Primavera (con Federico Guida) alla Galleria Roberta Lietti di Como e Roarangiaroncelindavio alla galleria Paolo Majorana di Brescia. Nel 2003 ha esposto nel Palazzo del Broletto di Como, nel 2004 alla Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Mantova e nel 2005 alla Galleria Carloni Spazioarte di Francoforte. Nel 2006 ha tenuto una personale alla Galleria Blu di Milano e alla Galleria Bonanno Arte Contemporanea di Trento. Nel 2007 la Galleria Gianna Sistu di Parigi ha ospitato la mostra Davide Nido e nel 2008 la Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Los Angeles ha presentato Spider Man. Ha esposto al Palazzo Reale di Milano nel 2007, al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2008. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia esponendo tre opere nel Padiglione Italia. Nel 2009 si è tenuta Davide Nido – Onda Frattale alla Galleria Roberta Lietti di Como e A Campus Point al Politecnico di Lecco.

Sergio Fermariello, GUARDIANI DEL SOGNO

Giardino

L’installazione è composta da una serie di strutture d’acciaio marino, ruote deformate a guisa di palette di fico d’India, che si contrappongono ad una struttura portante realizzata in acciaio corten, a rappresentare il tronco della pianta stessa del fico. Il tronco a sua volta è formato da una serie di maschere dai tratti deformati. L’impressione che si presenta alla vista dell’osservatore è molteplice: di volta in volta si osservano le ruote nel loro impossibile movimento, costrette nei loro telai irregolari, a guisa d’orecchie d’asino, oppure risaltano alla vista le maschere rugginose, ed infine nel complesso, si osserva l’intera struttura vegetale della pianta. Caratteristica della pianta del fico d’India è quella di potersi riprodurre non solo per via sessuale ma anche per gemmazione, ossia di potersi moltiplicare per semplice divisione spontanea, tramite le foglie, per clonazione delle sue stesse cellule. E così, come il mio lavoro è sempre stato una ricerca sulla moltiplicazione spasmodica ed ossessiva dell’identico, così ritrovo nel modo di riprodursi della pianta del fico d’India il simile meccanismo parossistico e persecutorio che contraddistingue i miei lavori. L’opera sembra ricordarci come, da una parte le ruote della storia si siano fermate, non girino più, essendo esaurito lo spazio che le possa contenere, e come ognuno di noi, come criceto nella ruota, s’inventi di volta in volta, nel destino della propria pratica di esistere, una traiettoria più o meno circolare che trattenga la propria inerzia e, d’altra parte constatiamo come la pianta continui nonostante tutto a crescere, a riprodursi moltiplicando le sue foglie, questa volta per scollamento, nell’orizzonte globalizzato di tutti i sistemi metastatici, dove tutto si riproduce senza ordine e freno. La radice brunita del tronco, coagulata nella smorfia di tanti ancestrali antenati, come tante maglie di una catena spezzata, resiste nello sforzo di reggere il peso del senso e si dispone a monito e a guardiano della nostra già avvenuta sparizione.
Sergio Fermariello

Nelle mani dell’artista simboli e ideogrammi s’infittiscono e moltiplicano fino a sembrare un brulicante formicaio di concetti e di rimandi, s’ingigantiscono fino a farsi memento mori per un intero popolo, s’incidono e stampano nel metallo più duro fino a diventare imponenti come vessilli, e sempre sottintendono la capacità di catturare, convincere, trasportare. Ma convincere di cosa? Trasportare verso dove? Non è chiaro, perché l’autore ha fatto dell’ambiguità – tra fondo e primo piano, tra tela e rilievo, tra ombreggiatura e ombra, tra senso storico dell’immagine e nuove possibili interpretazioni – un suo cavallo di battaglia, ma risulta comunque evidente che ciò che conta per lui, più del messaggio, più della comprensione, è il veicolo del senso. Quasi che la scrittura non fosse un mezzo ma un fine, quasi che icone e segni non dovessero essere interpretati ma potessero vivere di vita propria. Quasi che, sulle tele, nelle sculture e nelle installazioni, non si dovesse trovare un racconto riassunto e tramandato da una serie di simboli ma piuttosto grafie e disegni che, di volta in volta, inscenano una storia diversa, tutta ancora da vedere e raccontare.
Maurizio Sciaccaluga

Sergio Fermaniello è nato a Napoli nel 1961. Nel 1989 ha esposto per la prima volta alla Galleria Lucio Amelio di Napoli, con la quale ha intrapreso una lunga collaborazione. Nello stesso anno ha ottenuto il Premio Internazionale Saatchi & Saatchi per giovani artisti al Palazzo delle Stelline di Milano. Nel 1990 ha esposto alla Galleria Il Capricorno di Venezia e nel 1992 alla Galerie Yvon Lambert di Parigi. Ha partecipato ad alcuni appuntamenti internazionali quali la mostra Metropolis alla International Kunstausstellung di Berlino e la mostra Les pictographes al Musèe de l’Abbaye Sainte-Croix di Les Sables-d’Olonne nel 1991. Nel 1993 ha partecipato alla 45a edizione della Biennale di Venezia con una sala personale nel Padiglione Italia. Nel 1995 ha esposto Opus Alchemico alla Galleria In Arco di Torino, nel 1996 ContemporaneaComo 2 a Villa Olmo a Como e Homo necans alla Galleria Lucio Amelio di Napoli. Nel 1997 si è tenuta la mostra Sergio Fermariello. Lavori 1990-1997 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia e nel 1999 ha realizzato l’istallazione Avviso ai Naviganti a Castel dell’Ovo di Napoli. Nello stesso anno ha esposto alla Galleria Jan Wagner di Berlino, nel 2000 alla Galleria Ronchini di Terni e alla Galleria Scognamiglio & Teano di Napoli. Nel 2004 gli è stata dedicata una retrospettiva a Castel Sant’Elmo a Napoli e nel 2005 ha realizzato un’istallazione nella darsena “pier17” a New York. Nello stesso anno ha tenuto una personale alla Galleria Scognamiglio di Napoli e alla Galleria Ronchino Arte Contemporanea di Terni, nel 2006 alla Galleria Buonanno di Milano e alla Galleria Erica Fiorentini di Roma; nel 2007 alla Galleria Fioretto di Padova e nel 2008 alla Galleria Ronchino di Terni. Nel 2009 gli sono state dedicate due personali al MAC di Niteroi in Brasile e al PAN di Napoli.

Turi Simeti, QUADRI BIANCHI

Stanza 1

Presentare un lavoro che si fonda sulla riduzione del segno, del gesto e della forma, in questi ultimi anni nei quali la proliferazione e la contaminazione dei linguaggi ha spesso sovraccaricato la percezione visiva del manufatto artistico, è un’impresa complessa per non dire ardua. L’estrema essenzialità del lessico di Simeti potrebbe apparire “petrosa”, ad un osservatore di questo primo decennio del XXI secolo. Diventa necessario allora recuperare le coordinate che definiscono il milieu strutturale dell’artista siciliano, i rapporti sottesi con la grande stagione programmata e cinetica dei primi anni Sessanta, fino alla lettura intima, direi, oltre che personale del minimalismo. Il superamento della superficie e del gesto si manifesta nell’adozione dell’elemento geometrico reiterato e ripetuto, a volte simile ad un emblema familiare, ad un antico blasone scolpito sul portale di un palazzo nobiliare siciliano. Oltrepassando i richiami alle valenze estetiche fantastiche, residui di ricordi infantili, la forma ovale adottata da Simeti sembra avere in fondo un’essenza biologica e organica. La cellula come elemento costruttivo primario germina sulla tela quasi a formare un organismo visivo autonomo e autoreferenziale. Un metodo che caratterizza il linguaggio dell’artista siciliano a partire dai primi anni Sessanta e, secondo la critica, connette la sua ricerca alle coeve esperienze di Castellani e Bonalumi. Diversamente da questi ultimi, però, la funzione spaziale nelle sue riflessioni risulta se non secondaria, almeno non portante, nell’impalcatura costruttiva della sua opera. L’esigenza di oltrepassare la bidimensionalità della superficie pittorica, non è sostanziale, ma è necessariamente visiva. In Simeti la metafisica dello spazio è subordinata alla ricerca dell’essenziale, infatti, nel corso degli anni Settanta, seppur non rinunciando alle forme elissoidali, ne teorizza il loro isolamento. Si scatena così un rapporto profondo e univoco fra la tela monocroma e il solitario ovale sagomato, che come una punzonatura dell’anima, lascia una traccia esistenziale sulla superficie.
Gianluca Brogna

Turi Simeti è nato ad Alcamo in provincia di Trapani nel 1929. Si è trasferito a Roma nei primi anni Sessanta e nel 1965 a Milano, dove vive e lavora. Nel capoluogo lombardo ha partecipato alla mostra Zero Avantgardienello studio di Lucio Fontana nel 1965 e ha realizzato le sue prime mostre personali. Tra il 1966 e il 1969, invitato come Artist in Residence dalla Fairleigh Dickinson University, si è trattenuto per lunghi periodi a New York. Nel 1971 ha esposto alla prestigiosa galleria M di Bochum e da Löehr a Francoforte. Nei primi anni Settanta ha realizzato personali e collettive a Bergamo, Verona, Rottweil, Düsseldorf, Oldenburg, Köln, München, Basilea e Coblenza. Nel 1980 la Pinacoteca Comunale di Macerata ha ospitato una sua mostra personale e nello stesso anno ha aperto uno studio a Rio de Janeiro. Le sue opere sono state esposte alla GaIerie Wack di Kaiserslautern nell’83, alla Galerie Maier di Kitzbüehl e alla Galerie Ahrens di Coblenza nel 1984, alla Galeria Paulo Figueiredo di San Paolo del Brasile e alla Galerie 44 di Düsseldorf nel 1985, alla Galerie Apicella di Bonn neI 1986 e alla Galerie Monochrome di Aachen nel 1987. Nel 1990 si è tenuta la mostra 58-80 Bonalumi Castellani Simeti/Tre Percorsi presso la Galleria Millenium di Milano. Nel corso degli anni Novanta ha esposto a Rio de Janeiro, Biberach, Kaiserslautern, Milano, Bolzano e Trapani, al Kunstverein di Ludwigsburg e a Erice. Nel 1998 ha tenuto una personale alla Galerie Kain di Basilea e nel 1999 ha esposto a Biberach, Ladenburg e Mannhein. Nel 2004 ha tenuto una personale alla Galleria Poleschi di Milano e nel 2005 a Lugano nello spazio ARTantide. Nel 2006 gli sono state dedicate due personali alla Galleria BIM – Banca Intermobiliare di Lugano e alla Galleria Excalibur di Solcio di Lesa. Ha realizzato una mostra alla GlobArt Gallery di Acqui Terme nel 2007 e nel 2009 alla Maretti Arte Monaco di Montecarlo. Nello stesso anno ha realizzato un’istallazione di grandi opere bianche nello Studio d’arte Contemporanea Pino Casagrande a Roma. Nel febbraio 2010 ha esposto presso la Galleria Salvatore + Caroline Ala di Milano.

LA NOTTE CADE SU DI NOIJ&PEG. Stanza 13. Giorni Felici 2010

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Una camera da letto, la stanza più segreta della casa, dove nemmeno l’ospite viene invitato ad entrare, diventa, nel percorso di questi quadri e di questa installazione, l’emblema di un mondo universale, nel quale si indaga sulla libertà e sul suo rapporto col potere. In questo ambiente l’uomo rimane solo con se stesso, finalmente libero da ogni imposizione esterna, abbandonato alla sua intimità, ma destinato comunque a soccombere davanti alle sue necessità fisiche e all’esigenza del riposo. L’essere umano, concepito con il limite del sonno, è qui già pronto ad evadere e a riscattarsi con l’immaginazione e la speranza del sogno. Una stanza, illuminata in modo da ricordare al visitatore le luci e le ombre della società contemporanea.

J&PEG

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