Month: Ottobre 2012

Aleksander Velišček, “BENVENUTI IN TEMPI INTERESSANTI”

Stanza 11
Invitato da Andrea Bianconi

Mi piace pensare alle scale che congiungono i due piani di Casa Testori (dove erano collocati i miei dipinti) come metafora dei due piani alla base del mio processo pittorico: l’ostinazione e l’indagine.
La pittura è continua stratificazione materica (l’ostinazione) che si addensa giorno dopo giorno sulla tela, rivelando (come un’indagine) espressioni, concetti e sensazioni di forme e colori. Parafrasando Francis Bacon: “bisogna cercare di impacchettare un sacco di cose in ogni singola pennellata”.
Tra le opere esposte a Giorni Felici si trovava un lavoro paradossale: il ritratto del mio amico Kresnik, un piccoletto a cui voglio gran bene, raffigurato come fosse un gigante di cinque metri. Omaggio necessario a una persona cara con cui ho condiviso gli anni di studio a Venezia.
Il piacere, assieme all’eccitazione e la smaniosa ricerca di successo e popolarità sono invece il fulcro degli ultimi lavori.
L’intenzione era di portare a galla gli stridori vacui della realtà quotidiana. I desideri più irragionevoli del contemporaneo hanno sostituito quelli naturali. Viviamo il nostro tempo come un “teatro dell’assurdo”: ci sentiamo protagonisti e allo stesso tempo estranei al dramma collettivo della società moderna. Parlo di politica e di potere – quello economico certo, ma anche quello mediatico delle immagini, raffigurazioni ormai devote esclusivamente alla mercificazione di massa. Cerco di muovermi come un equilibrista su quella linea sottile sospesa nel vuoto che divide finzione e realtà. Voglio caricare di materia e veleno le tele ed i volti dei miei personaggi, nel tentativo di rendere solidi e pericolosi i miei ideali.

Aleksander Velišček è nato nel 1982 a Šempeter Pri Gorici, (Slovenia). Vive e lavora tra Nova Gorica e Venezia.

Wouter Klein Velderman, PAMPERING INDUSTRIES

Giardino
Invitato da Massimo Uberti

Il lavoro e i materiali che uso hanno da sempre caratteri industriali: mezzi di trasporto, strumenti di storaggio, tele di pvc, legni, metallo, oppure oggetti ready made come scaffalature, un mulino a vento, un muletto.
Ciò nonostante, le opere sembrano fragili, vulnerabili. Pur trattando questi materiali con grande cura e amorevoli attenzioni, le sculture possono suscitare nello spettatore sensazioni anche fastidiose. Un camion enorme sembra sul punto di collassare su se stesso, un portapacchi completamente imballato funge da insolito espositore per invendibili “prodotti maniacali”, una scala mobile si è adagiata mollemente su una spiaggia, invece di scavalcarne le dune…
Ponendo l’arte in spazi pubblici, l’artista ha la possibilità di raggiungere un numero potenzialmente infinito di spettatori; molte persone osserveranno la sua opera, senza che l’artista abbia alcuna relazione con questo suo pubblico. Ciò significa che l’interazione e la profondità di approccio tra l’opera e ciascuna delle persone che la vedono sarà diversa. Nella mia ricerca, queste contrapposizioni sono il punto di partenza; gli spazi pubblici e i materiali con cui lavoro i miei attrezzi.

Wouter Klein Velderman è nato a Deventer (Olanda) nel 1979. Vive e lavora ad Amsterdam.

Luca Scarabelli, NON SI TRATTENEVA MAI ABBASTANZA A LUNGO DA POTER CONTARE GLI ALBERI NEL BOSCO

Stanza 9
Invitato da Giancarlo Norese

Ci sono le luci delle stelle e il buio che le circonda. Il bosco non si vede, non c’è.
L’attenzione è posta sulla capacità di proiettarsi al di fuori da sé per prendersi un nuovo punto di vista. L’ambiente che ospitava i lavori è particolare, per la sua conformazione e per i rimandi al suo recente passato. La visione era di costruire un racconto considerando questo spazio non neutro, come un’immagine nomade, in cui il gioco della rappresentazione della realtà è spostato sul piano mentale, in una dialettica che mi piaceva pensare come sfioramento, con un avvicinarsi al senso, lento e sommesso. Univo differenti linguaggi e raccontavo di gravità, di caduta, di attrazione, di respiro, ma anche di uno sguardo da parte della natura sull’uomo e viceversa. Sono forme simboliche quelle che ho scelto di usare, dall’archetipo del cerchio, al dipinto in bianco e nero che rappresenta uno schermo, pronto a ricevere le immagini da un possibile avamposto nello spazio, che le fa rimbalzare qui, per costruire un racconto fatto di contraddizioni e codici da decifrare. Un riquadrare che non ha una direzione precisa; la scelta di come presentarlo può variare e non lo condiziona, può essere messo anche sottosopra senza scalfire la sua sostanza. Il suo centro è vuoto ma è pieno di spazio, è un’assenza in attesa degli eventi dell’immaginazione. È anche uno spazio di riflessione e di raccoglimento, un’area in cui lo sguardo può anche riposare. C’è da prendere la mira per catturare e costruire le cose, c’è bisogno dell’attesa e del silenzio per essere precisi. Solo lì sul bordo esterno della costruzione, occorre stare lì, statuari, concentrati, anche se instabili. Forse il solo pensiero è già un’opera.

Luca Scarabelli è nato a Tradate (VA) nel 1965. Vive e lavora tra Como e Varese.

Graziano Folata, COMINCIARE GUARDANDO IL CIELO

Stanza 8
Invitato da Gianni Caravaggio

In queste visioni in cui l’uomo è soggetto ideale in un abbraccio con il sistema regalato da Natura, chi può definire in maniera incontrovertibile quale di questi rapporti è gentile e quale è invece violento?
Durante l’atto dell’osservare e del sentire, nasce sempre l’interrogativo a proposito della nostra preferenza, questa lega il nostro sguardo a un’immagine o a un’altra e passa da una relazione tra le cose ad un’altra.
La risposta rimane un mistero, che aleggia nella nostra percezione in una costante somma di esperienze, in un solenne movimento di muta fascinazione.

Graziano Folata è nato nel 1982. Vive e lavora a Milano.

Mario Schifano, IL SUO ROSARIO

Stanza 7
Invitato da Andrea Mastrovito

Quello tra Mario Schifano e il gallerista modenese Emilio Mazzoli è stato un rapporto fondamentale per entrambi dagli anni Ottanta. Le 700 foto che erano presentate sono tratte dalla collezione personale del gallerista che ne acquistò da Schifano alcune migliaia. Le celebri foto scattate alla televisione, stampate e ridipinte, esprimono a pieno la poetica e la prassi pittorica dell’artista nell’ultimo decennio della sua vita: la sua passione per i mezzi di comunicazione e la sua bulimia visiva. Come ricorda il suo storico segretario, Renzo Colombo: “Passava tantissimo tempo a lavorare sulle fotografie che scattava alla televisione e che poi ritagliava e colorava. Con le foto Mario si staccava da tutto e da tutti. Per un periodo ha consumato venti rullini al giorno, portavo al laboratorio di stampa venti rullini al giorno! Diceva: “È questo adesso il vero lavoro di qualità, non i quadri’”.
Come precisa l’amico Roberto Ortensi, storico assistente della gallerista Ileana Sonnabend: “Tutto partiva dalle immagini fotografate alla televisione, spesso sfocate o con strani bagliori azzurrini, figure che evocano un altrove, un qualcos’altro, su cui lui a volte interveniva con il colore. Quando interveniva lo faceva quasi come un omaggio alla pittura, erano come dei segni, una specie di richiamo.

Quella delle foto ritoccate era un’occupazione veloce, ma anche misteriosa. Riusciva a far saltar fuori dalle immagini un’intensità e una profondità mai viste, impercettibili. Era come il lavoro di un rabdomante. Rivisitava con la pittura le immagini della realtà che gli arrivavano in casa dal televisore. Queste foto per un po’ rimanevano sul tavolo di lavoro, impilate e divise per generi”.Conclude Mazzoli: “Come sai Mario non era interessato al sacro ma per me il suo lavoro era un po’ come una religione e mi faceva venire in mente le suore di clausura che pregano sempre per arrivare all’atarassia. Lui faceva lo stesso, lavorava di continuo, o disegnava o dipingeva, la sua era come una forma di purificazione. Certo, poi aveva questo laicismo del volere tutto e subito. Ma queste foto erano il suo rosario: ne teneva un mazzetto sempre sottomano e mentre parlava con te o al telefono ci dipingeva sopra, sgranandole una dopo l’altra”.

Mario Schifano è nato a Homs (Libia) nel 1934. Muore a Roma nel 1998.

Daniela Peracchi, MICRO-MACROCOSMO

Stanza 6
Invitata da Adrian Paci

Quando sono entrata in Casa Testori mi è sembrato di visitare tanti piccoli microcosmi intimi collegati tra loro grazie a delle porte molto strette. Nella mia stanza ho percepito questa riservatezza come se potessi proiettare la mia immagine in tutti i punti.
Cos’è la famiglia se non questo. L’insieme di tutte le proiezioni emotive dei componenti, racchiusi in intimità in un piccolo macrocosmo.
Lo stesso rapporto genitoriale crea tanti piccoli microcosmi del loro stesso essere.
Noi figli siamo genitori e individui unici allo stesso tempo; cresciamo con la convinzione che saremo diversi ed esploriamo il mondo facendo affidamento solo su noi stessi, ma cosa siamo se non un microcosmo derivato dall’unione di due macrocosmi?
Proveniamo tutti da una madre e un padre, tutti siamo il risultato di due geni diversi.
Mi sorge quindi una domanda: perché noi figli non dovremmo essere semplicemente un continuo di un fluido, il passaggio del testimone di un qualcosa di sensoriale che muta al passaggio di un corpo attraverso diversi linguaggi di espressione?
Io lavoro con la mia famiglia proprio per questo: sono un microcosmo che guarda nel loro mondo e scardino quella campana di vetro costruita per una gerarchia educativa trasformandomi in genitore e figlio allo stesso tempo. 
Agisco su mio padre e mia madre perché voglio rompere il vetro della campana in cui mi rifletto.

Daniela Peracchi è nata ad Alzano Lombardo (BG) nel 1990. Vive e studia a Milano.

Caterina Silva, RÈCIT

Stanza 5
Invitata da Enzo Cucchi

A story? No. No stories, never again.
Cosa succede alla Cosa quando viene detta? Vive? Muore?
È possibile immaginare una forma aperta che superi l’inadeguatezza del linguaggio nel definire il reale, pronunciando ma allo stesso tempo tenendo in vita senza distruggere?La mia ricerca esplora pittoricamente i limiti linguistici del dicibile. I segni che uso non sono rappresentativi, documentano un tempo, una realtà. Le immagini non sono la narrazione di un evento, ma l’evento stesso. Chi guarda ha il compito o la possibilità di costruire la sua personale visione.
Il progetto per Casa Testori è il tentativo di generare un Mistero attraverso l’alternanza di luce e di buio, di gravità e di grazia.

Caterina Silva è nata a Roma nel 1983.

Angelo Barone, RIMEMORA

Stanza 4
Invitato da Turi Simeti

I miei tre lavori esposti a Casa Testori si muovevano sul territorio delle visioni, sull’incapacità di percepire le forme nella loro realtà, sono quindi lavori sulla perdita, sulla sparizione.
La scultura Macula posta sul pavimento ricordava la forma di un luogo, allude a una architettura allungata, alle “navi” di Cattolica. Essa è sacrale, murata, misteriosa, irraggiungibile.
Il lavoro Casamatta, della serie fotografica esposta ad Amsterdam, è la tappa di un percorso alla ricerca di luoghi attraverso la rete, è traccia di un viaggio immateriale dove la fotografia cerca di catturare l’immagine senza l’esperienza dello sguardo diretto sulla realtà, l’architettura viene solamente evocata.
Il terzo lavoro, Ora incerta, aveva per soggetto un’architettura che si riduce a una citazione di se stessa, nell’incapacità  di emergere in superficie. Essa rimaneva sospesa e ambigua sotto un velo che ne occlude la visione.

Angleo Barone è nato a Modica (RG) nel 1957. Vive e lavora a Milano.

Branko Jankovic, “NOTHING’S GONNA CHANGE MY WORLD”

Stanza 3
Invitato da Massimo Kaufmann

“Images of broken light,
which dance before me like a million eyes,
that call me on and on across the universe”

Il mio lavoro è istintivo, ed è emotivo. Non so mai cosa esce fuori. Io voglio essere sorpreso. Voglio che l’immagine mi superi e che io stesso mi trovi a domandarmi da dove viene e che cosa sia. Fare un quadro è come fare una lunga passeggiata, senza sapere dove arrivo e scegliendo sempre vie sconosciute, perdendomi spesso negli angoli bui della mia mente e ritrovandomi un attimo dopo illuminato dalle luci nervose delle macchine frettolose. Si procede fino ad un punto, punto in cui mi accorgo che il lavoro funziona. Quel punto è sempre misterioso e raggiungerlo è fonte di enorme soddisfazione. Un passo dopo anch’io sono spettatore (mai oggettivo), trovo spesso in un quadro le diverse emozioni vissute. La pittura è un’esperienza emotiva. Il quadro è una concentrazione di energia, spesso incontrollabile.Il titolo è preso dalla canzone Across the Universe dei Beatles, anche se l’idea mi è venuta ascoltando la bellissima cover fatta dai Laibach. La canzone viene definita “cosmic ballad”. Mi piace l’idea che un’emozione possa essere personale, universale e anche cosmica. Mi piacciono le opere d’arte che hanno questa tendenza, anche se solo nella testa dell’artista. Anche quando rappresentiamo i frammenti è importante ricordare sempre che tutte le cose nell’universo sono collegate. Nikola Tesla diceva: “Tutto ciò che vive è legato a un rapporto profondo e meraviglioso: l’uomo e le stelle, l’ameba e il sole, il nostro cuore e la circolazione di un numero infinito dei mondi”. 

Branko Jankovic è nato a Belgrado nel 1978. Vive e lavora a Milano.

Mary Pola, SALDATURE

Stanza 1
Invitata da Leonora Hamill


Mi ritrovo a sperimentare e a ricercare anche attraverso la scultura la Forma e la Materia.
Ho un’affinità epidermica con materiali come le lamiere e i barili, materiali grezzi, pesanti e poco malleabili. Oggi, anche in scultura, scelgo il ferro. Il perché di questa scelta sta nel semplice fatto che lavoro con l’intento di tirar fuori da un elemento considerato “pesante” la sua leggerezza. La potenza emozionale che riesce a trasmettere nel solo osservarlo, attraverso la stessa ruggine e le sfumature che da essa ne derivano, crea una sorta di dipendenza… È una continua scoperta.
Con le sculture ho voluto lavorare su spessori e profondità, giocando con gli equilibri e la dinamicità delle forme, dello stesso materiale, con semplici sovrapposizioni, utilizzando elementi molto lineari. Ho voluto lavorare su aspetti più nascosti della materia stessa, come la leggerezza e la linearità. Con la riduzione delle dimensioni delle sculture, con un gioco di profondità e chiaroscuri e di tagli orizzontali ho cercato di trovare la luce. Una luce che dà quel senso di leggerezza ad una scultura che di per sé è fisicamente “pesante”. Proprio saldando delle lamine, finemente tagliate, a una distanza calcolata riesco a ritrovare e a far filtrare la luce. Una luce che affiora attraverso la materia e che dà un senso a chi la scorge anche di “scoperta”.
Spesso, lavorare su un progetto già da me prestabilito, fa in modo che io sia guidata da una forma verso un’altra in modo istintivo ma affatto casuale. E così che alla fine realizzo un’opera (in questo caso scultorea) che parte da un’idea e finisce con il comprendere un insieme di miei atteggiamenti e sensazioni che poi cerco di trasmettere al mio interlocutore.
Il prodotto finale risulta ai più un oggetto comunque imponente quanto elegante nonostante la scelta del materiale, il ferro, del colore, la ruggine, dell’imperfezione propria della materia e dei punti di saldatura lasciati in alcune opere evidenti sottolineano il lavoro manuale.

Mary Pola è nata nel 1975 a Tempio Pausania (OT). Vive e lavora a Foligno.