Month: Novembre 2011

Francesco Diluca, ULTIMA CENA

Stanza 14

All’inizio ho voluto creare una scultura piccola che racchiudesse in sé una propria storia, ma con il passare del tempo la storia si è ampliata.
Pian piano stavo componendo una narrazione, un cammino preordinato, sulla società di oggi.
Nasce così Ultima Cena, un’installazione scultoreo-pittorica, un racconto per immagini atto a squarciare il velo di Maya.
Ho scelto questo titolo come pretesto per segnare un passaggio.
Un inizio.
Una fine.
Francesco Diluca

Il senso dell’assenza.
Francesco Diluca vede in queste forme attorcigliate, in queste lamiere umane, una possibilità di unione del singolo con l’universale, il particolare e il generale, il senso dell’intellegibile congiunto all’estrinsecazione del mondo sensibile.
Ma allora dov’è finito il corpo? Può esistere il contenitore senza il contenuto? Quale strana metamorfosi sta accadendo a questi uomini e perché? È proprio su questi quesiti, su questi dubbi, che Diluca si concentra provando a sovvertire ogni possibile aspettativa, raffigurando un involucro, un bozzolo apparentemente privo di vita, statico ed inerme, l’anima della non presenza, per indurci a considerare e provare a comprendere il senso dell’assenza. Un’assenza che obbligatoriamente invita, anzi costringe, a valutare ed analizzare il motivo di tale mancanza, trovando così paradossalmente la propria unità tra le trame del sensibile, del materico, per poi trovare il significato nell’immateriale.
Si tratta ora di continuare il viaggio all’interno della crisalide, nelle viscere del corpo, tra le trame dell’anima e le elucubrazioni del pensiero; sculture che trovano il coraggio della rottura, per poi addentrarsi nell’intimo e nella strutturazione dell’ossatura umana.
L’opera d’arte, come ci ricorda Andrè Malraux, non è solo esecuzione, ma nascita, è la vita in faccia alla vita.
Alberto Mattia Martini

Francesco Diluca è nato nel 1979 a Milano, dove vive e lavora.

Leonora Hamill, ROUFFACH

Stanza 13

Nelle mie opere mi soffermo su quella dimensione affettiva che risiede nell’empatia, in modo da rispondere con un’emozionalità appropriata ai pensieri e ai sentimenti di un’altra persona.
Rouffach è una video-installazione che mi è stata commissionata dal Centre Hospitalier de Rouffach, un ospedale psichatrico in Alsazia, Francia. La commissione ha reso possibile per me l’esperienza dell’incontro con altri esseri umani tramite l’uso della telecamera.
Il mio punto di partenza è stato l’altare del quindicesimo secolo della Madonna delle Rose di Martin Schongauer. Ho lavorato con sette pazienti poiché la preghiera alla Vergine Maria è basata su sette dolori e su sette gioie. Da questo lavoro è emersa una semplice struttura binaria – chiedere ad ogni persona quali sono stati i suoi momenti migliori e peggiori.
Ogni paziente è stato ripreso frontalmente nello studio, mentre rispondeva a queste due domande, e poi è stato anche filmato in diversi luoghi geograficamente collegati con l’ospedale – sul suolo dell’ospedale, per le strade della vicina città di Rouffach, nei vigneti che circondano l’ospedale, nel chiostro di Colmar, nelle foreste intorno, vicino ad un lago, e sulla cima della montagna più prossima. La persona si sta sempre allontanando dallo spettatore, come attraversando la cornice. Le immagini di queste persone che parlano, ascoltano e camminano nello spazio, sono giustapposte in un triplo canale di proiezione.
Leonora Hamill

Vi è l’apertura di una dialettica “nuova” all’interno di ogni personaggio, che nel rievocare le proprie esperienze a se stesso, ancor prima che allo spettatore, genera una sorta di cortocircuito fra il dire e il detto e successivamente fra il dire e l’indicibile.
Ne scaturisce uno scambio di ruoli nel quale il paziente, colui abituato ad essere assistito, prende per una volta il posto del guaritore (personale medicale) e lo spettatore diventa complice di questo meccanismo. È lui che ci conduce nei meandri dell’esperienza gioia/dolore, è lui che ci dischiude le porte della sfera empatica e anche psichica.
“Non riuscirò più a vedere questi pazienti con gli stessi occhi di prima…” è stato il commento di un infermiere che solo in quel momento si era accorto dell’inversione fra le parti.
Il nostro percepire quasi si arresta davanti alla dimensione dell’indicibile e impone riflessioni profonde sul limite impostoci dalle parole che non abbiamo mai avuto il coraggio di pronunciare, e sul diritto di essere ascoltati, quello che nella realtà di Rouffach semplicemente si definisce le droit d’ècouter.
Edoardo Testori

Leonora Hamill è nata a Parigi nel 1978. Vive tra Milano e Londra.

Piero 1/2Botta, SCALE SENZA TITOLI

Stanza 12

La mia stanza è un luogo di passaggio e un punto di vista scomodo da cui osservarmi. Eppure sono pronto ad aspettarmi ogni volta che vi entro, temporaneamente e per non essere presente. Aspettando che nuove immagini prendano forma. Lo sforzo è estremo e raccolto in sé. Dimenticare di esistere nell’assenza. E poi esco, rimane il quadro, l’immagine figurata di ciò che sono quando ricordo tutto. La vita. La mia storia sincera e nuda allo stesso tempo appare.
Piero 1/2Botta

Più spontaneamente che citazionalmente, credo che le pitture di Piero 1/2Botta sembrino ritrovare, allusivamente, l’intimità carnale che Philip Guston prima maniera e Willem de Kooning nell’intero arco della sua opera ebbero a esprimere scomponendo e ricomponendo masse corporee e masse materiche. La gestualità e la sensualità dichiarate di Piero 1/2Botta hanno tuttavia referenze pre – o extra – pittoriche, e ovviamente altre di quanto i due maestri della Scuola di New York già mezzo secolo fa ebbero a perseguire. Sono cioè autobiografiche e bagnano nel clima nato, non solo in Italia, con la pittura della Transavanguardia. Ma come lo sarebbero quelle narrate da un insetto kafkiano: contigue, complici, contaminate, da interstizialità che appaiono quando la visione percorre a raggiera la densità e i meandri delle carni, siano esse attribuibili al corpo umano, di sé, di altri, che a presenze animali. Il percorso del giovane Piero 1/2Botta, nonostante una esplicita empatia con il colore e l’interessante modo di comporre le masse colorate zoo-antropomorfe ricorrendo ad una forma rappresa di dripping che condensa e scontorna al tempo stesso questa ritrattistica dell’anonimato, segue un percorso molto coerente nel senso che l’impronta personale è già in lui ricorrenza stilistica.
Remo Guidieri

Piero 1/2Botta è nato a Fermo nel 1977. Vive e Lavora a Milano.

Mario Francesconi, S.B.

Stanza 11

Ho eseguito ritratti di Beckett per oltre 10 anni. Beckett insieme a Cèline e a Giacometti è per me (e per molti) uno dei visi più interessanti del 900, ove arte, letteratura e poesia si incontrano in una sintesi imperscrutabile ed inafferrabile. L’immagine del drammaturgo irlandese diviene sempre più un archetipo, si allontana, si smaterializza, ed accentua la sua inafferrabilità. Per questo ho scelto un materiale rigido come il ferro, che per quanto condotto da un disegno sapiente e sintetico, cerca di catturare e fissare l’immagine, quasi di imprigionarla all’interno di un reticolo mentale, per poi tramandarcelo come icona esistenziale.
Mario Francesconi

Tu sei riuscito a sottrarti al giudizio superficiale della cronologia ed anche ed ancor più alle questioni dello stile.
Se ti va, ti dico anche il perché: perché tu sei un selvaggio, sei l’artista più selvaggio che io abbia mai incontrato.
E mi offendo quando vedo e sento parlare del tuo lavoro in senso iconografico, mi ribolle il sangue quando leggo inutili citazioni.
La tua arte è “gesto”.
È il tuo gesto che lascia senza fiato. È il rapporto fra il gesto e l’idea che con te e in te nascono insieme, ma che hanno fra loro una relazione incestuosa: sono padre e figlia e l’uno non sa dove va a parare l’altra. Si inseguono, si aspettano per frazioni minime di tempo, ma non si riesce mai a intuire chi delle due prevalga. Nel tuo gesto fino all’ultimo istante non si sa dove vuoi arrivare ed il risultato è tanto più imprevedibile quanto sorprendente.
Ecco perché le tue immagini sono pugni nello stomaco ovvero strette al cuore: sono annunci che non si vogliono sentire, sono “vanitas”, sono l’addio che non si vorrebbe mai sentire dalla persona amata.
Edoardo Testori

Mario Francesconi è nato nel 1934 a Viareggio (LU), dove vive e lavora.

Massimo Uberti, GIORNI FELICI

Stanza 10

Ho appena buttato nel cassonetto dell’immondizia decine di disegni, di appunti e qualche progetto che probabilmente, fossi stato prudente, avrei conservato e trasformato in lavori, ma ho bisogno di vedere nuovo spazio e me ne sono liberato.
Ora il mio studio è completamente vuoto e mi sento a casa.
Lo spazio della pittura è nuovamente sgombro e posso decidere di varcarne la soglia, ma non subito; per qualche istante assaporo ancora l’opportunità di avere dello spazio vuoto.
Nessun peso o incombenza si mostra al mio sguardo, mi sento bene. Vedo!
Adesso nuove immagini si affacceranno e questo mi provoca eccitazione.
Fatico non poco a trattenermi, ma devo resistere, devo stare calmo: gesti incauti in questo momento d’assenza di gravità possono compromettere tutto.
La magia privata di questo vuoto resiste alcuni istanti, attimi in cui nessun segnale è attivo, solo io e questo spazio luminoso attorno a me. Resto immobile per quanto possibile, ma stare fermo non è semplice e, poco dopo, inizio a muovermi e ci finisco dentro. Parto.
Al mio ritorno scopro con stupore che nello studio sono comparsi nuovi progetti e nuove immagini, cosa faccio? Attendo?
No. Me ne vado e provo a dormire ma mi sveglio presto, ritorno in studio e scopro che il cassonetto di fronte è di nuovo vuoto… Non resisto, sento la necessità impellente di buttare tutto. Lo faccio. Rivedo lo spazio amato.
Riparto.
Massimo Uberti

Massimo Uberti è un artista della luce, che interviene nello spazio trasformandolo in un magico gioco di costruzioni e allusioni, forme e idee. Da oltre un decennio utilizza tubi bianchi al neon per comporre immagini metafisiche e disegnare ambienti virtuali, sospesi nel tempo poetico e rivelatore dell’arte (di illuminare). Semplici profili di luce ci avvicinano alla pratica intellettiva del linguaggio (Scrittoio, 2000) o ci introducono all’immagine del luogo più familiare (Avvolgente casa, 2009). Installazioni luminose più articolate e complesse ci proiettano nell’illusione spaziale dell’illimitato (Senza fine, 2006) e nell’aspirazione temporale all’interminabile (Tendente infinito, 2008). Scritte al neon ci annunciano l’assunzione testuale (nell’arte) di una dimensione insieme fisica e mentale, concreta e ideale (Spazio amato, 2008; Altro spazio, 2010).
L’ultima creazione, concepita per Casa Testori, combina nel vuoto di una stanza elementi strutturali abitualmente usati come supporti, sovrapposti fra loro, a segmenti luminosi orizzontali di misura crescente, fissati a distanza regolare e intersecati ai primi: un’opera progressiva ed espansiva, che si eleva dal materiale all’etereo, dal reale all’apparente, dal corporeo all’affettivo (Giorni felici, 2011).
Stefano Pezzato

Massimo Uberti è nato nel 1966 a Brescia, dove vive e lavora.

Danielle Sassoon, VIA FATEBENEFRATELLI 20

Stanza 9

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti, a persone e/o cose realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Danielle Sassoon

“Stanze” nella stanza. “Stanze” di un passato impregnato di paura e di dolore in una stanza invasa invece dalla luce felice del giardino lombardo. Strisciate di sofferenza che prendono coraggio, che escono dal buco nero in cui se ne stavano rintanate. È il nodo del passato che riaffiora come per una necessità, preso per mano da un destino imprevisto e non più nemico. Il dolore muto di quelle stanze vissute da un’infanzia ferita, prende voce. Dolore visibile, non più nemico, come un compagno di strada ritrovato. Si avverte quasi un desiderio di accarezzare quel dolore, di prendersene finalmente cura. Di ripetere e ripetersi che aveva ed ha un senso.
Come tanta arte femminile di questi decenni anche quella di Danielle Sassoon è ferocemente sincera con se stessa. Non fa sconti. Mette a nudo l’anima con crudezza. Ma questo non impedisce di farsi canto. Nella stanza le “stanze” intonano finalmente il loro straziato canto.

Danielle Sassoon è nata nel 1965 a Milano, dove vive e lavora.

Piero Fogliati, LATOMIE

Stanza 8

Ogni cosa in fondo ha il suo centro che va svelato. Noi abbiamo il nostro centro, che però non sveliamo, lo teniamo ben nascosto. La mia è l’essenza delle cose, cioè penetrare all’interno della realtà e cercare di svelarne questi segreti nascosti. Io sono lo scienziato che tradisce la scienza. Vale a dire, io prima mi impossesso di tutti quei mezzi che oggi ho fortunatamente a disposizione e poi la tradisco perché invece che utilizzarla per fare oggetti di consumo, oggetti pratici, io utilizzo tutte le mie conoscenze per indirizzare questi risultati, queste invenzioni per ottenere un fatto estetico.
Piero Fogliati

E mentre lavorava faticosamente ad una pompa di benzina, negli inverni freddi di una città industriale già grande, elaborava di notte i suoi progetti fatti di immaterialità, di leggerezza, la sua speranza di restituire al mondo la sua vivibilità sulla scia di Constant, appunto, di Klein e anche, già, di Calvino, pensando alla sua utopica “Città  ideale”, col suo Tempio della Luce, il suo fiume, le cui acque sarebbero risuonate di nuovi ritmi, le gocce di pioggia avrebbero preso colore, i venti avrebbero creato sculture impalpabili e invisibili ma percepibili dai nostri sensi, i rumori si sarebbero trasformati in suoni…
Lara-Vinca Masini

Piero Fogliati è nato a Canelli (AT) nel 1930.Vive e lavora a Torino.

Agostino Osio, OLTRE ORIZZONTI

Stanza 7

Le immagini presentate fanno parte di un progetto più ampio che ha come protagonisti l’albero e l’orizzonte.
Il primo, nella sua verticalità , si propone come ponte spirituale tra cielo e terra.
Il secondo è indagato come punto di contatto vibrante tra un movimento ascensionale verso il cielo – che nel mio lavoro non è uno spazio secondario – e uno discendente, verso la terra osservata nella sua materia primordiale.
Lo sguardo, che attraversa l’orizzonte, da un lato si ritrae verso una qualche regione di me stesso, dall’altro spazia verso un immaginario alto e intangibile, l’oltre-orizzonte.
L’orizzonte, in quanto spazio di confine e collocato nella metà di ogni immagine, si presenta quindi come la linea mediana e strutturale dei quattro movimenti.
Lungo la linea di confine s’innalza la montagna. La sua base coincide con la terra, con ciò che è materico e manifesto, ma la sua altitudine la consacra a tutto ciò che è alto e si eleva verso uno spazio superiore.
Le fotografie presentate sono il frutto della ricomposizione di più scatti, di 9, 12, 15, 16, 20 o 25 immagini. Questa soluzione è stata dettata da una sfida stilistica, cioè quella di offrire un paesaggio il più vicino possibile all’architettura dell’immagine che solo il grande formato 20 x 25 può restituire.
Agostino Osio

Non direi Orizzonti, ma Incontri.
Gli incontri sono fondamentali per la vita: incroci che sono punti di svolta o prosecuzione di cammini già intrapresi.
L’incontro tra terra e cielo è sempre là, in un punto, su una linea statica.
A volte è la terra che si slancia, a volte è il cielo che scende, basso.
Il punto di contatto è fortemente immobile, senza tempo.
Attilio Maranzano

Agostino Osio è nato nel 1978 a Milano, dove vive e lavora.

Aldo Rossi, CUCINA

Stanza 6

La caffettiera, tra gli altri recipienti, o apparecchi domestici, si presta particolarmente a diverse trasposizioni, ed analogie con gli edifici e le forme dell’architettura. Particolarmente con cupole, campanili, minareti e non è quasi mai separata da una certa aria o stile orientale o più particolarmente turchesca nel senso settecentesco. È indubbio ma la sua presenza nelle composizioni di interni o nature morte conferisce una solidità dell’immagine che avvicina la composizione al paesaggio e particolarmente al paesaggio urbano dove predominano torri, cupole ed edifici diversi.
Aldo Rossi

Rossi era un po’ diffidente nei confronti dell’industria in generale, ma l’Alessi gli piacque e si lanciò in lunghi studi sugli oggetti per il caffè, diventati nel tempo una specie di ossessione: note, schizzi, fotografie, disegni, progetti di diverso tipo, per Rossi la caffettiera è per eccellenza il simbolo del rapporto dialettico tra l’architettura (o meglio l’urbanistica) e il “paesaggio domestico” in cui questo monumento in miniatura si inserisce. Da questa ricerca sono nate La conica, La cupola, Ottagono e altri oggetti legati al rito del caffè.
Alberto Alessi

Aldo Rossi è nato e vissuto a Milano dal 1931 al 1997.

Sabrina Mezzaqui, FORSE NON SIAMO QUI PER DIRE: CASA, PONTE, FONTANA…

Stanza 5

I lavori scelti per questa mostra sono foto e hanno a che fare con la finestra e col paesaggio.
Quando le parole atterrano, il momento in cui ci arrivano le parole, le parole vengono da noi, entrano e ci parlano, poi parlano attraverso di noi. Le parole arrivano sulla terra e noi le captiamo attraverso i sensi: l’udito, la vista… Come la pioggia che dispone un suo ordine di gocce sul vetro della finestra e il sole che filtra attraverso la tapparella e disegna macchie di luce sulla credenza della cucina.
Segni. Il libro è composto da 60 immagini: foto di uccelli in volo scattate tra il 2005 e il 2009, a cui è stato tolto il colore del cielo, sostituito dalla carta della pagina. Questo lavoro è la visualizzazione della parola contemplare, così come appare nel vocabolario: Contemplare [vc. dotta, lat. contemplari ‘trarre qualche cosa nel proprio orizzonte’, da templum ‘spazio o circolo di osservazione che l’augure descriveva col suo lituo per osservare nell’interno di esso il volo degli uccelli’] (Il nuovo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli).
Penso ad un brano della Nona Elegia di Rilke, dove dice:
…Forse noi siamo qui per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,
mai intendevano d’essere…
Sabrina Mezzaqui

Sabrina Mezzaqui lavora in casa, non in studio, sulle colline bolognesi, a pochi chilometri dalla Vergato di Ontani e dalla Grizzana di Morandi. Anche loro lavoravano in casa, forse una caratteristica dei luoghi. Sabrina lavora seduta al tavolo, taglia, incide, piega, infila, pensa e guarda fuori dalla finestra. Il mondo le passa davanti, sempre mutevole, e lei lo osserva, non credo lo studi: lo vive, piuttosto. C’è molta manualità nel suo lavoro, una volta pensato. C’è molto da fare, il tempo sembra addensarsi. Il suo stesso lavoro è la misura di tutto il tempo di cui l’artista dispone. La vita che passa e che il lavoro scandisce, come la geometrica ripetizione di una litania dalle minime varianti impercettibili.
Massimo Minini

Sabrina Mezzaqui è nata a Bologna nel 1964. Vive e lavora a Marzabotto (BO).